ISSN 2385-1376
Testo massima
In tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale (ancorché non automatica e necessaria) della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l’Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto.
E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione seconda, con sentenza n.1070 pronunziata in data 20/01/2014 in materia di risarcimento del danno non patrimoniale.
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano impugnato per revocazione la sentenza della prima sezione civile della Corte di Cassazione che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso dagli stessi proposto per l’ottenimento dell’equa riparazione in ordine alla durata irragionevole di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Lazio.
In particolare, i ricorrenti avevano censurato la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè dell’art. 6 p. 1 della C.E.D.U., che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale libero da qualsiasi onere probatorio.
Ebbene, la Cassazione civile, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto fondato il ricorso sul presupposto che, in tema di equa riparazione ai sensi della L.89/2001 art.2, la sofferenza morale per l’eccessivo protrarsi di un processo amministrativo o contabile, quale conseguenza normale di tale irragionevole durata, non può essere disconosciuta per la sola mancanza di istanze dirette a sollecitare la decisione, trattandosi di omissione rilevante solo ai fini dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio non patrimoniale, non già per escluderlo.
In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, hanno accolto il ricorso per revocazione e, per l’effetto, revocato la sentenza impugnata rinviando la causa innanzi alla Corte territoriale.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso per revocazione (iscritto al N.R.G. 9790/12) proposto da:
F.R. , S.A., R.G., A.G.;
G.F., M.G. C.G, CE, AL e FI.SE.
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro-tempore;
– intimato –
Avverso la sentenza n. 25010/11 della 1^ Sezione civile della Corte di Cassazione, depositata il 25 novembre 2011 (e non notificata);
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 13 dicembre 2013 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, con sua decisione nel merito.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza n. 25010 del 2011 (depositata il 25 novembre 2011 e non notificata), la Prima Sezione civile di questa Corte dichiarava l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto nell’interesse dei ricorrenti indicati in intestazione avverso il decreto n. 453/08 della Corte di appello di Firenze adottato all’esito di un procedimento conseguente ad una domanda di equa riparazione formulata ai sensi della L. n. 89 del 2001 nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
I predetti ricorrenti hanno impugnato per revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. la suddetta sentenza deducendo che, con la stessa, il collegio aveva illegittimamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso, avendo fondato la sua decisione sull’errore di fatto della ritenuta insussistenza del quesito di diritto (imposto dall’art. 366 bis c.p.c., “ratione temporis” applicabile) a corredo dell’unico motivo avanzato, che, invece, risultava inequivocabilmente riportato a conclusione della medesima censura (per come potevasi rilevare, inequivocamente, a pag. 12 del testo del ricorso proposto avverso il decreto della Corte fiorentina).
Con ordinanza interlocutoria n. 12237 del 2013 (depositata il 20 maggio 2013), il designato collegio della 6^ Sezione civile di questa Corte dichiarava – in sede rescindente – l’ammissibilità del proposto ricorso per revocazione e rinviava per l’esame dell’adeguatezza del quesito – e, quindi, per la valutazione della fondatezza o meno del ricorso ordinario ritenuto erroneamente inammissibile – alla competente fase rescissoria, da trattare in pubblica udienza.
Rileva il collegio che il formulato ricorso per cassazione – la cui istanza di revocazione è stata già ritenuta ammissibile in sede camerale – è fondato e deve, perciò, essere accolto nel termini che seguono, previa revocazione della predetta sentenza di questa Corte n. 25010 del 2011.
Come già rilevato in sede rescindente, i ricorrenti – con il ricorso formulato avverso il menzionato decreto della Corte di appello di Firenze, con il quale era stata dichiarata l’inammissibilità della domanda (per sua assunta indeterminatezza) proposta per l’ottenimento dell’equa riparazione in ordine alla durata irragionevole di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Lazio – avevano denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè dell’art. 6 p. 1 della C.E.D.U., formulato, all’esito della relativa doglianza, il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se, nei giudizi in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo ex artt. 6 Cedu e e L. n. 89 del 2001, il diritto all’equo indennizzo del danno non patrimoniale, in assenza di specifica prova contraria, consegua normalmente all’accertamento dell’avvenuta violazione del termine, configurandosi quale danno conseguenza e, pertanto, senza che vi sia necessità per la parte istante di assolvere a specifici oneri probatori in ordine alla concreta esistenza ed entità di tale danno non patrimoniale”.
