In merito all’individuazione del termine ultimo ai fini dell’insinuazione al passivo di un credito sorto successivamente alla declaratoria di fallimento, le domande sopravvenute sono ammissibili qualora vengano depositate oltre il termine di cui all’art. 101, 1 co., L.F. e fin quando non siano esaurite le ripartizioni dell’attivo fallimentare, a prescindere dall’indagine sulla sussistenza del presupposto della non imputabilità della tardività della domanda al creditore.
Questo il principio sancito dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. prima, Pres. Forte – Est. De Chiara, con sentenza n. 16218 del 31 luglio 2015, con una decisione in merito all’individuazione del termine finale per l’insinuazione tardiva al passivo di un credito sopravvenuto al fallimento.
Trattasi, in particolare, di un credito vantato da promissari acquirenti di beni immobili promessi in vendita da una società poi dichiarata fallita. Segnatamente, il caso in esame attiene alla problematica dell’ammissibilità al passivo di una domanda tardiva avente ad oggetto la richiesta di restituzione degli acconti versati dai promissari acquirenti nei confronti della società fallita, al momento della stipulazione del contratto preliminare di vendita; contratto dal quale il curatore fallimentare si è sciolto ex art. 72 L.F..
Rilevante è il richiamo all’art. 101 L.F.. Invero, tale dispositivo, rubricato “domande tardive dei crediti”, disciplina le ipotesi di domande di insinuazione al passivo trasmesse al curatore oltre il termine dei 30 giorni dall’udienza di verifica del passivo, termine fissato per il deposito delle domande di ammissione al credito cd. “tempestive”.
Il legislatore, all’art. 101 L.F., nel definire tardive le domande trasmesse al curatore oltre il suddetto termine di 30 giorni, individua, altresì, il termine ultimo entro le quali le stesse possono essere trasmesse al curatore, ovvero entro dodici mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, salvo proroga al diciottesimo mese.
La presente pronuncia della Cassazione si caratterizza per aver acclarato un principio innovativo in merito all’individuazione del termine ultimo ai fini dell’insinuazione al passivo di un credito sorto successivamente alla declaratoria di fallimento.
Invero, mentre per qualsiasi credito sorto anteriormente alla dichiarazione di fallimento, il termine ultimo per l’ammissione al passivo è stato, dal legislatore, esplicitamente individuato nei dodici mesi o diciotto mesi (in caso di proroga disposta dal Tribunale nella sentenza di fallimento) decorrenti dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, ex art. 101, 1 e 4 co., L.F.; per i crediti sorti successivamente al fallimento, secondo la Suprema Corte, non si applica il limite temporale di cui all’art. 101 L.F. Essa, infatti, afferma che le domande aventi ad oggetto un credito sorto successivamente alla dichiarazione di fallimento, possono essere trasmesse al curatore in qualsiasi momento, o meglio, fino a quando non si sono esaurite le ripartizioni dell’attivo fallimentare, a prescindere dall’imputabilità o meno della tardività della domanda.
Invero, ai sensi dell’art. 101, 4 co., L.F., decorso il suddetto termine annuale o di 18 mesi, le domande tardive sono ammissibili comunque fino a quando non siano esaurite tutte le ripartizioni dell’attivo fallimentare, ma a condizione che l’istante provi che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile.
Con ciò si intende evidenziare che, secondo la Cassazione, nel caso di domande sopravvenute al fallimento esse sono ammissibili qualora vengano depositate oltre il termine di cui all’art. 101, 1 co., L.F. e fin quando non siano esaurite le ripartizioni dell’attivo fallimentare, a prescindere dall’indagine sulla sussistenza del presupposto della non imputabilità della tardività della domanda al creditore.
La questione sottoposta alla Suprema Corte è, come detto, quella relativa a dei crediti vantati da promissari acquirenti che, stante la manifestazione di volontà del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita ex art. 72 L.F., agivano per la restituzione degli acconti versati in virtù del contratto preliminare.
La necessità di una pronuncia da parte del giudice di legittimità, sul caso di specie, è data dal fatto che, nonostante il curatore avesse manifestato la volontà di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita in data anteriore alla scadenza del termine annuale previsto ex art. 101 L.F., per l’insinuazione tardiva, il creditore agiva per l’ammissione al passivo ben oltre il suddetto termine con la successiva dichiarazione di inammissibilità della domanda da parte del Tribunale.
