La Corte di Cassazione con la sentenza 22/05/2020 n. 9461, interviene nuovamente sul delicato problema degli effetti della messa in liquidazione coatta amministrativa determinando il relativo provvedimento di liquidazione, l’inammissibilità o l’improcedibilità della domanda di accertamento di un credito allorchè, rispettivamente, sia intervenuto prima o dopo la proposizione della domanda stessa.
L’occasione per ribadire tale principio è stata fornita alla Corte Regolatrice nel caso di una cliente di un noto Istituto di credito, citato in giudizio dalla donna, la quale assumeva di aver concluso un contratto di investimento in fondi, appartenenti ad una tipologia altamente speculativa, di cui non avrebbe avuto la reale percezione in difetto di somministrazione, nel caso di specie, degli obblighi informativi previsti dal TUF, con la conseguenza che il contratto doveva ritenersi invalido e/o inefficace con diritto della donna al risarcimento dei danni.
Sullo sfondo, le note questioni circa la esistenza del contratto quadro dell’investimento e/o la inadeguatezza della operazione finanziaria, la avvenuta consegna o meno del documento dei rischi, la configurabilità di un conflitto di interessi determinato dal fatto che la banca, in funzione di precisi accordi con la società di gestione del risparmio (SGR) emittente, avrebbe intrapreso una campagna promozionale di collocazione dei fondi per cui aveva un interesse economico.
Tutte questioni che agitano da tempo dottrina e giurisprudenza.
Orbene, il Tribunale di Treviso, qualificando la responsabilità della Banca come precontrattuale, ha ritenuto decorso il termine di prescrizione quinquennale. Impugnata la sentenza avanti la Corte di Appello di Venezia, questa, opinando, al contrario, che la responsabilità della banca fosse di natura contrattuale, aveva accolto l’appello condannando l’Istituto di credito al risarcimento danni.
La questione, quindi, è approdata in Cassazione su ricorso della Banca, la quale, con la sentenza in commento, riscontrata l’esistenza di una questione che poteva definire la controversia, affermava in limine litis il seguente principio di diritto: “la messa in liquidazione coatta amministrativa di una Banca, al pari della dichiarazione di fallimento, non determina la interruzione del processo di legittimità. Tuttavia, poiché anche nella liquidazione coatta amministrativa tutti i crediti devono essere azionati in sede di formazione e verifica dello stato passivo, davanti gli organi della procedura, la domanda formulata in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della procedura concorsuale, diventa improcedibile e tale improcedibilità è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di Cassazione, discendendo da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della par condicio creditorum”.
Ed invero, hanno precisato gli Ermellini, che “nelle procedure concorsuali rileva il principio secondo il quale tutti i crediti vantati nei confronti della imprenditoria insolvente devono essere accertati secondo le norme che disciplinano il concorso, di tal chè la domanda formulata da chi si afferma creditore in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della liquidazione coatta amministrativa, diviene improcedibile e tale improcedibilità sussiste anche se la procedura concorsuale sia stata aperta, dopo una pronuncia di condanna nei confronti della impresa insolvente, nel corso del giudizio di Cassazione”.
Come è noto, la liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale caratterizzata da finalità liquidative ed applicata a determinate categorie di imprese, individuate dalle leggi speciali (esempio, imprese bancarie, assicurative, di intermediazione finanziaria, enti pubblici, ecc.). Trattasi di una procedura alternativa rispetto al fallimento, che determina, da un lato, la liquidazione dei beni dell’imprenditore funzionale alla soddisfazione dei creditori, nel rispetto del principio della par condicio creditorum, connotandosi, dall’altro, per la finalità pubblicistica.
Infatti, ad essere tutelato, primariamente non è tanto l’interesse della classe creditoria, quanto, piuttosto l’interesse pubblico legato alla natura o all’attività dell’impresa (enti, aziende o società assoggettate a controllo pubblico o chiamate a gestire ingenti mezzi finanziari affidati dalla collettività, ecc.), la cui insolvenza o crisi economica-finanziaria potrebbero compromettere l’interesse dei consociati ad una Healthy Economy coerente con l’utilità sociale.
La liquidazione coatta amministrativa è una procedura simile a quella fallimentare da cui si differenzia per l’organo competente a disporla (autorità amministrativa al posto del Tribunale) e per i presupposti necessari per l’adozione del provvedimento di liquidazione non limitato al solo stato di insolvenza, ma da alcuni presupposti previsti da leggi speciali.