Ciò posto e ritenuto che il limite dell’errore percettivo chiaramente posto dalla legge alla revocazione della sentenza della Corte di cassazione riconduce l’ambito di ammissibilità di detta impugnazione all’ipotesi di svista o mancata attenzione su di un fatto materiale o processuale che si traduca in una omessa percezione dell’esistenza stessa di un motivo di ricorso o di un suo requisito essenziale, come – proprio – la formulazione del quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c. (cfr., da ultimo, Cass. n. 4605 del 2013, ord.), la censura in questione è da considerarsi manifestamente fondata, poiché il quesito di diritto esternato nei sensi precedentemente richiamati si sarebbe dovuto considerare ritualmente formulato (con la correlata ammissibilità del motivo a cui esso si riferiva), siccome rispondente ai principi stabiliti in proposito dalla giurisprudenza di questa Corte, risultando congruo, specifico e rapportato alla violazione di legge dedotta (consentendo la comprensione dalla sua sola lettura di quale fosse l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare: cfr., ad es., Cass. n. 8463 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 774 del 2011).
Chiarito quanto innanzi, ne consegue che è necessario esaminare la fondatezza del motivo di ricorso proposto avverso il decreto della Corte di appello fiorentina, illegittimamente dichiarato inammissibile.
La censura si prospetta meritevole di accoglimento.
Si osserva, in proposito, che nel giudizio per l’equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, la parte assolve all’onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a determinare la durata complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della Corte d’appello adita di accertare, d’ufficio o su sollecitazione dell’Amministrazione convenuta, le cause che abbiano giustificato in tutto o in parte la durata del procedimento (cfr. Cass. n. 2207 del 2010). E’ anche risaputo che il danno patrimoniale indennizzabile come conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, è soltanto quello che costituisce “conseguenza immediata e diretta” del fatto causativo (art. 1223 c.c. richiamato dall’art. 2, comma 3, legge cit. attraverso il rinvio all’art. 2056 c.c.), in quanto sia collegabile al superamento del termine ragionevole e trovi appunto causa nel non ragionevole ritardo della definizione del processo presupposto. Si è altresì puntualizzato che, in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, solo il danno patrimoniale, diversamente da quello non patrimoniale (per il quale occorre soltanto l’allegazione quale consequenza dell’irragionevole durata del processo presupposto), deve essere oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli estremi, fra l’altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto (cfr. Cass. n. 5213 del 2007 e, da ultimo, Cass. n. 14775 del 2013).
Oltretutto, la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 14975 del 2012) ha anche sottolineato che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, la sofferenza morale per l’eccessivo protrarsi di un processo amministrativo o contabile, quale conseguenza normale di tale irragionevole durata, non può essere disconosciuta per la sola mancanza di istanze dirette a sollecitare la decisione, trattandosi di omissione rilevante solo ai fini dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio non patrimoniale, non già per escluderlo, atteso che la presenza di strumenti sollecitatori non sospende, nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, nè trasferisce sul ricorrente la responsabilità per il superamento del termine ragionevole di definizione.
In definitiva, deve affermarsi il principio di diritto alla stregua del quale, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale (ancorchè non automatica e necessaria) della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l’Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto (v. Cass. n. 21857 del 2005 e Cass. n. 19979 del 2009).
Non essendosi conformata la Corte fiorentina a tale principio, consegue la cassazione del decreto impugnato con il correlato rinvio della causa (occorrendo valutare la durata complessiva del giudizio presupposto anche tenendo conto di eventuali ritardi addebitabili alle parti e di altri possibili impedimenti verificatisi nello svolgimento del giudizio non attribuibili all’Amministrazione giudiziaria) dinanzi alla stessa Corte, in diversa composizione, che, oltre ad attenersi al predetto principio di diritto, provvedere a regolare anche le spese delle varie fasi giudiziali pregresse nonchè di quelle del presente giudizio.
PQM
La Corte accoglie il proposto ricorso per revocazione e, per l’effetto, revoca la sentenza della I Sezione civile di questa Corte n. 25010 del 2011; pronunciando, conseguentemente, sul ricorso formulato dai ricorrenti avverso il decreto della Corte di appello di Firenze emesso nel proc. di V.G. n. 453/2008, lo accoglie; cassa il decreto stesso e rinvia la causa, anche per le spese delle complessive fasi giudiziali pregresse e di quelle del presente giudizio, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione civile, il 13 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2014
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Numero Protocolo Interno : 44/2014