Secondo il Tribunale tale domanda di insinuazione allo stato passivo era inammissibile in quanto il creditore aveva proceduto al deposito della stessa oltre il termine annuale, nonostante il curatore avesse manifestato la volontà di sciogliersi dal contratto in una data antecedente alla scadenza annuale, con la conseguenza che non poteva trovare applicazione l’art. 101, 4 co. L.f. stante l’imputabilità della tardività della domanda di insinuazione al creditore agente.
Il creditore ricorreva in Cassazione, ritenendo infondata la suddetta inammissibilità, per due ordini di motivi.
Un primo motivo di ricorso, si svolge nella considerazione che si configura violazione di legge e, precisamente dell’art. 101 L.F., nel caso in cui si applica anche per i crediti successivi alla declaratoria del fallimento il termine decadenziale di cui al comma 1° e sull’osservazione che alcun termine ultimo viene espressamente individuato dal legislatore nel caso di deposito di domande ultratardive per mancata colpa del creditore.
Un secondo motivo di ricorso si riscontra nella sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 101 L.F., per violazione dell’art. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che i creditori sopravvenuti o incolpevoli possono presentare istanza di ammissione al passivo entro il termine di decadenza annuale (o di 18 mesi in caso di proroga).
A tali argomentazioni, la Cassazione afferma che il termine annuale di cui all’art. 101, L.F. non si applica in caso di crediti sopravvenuti sia per la mancanza di un esplicito riferimento testuale in tal senso, sia perché ben può il credito sorgere anche successivamente al termine annuale.
Rilevante è anche l’osservazione della Corte per la quale non necessariamente la sopravvenienza del credito è sintomo della non imputabilità della tardività della domanda al creditore, con obbligatorietà a dichiarala ammissibile ex art. 101, u.c., stante l’ipotesi che il carattere sopravvenuto del credito può dipendere anche da colpa del creditore.
In ogni caso, secondo la Suprema Corte, anche laddove il termine non fosse scaduto esso non può trovare applicazione per i crediti sopravvenuti alla dichiarazione di fallimento, data la violazione del principio di uguaglianza, in quanto si sottoporrebbe un credito ad un termine decadenziale più breve rispetto ai crediti non sopravvenuti.
Alla luce di tali osservazioni, la Cassazione afferma il principio di diritto che “ l’insinuazione al passivo dei crediti sorti in data successiva alla dichiarazione di fallimento non è soggetta al termine di decadenza di cui alla L.F. art. 101, commi 1 e u.c..”.
La decisione della Suprema Corte desta determinate perplessità.
Essa si fonda sul presupposto secondo il quale l’art. 101 L.F. trova applicazione soltanto per i crediti sorti anteriormente alla declaratoria fallimentare, escludendo del tutto quelli sopravvenuti.
Si osserva che, non è del tutto logico tale presupposto argomentativo su cui si fonda l’intera tesi sviluppata dalla Corte che ha indotto la stessa ad affermare il principio di diritto per il quale il termine decadenziale di cui all’ art. 101 L.F. non trova applicazione ai crediti sopravvenuti.
Tale articolo, rubricato “ domande tardive di crediti”, nel contenuto del suo testo non sembra assolutamente richiamare l’applicazione del disposto ai soli crediti anteriori al fallimento, né tanto meno si può affermare che il legislatore non abbia consapevolezza della sussistenza di crediti successivi alla dichiarazione di fallimento.
Lo stesso, invero, esplicitamente, disciplina molteplici ipotesi di crediti cd. sopravvenuti e per di più alcuni prededucibili.
Tra le ipotesi di crediti sopravvenuti si annoverano, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, quelle di cui all’ art. 61 L.F (diritto di rivalsa del coobbligato e fideiussore che pagano il creditore dopo la dichiarazione di fallimento), all’ art. 70 L.F., (il convenuto dell’azione revocatoria può insinuarsi nella procedura fallimentare per il suo eventuale credito) nonché ipotesi di crediti prededucibili che possono essere sopravvenuti al fallimento.
I crediti prededucibili, infatti, possono essere anche sopravvenuti, in quanto oltre a quelli previsti legislativamente, sono tali anche quelli sorti in occasione o in funzione della procedura fallimentare.
Il legislatore ha stabilito che anche i crediti prededucibili contestati per collocazione e/o ammontare devono essere accertati mediante insinuazione, tempestiva o tardiva.
Trattasi, anche in questo caso, di crediti che, pur non avendo la natura concorsuale, sono sorti successivamente alla dichiarazione di fallimento.
Pertanto, alla luce di tale riflessione, non è condivisibile il principio enunciato dalla Suprema Corte sulla mancata applicabilità del termine decadenziale di cui all’art. 101 l.f. per i crediti sorti successivamente al fallimento.
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