ISSN 2385-1376
Testo massima
A cura degli Avv.Ti Fausto Magi e Avv.Daniele Peccianti
Azione di ripetizione d’indebito: l’onere di provare l’effettuazione di rimesse solutorie grava sul correntista attore.
La sentenza del Tribunale di Siena, pronunziata dal Giudice Stefano Caramellino, in data 07/07/2014 nella sua linearità ed acutezza di argomentazioni, afferma un principio pacifico, ma allo stesso tempo importante e non scontato in giurisprudenza, in una fattispecie di azione di ripetizione d’indebito promossa dal correntista nei confronti della propria Banca.
Principio non scontato dicevamo, in quanto in tema dell’onere della prova nel contenzioso bancario si assiste molte volte ad interpretazioni “forzate“, non sempre conformi al diritto (si veda a tal proposito l’annosa querelle del cd. “saldo zero“). Quando è la banca ad agire per il recupero di un proprio credito dovrebbe spettare ad essa provare gli elementi costitutivi del diritto fatto valere, e ciò in conformità al principio espresso dall’art. 2697 c.c. in tema, appunto, di onere probatorio.
Tali principi non sono però evidentemente applicabili da un punto di vista giuridico quando ad agire è il correntista nei confronti dell’istituto di credito.
Nelle ipotesi in cui il correntista agisca a titolo di ripetizione di indebito nei confronti della propria Banca su di lui cadrà l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi dell’azione promossa, sia, pertanto, la mancanza della “causa debendi“, sia il pagamento indebito.
Tale è il principio che si ricava dalla sentenza del Tribunale di Siena.
Afferma infatti il Tribunale che “
Requisito essenziale dell’azione di ripetizione dell’ indebito è l’esistenza di un pagamento, che nei rapporti tra banca e cliente deve essere identificato in una rimessa solutoria “. Da qui il rigetto della richiesta di ammissione di CTU, che avrebbe carattere esplorativo, e della domanda, in quanto al di là dell’unica rimessa solutoria effettuata nella concreta fattispecie da un terzo relativamente alle precedenti rimesse difetta in atti “
.alcun principio di prova del loro carattere solutorio
”
La sentenza si pone in linea con autorevole giurisprudenza di merito secondo la quale quando è il correntista ad agire per ottenere la restituzione di poste “indebite” asseritamente addebitate sul proprio conto corrente l’onere della prova non può che ricadere integralmente a suo carico (cfr. Trib. Roma, 26 febbraio 2013, n. 4233, in www.expartecreditoris.it; Trib. Monza 18 maggio 2011 Dott. Federico Rolfi, in archivio www.expartecreditoris.it), con la conseguenza, ad esempio, che quando questi deduce la nullità di determinate clausole contrattuali è tenuto a provare, mediante la produzione del relativo contratto, il contenuto delle clausole nulle (cfr. Trib. Milano 3 giugno 2014, in www.expartecreditoris.it; Trib. Savona 2.6.2014 n.861 in www.expartecreditoris.it; Trib. Milano 26.11.2013 ordinanza in causa RG. 12357/2013, inedita; Trib. Palmi 4.3.2011 inedita).
Le conseguenze interpretative che possono, almeno all’apparenza, trarsi coerentemente dal provvedimento in commento appaiono pienamente in linea con l’orientamento della Suprema Corte.
La dicotomia “rimessa solutoria-rimessa ripristinatoria“, introdotta in materia dalla nota sentenza delle SS.UU. 24418/2010 è applicata dal Tribunale di Siena con coerenza rigorosa (solo la rimessa solutoria è ripetibile).
Altrettanto, per i rilevati motivi, può dirsi in merito all’applicazione della regola sull’onere probatorio.
Se l’attore vanta pretese restitutorie non può farlo, evidentemente, che in relazione a pagamenti che egli sostiene di aver effettuato a fronte di una pretesa indebita della banca (cioè gli addebiti illegittimi), la quale, come ha insegnato correttamente la Suprema Corte, non potrebbe essere invece oggetto di autonoma domanda di restituzione (“Invero l’annotazione in conto di una posta di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito dello stesso correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nel senso che non vi corrisponde alcuna attività solutoria nei termini sopra indicati in favore della banca“: Cass. 798/2013).
Sarà lui, pertanto, a doverne provare l’avvenuta effettuazione.
La generica affermazione, da parte dell’attore, di aver effettuato rimesse di cui non è provata la natura solutoria si risolve nel rilievo della natura meramente ripristinatoria delle stesse e, pertanto, coerentemente con Cass. 24418/2010, nella loro irripetibilità.
Ripetibile, in quel caso, perché certamente solutorio, è solo l’eventuale pagamento susseguente alla chiusura del conto, in relazione al quale il Tribunale, nel caso deciso dalla sentenza in commento, non ha però accolto la domanda, trattandosi di adempimento non effettuato dall’attore.
Di particolare rilievo è infine la circostanza che il Tribunale non ha neppure consentito all’attore di integrare il proprio onere attraverso il ricorso ad una CTU che sarebbe servita, evidentemente, ad aggirare la regola di cui all’art. 2697 c.c. La stessa consulenza tecnica di parte prodotta dall’attore a corredo della domanda conteneva dati utili al ricalcolo del saldo passivo del conto corrente dedotto in giudizio ma era priva di una specifica allegazione e tantomeno di uno specifico principio di prova circa la natura solutoria, anziché ripristinatoria, delle rimesse emergenti dagli estratti conto frammentariamente prodotti.
Da notare inoltre che, nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Siena, la banca convenuta non aveva formulato l’eccezione di prescrizione. La sentenza, avendo posto incondizionatamente a carico dell’attore l’onere di provare la natura solutoria delle rimesse, offre comunque uno spunto di riflessione sulla portata della recente sentenza 4518/2014 della Corte di Cassazione, la quale, come noto, in punto di prescrizione ha posto invece detto onere a carico della parte convenuta che la eccepisce.
Un’ultima osservazione, frutto però di una interpretazione non ricavabile direttamente dalla sentenza. Il Giudice ha operato una corretta separata disamina tra la ripetibilità della rimessa susseguente alla chiusura del conto esclusa non perché non solutoria ma per difetto di legittimazione in capo all’attore e di quelle intervenute in costanza di rapporto. Di questa ultime, come visto, ha escluso la ripetibilità perché l’attore non ne ha provato la natura solutoria e le ha conseguentemente qualificate come meramente ripristinatorie. Se ne deduce che, quando sul conto intervengono solo rimesse ripristinatorie, la domanda potrebbe avere ad oggetto soltanto la contestazione del saldo debitore di chiusura del conto, nella misura in cui lo stesso in parte o per l’intero risulti viziato da addebiti illegittimi. L’attore non potrebbe pretendere in ripetizione nessun importo ulteriore sopravanzante detto saldo, neppure attraverso la congiunta richiesta di ricalcolo del saldo di chiusura del conto e condanna della Banca alla restituzione dell’eventuale saldo creditore (o maggiormente creditore) risultante dal ricalcolo. Infatti, attraverso detto ricalcolo, le rimesse precedentemente appurate come ripristinatorie verrebbero ad incrementare in favore dell’attore il saldo di chiusura, generando un effetto ripetitorio in tutto e per tutto equivalente a quello non consentito.
Testo del provvedimento
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