ISSN 2385-1376
Testo massima
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n.19705 del 13/11/2012 si è soffermata sul fenomeno della pubblicità da parte degli avvocati, legittimata con il DL 223/2006 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.153 del 4 luglio 2006, precisando che il Consiglio dell’Ordine può sempre fare una valutazione sulle modalità utilizzate per la promozione dello studio rispetto ai principi di decoro e dignità della professione.
Nel caso di specie, il Consiglio dell’Ordine deliberava l’apertura di un procedimento disciplinare a carico di 5 avvocati ai quali veniva contestata la violazione degli artt.17/bis e 19 C.D.F. per avere diretto comunicazioni ed informazioni sulla propria attività professionale, utilizzando in modo improprio mezzi consentiti e comunque in modo incompleto rispetto alle indicazioni obbligatorie, con contenuto, forma e modalità irrispettose della dignità e decoro della professione, con la pubblicazione di un box pubblicitario su un quotidiano.
Il Consiglio dell’ordine prima e il Consiglio Nazionale Forense poi hanno sanzionato detto comportamento, quest’ultimo ha però derubricato la sanzione da sospensione dell’attività per due mesi a semplice “avvertimento”.
In particolare il Consiglio Nazionale riteneva che gli avvocati nell’utilizzare degli slogan per descrivere l’attività professionale, avevano predisposto una grafica tale da porre enfasi sul dato economico contenente altresì “dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo”, tale per cui, “il messaggio integrava modalità attrattiva della clientela con mezzi suggestivi” e risultava dunque incompatibile con la “dignità ed il decoro professionale, per la marcata natura commerciale dell’informativa sui costi molto bassi”.
La Corte ha così bocciato, il box pubblicitario, pubblicato su un quotidiano, precisando, tuttavia, che la previsione normativa di cui all’art.38, del R.D.L. n. 1578 del 1933 (Legge Forense), nella parte in cui descrive le condotte dell’avvocato suscettibili di dar luogo ad un procedimento disciplinare, non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi dell’illecito tale per cui spetta agli organi disciplinari il compito di individuazione le condotte sanzionabili precisando che non può ammettersi una sostituzione da parte del giudice di legittimità, consistente nella riformulazione o ridefinizione di tali condotte.
Alla luce di ciò la pubblicità è ammissibile a condizione che avvenga nel rispetto del decoro e della dignità professionale.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9237-2012 proposto da:
C.C.M., B.N., M.A., BE.BA.;
RICORRENTI
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MONZA;
CONTRORICORRENTE
e contro
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE;
INTIMATI
avverso la decisione n.34/2012 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 02/03/2012;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Monza il 24.6.2009 deliberava l’apertura di un procedimento disciplinare a carico di 5 avvocati (tra cui gli avv.ti Be.Ba., B.N. ed M.A. e C.C.M.), il cui nominativo compariva in un inserto pubblicitario della rivista “(OMISSIS)”.
Ai professionisti veniva contestata la violazione degli artt.17/bis e 19 C.D.F. per avere diretto comunicazioni ed informazioni sulla propria attività professionale, utilizzando in modo improprio mezzi consentiti e comunque in modo incompleto rispetto alle indicazioni obbligatorie, con contenuto, forma e modalità irrispettose della dignità e decoro della professione, con locuzioni integranti messaggio pubblicitario e promozionale ad ampia divulgazione con la pubblicazione di un box pubblicitario sul quotidiano (OMISSIS).
All’esito il Coa irrogava a ciascuno la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio professionale per mesi 2. Il Consiglio Nazionale forense, adito dagli incolpati, sostituiva alla sanzione della sospensione, quella dell’avvertimento, con sentenza del 29.10.2011.
Il CNF rigettava, anzitutto, l’eccezione di incompetenza territoriale, prospettata dai ricorrenti.
Nel merito il CNF riteneva che sussistesse l’illecito disciplinare, poichè il messaggio pubblicitario inserito nel box era connotato da slogan sull’attività svolta dal ricorrente, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico e contenente dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo, per cui il messaggio integrava modalità attrattiva della clientela con mezzi suggestivi ed incompatibili con la dignità ed il decoro professionale, per la marcata natura commerciale dell’informativa sui costi molto bassi.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli avv.ti Be.Ba., B.N. ed M.A. e C.C.M..