In generale, quando una impresa è posta in liquidazione coatta si verificano effetti simili a quelli del fallimento, e ciò per gli espressi richiami contenuti negli artt. 200 e 201 L.F. Ad esempio, sono applicabili al fallimento ed alla liquidazione coatta amministrativa le disposizioni di legge in merito allo spossessamento del debitore, alla legittimazione processuale in capo al commissario liquidatore, al divieto di azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori, al concorso dei creditori stessi secondo le regole previste per il fallimento ecc.
Singolare, nella liquidazione coatta amministrativa, la questione relativa all’ingresso del commissario liquidatore nelle cause pendenti ex art. 200, 2° co. L.F., laddove non si prevede anche l’interruzione dei processi come accade nel fallimento, stante il mancato richiamo all’art. 43 L.F. che all’ultimo comma prevede proprio questa ipotesi.
In buona sostanza il tema degli effetti della sottoposizione di una Banca alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, sul quale è intervenuta la Cassazione con la sentenza in commento, riguarda una pluralità di ipotesi di cui quella trattata dalla S.C. rappresenta una delle stesse.
La problematica può essere così sintetizzata: la liquidazione coatta amministrativa quali effetti produce nei giudizi risarcitori (come quello di specie) introdotti prima del relativo provvedimento? L’azione proposta è improcedibile o meno, e quale è la sorte del giudizio stesso che al momento della liquidazione pende avanti il Giudice di legittimità?
Orbene, possono prospettarsi le seguenti soluzioni, talvolta contrastanti, a mente della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia.
1) Nel caso di apertura della liquidazione coatta amministrativa nel corso del processo di merito sulla domanda di riconoscimento del credito il processo si interrompe ipso iure ex art. 300 c.p.c. e la relativa dichiarazione deve essere adottata d’ufficio dal Giudice dal momento in cui viene acquisita notizia dell’evento interruttivo (v. Tribunale di Treviso 22/01/2019 n° 126). Secondo Cass. 19/12/2008 n° 29865 l’interruzione del processo a causa della liquidazione coatta amministrativa si verifica in modo automatico indipendentemente dalla conoscenza che di tale evento abbiano avuto parte attrice o lo stesso Giudice. In questo senso vedasi anche Cass. 04/05/2010 n° 10714 con riferimento alla applicabilità del principio di automatica interruzione del processo allorché la liquidazione coatta amministrativa avvenga nel corso del giudizio di appello.
2) Si richiede, al contrario, da un’altra parte della giurisprudenza che l’evento interruttivo rappresentato dalla liquidazione coatta amministrativa, sia dichiarato dal procuratore della parte che ha subito il provvedimento di liquidazione (v. Tar Lazio Sez. III Roma 18/12/2013 n° 10963, Tar Trentino Alto Adige Sez. I Bolzano 30/06/2016 n° 211, Tribunale di Vicenza 17/10/2017 n° 2856). Secondo Cass. 20/06/2018 n° 16280, laddove la messa in liquidazione coatta amministrativa non sia dichiarata dal procuratore della parte colpita dall’evento interruttivo, essa non è idonea a causare l’interruzione del processo. La dichiarazione prevista dall’art. 300 c.p.c., infatti, non può essere sostituita da informazioni o comunicazioni di terzi. Trattasi, in particolare, di scelta di esclusiva spettanza del procuratore legale, il quale può aver interesse a che il processo non venga interrotto, con conseguente inefficacia della intervenuta statuizione nei confronti del proprio assistito che avrebbe potuto denunciare l’evento interruttivo.
Emerge dal suddetto schema, a prescindere dalle contrapposte soluzioni offerte dalla giurisprudenza, un dato comune rappresentato dalla condizione che il processo, finalizzato ad ottenere l’accertamento di un credito nei confronti della società posta in liquidazione, debba trovarsi in una fase e/o stato di merito (primo grado o grado di appello) affinché possa pronunciarsi la interruzione, che comporterà poi la riassunzione del giudizio avanti il competente Giudice concorsuale, ipotesi affatto diversa da quella della pendenza del procedimento avanti il Giudice di legittimità , contemplata, dalla sentenza in commento.
Ed invero, la S.C. spiega come l’intervento modifica della legge fallimentare art. 43, per effetto del D.lgs. 5 del 2006, art. 41, nella parte in cui stabilisce che l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo, non determina l’interruzione del giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge; lo stesso principio vale per la liquidazione coatta amministrativa (cfr. Cass, S.U. 6224/1986, Cass. 5699/2004).
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