Resiste con controricorso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Monza.
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il PRIMO motivo di ricorso i ricorrenti Be.Ba., B.N. ed M.A., avvocati iscritti presso l’Albo di Milano, lamentano la nullità della decisione del Consiglio Nazionale Forense, per aver rigettato l’eccezione di incompetenza del COA di Monza, in violazione dell’art.38 l.p.f..
Assumono i detti tre ricorrenti che, essendo iscritti presso il l’Albo di Milano, non aveva competenza disciplinare su di loro il COA di Monza e che tale competenza non poteva essere fondata sul foro alternativo del luogo di commissione dell’illecito. Infatti il quotidiano dove appariva l’informazione era stampato e distribuito nella città e provincia di Milano, con la conseguenza che era irrilevante che qualche copia potesse anche giungere a Monza.
2.1 Il motivo è fondato e va accolto.
La decisione impugnata ha ritenuto la competenza a procedere disciplinarmente del COA di Monza sia perchè uno dei quattro incolpati (C.) era iscritto all’albo del COA di Monza, con conseguente competenza territoriale per connessione anche nei confronti degli altri 3 ricorrenti, iscritti all’albo del COA di Milano, sia perchè in Monza si sarebbe verificato il fatto di incolpazione.
2.2. Osserva preliminarmente questa Corte che nella giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense vi è contrasto sull’applicabilità della connessione da cumulo soggettivo (nell’ipotesi che si proceda contro due o più iscritti all’ordine) ai fini della determinazione della competenza territoriale. Secondo un orientamento più risalente, conformemente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la competenza territoriale disciplinare è determinata dal luogo dell’iscrizione dell’incolpato ovvero dal luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto di incolpazione.
Non sono invece applicabili ai procedimenti disciplinari nè il principio della connessione oggettiva proprio del processo penale (perchè non richiamato dalla normativa disciplinare), nè le regole sulla competenza per ragioni di connessione previste nel processo civile, in quanto ogni procedimento disciplinare deve ritenersi autonomo rispetto a quello contro altri incolpati (Cons. Naz. Forense 06-11- 1996r n. 151).
Secondo altro orientamento, sostanzialmente seguito dalla decisione impugnata, la competenza territoriale disciplinare è determinata dal luogo dell’iscrizione dell’incolpato, ovvero dal luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto di incolpazione, secondo il principio della prevenzione, e la competenza è attribuita al C.d.O. che per primo abbia dato inizio al procedimento. Tale competenza può essere derogata, in caso di connessione di illeciti disciplinari consumati da più iscritti, sulla base dei principi in tema di cumulo soggettivo fissati dal codice di procedura civile (Cons. Naz. Forense 13-07-2001, n. 159).
2.3. Osserva preliminarmente questa Corte (riportandosi ad un principio già espresso, per quanto risalente, di queste S.U. sent. 13/04/1981, n.2176) che, data anche la natura amministrativa della fase procedimentale davanti al Consiglio dell’Ordine Locale, nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati e procuratori, si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che sono dettate dalla legge professionale per ogni singolo istituto ovvero, qualora manchino disposizioni specifiche si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile.
Trovano applicazione le norme del codice di procedura penale invece, quando la legge professionale ne faccia espresso rinvio ovvero quando siano da applicare istituti, quali l’amnistia e l’indulto, che trovano la loro regolamentazione solo in detto codice.
2.4. Il R.D.L. n. 1578 del 1933, art.38 statuisce, per quanto qui interessa, che: “Salvo quanto è stabilito negli artt.130, 131 e 132 cpp e salve le disposizioni relative alla polizia delle udienze, gli avvocati ed i procuratori che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare.
La competenza a procedere disciplinarmente appartiene tanto al Consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto, quanto al Consiglio nella giurisdizione del quale è avvenuto il fatto per cui si procede: ed è determinata, volta per volta, dalla prevenzione. Il Consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo nel quale il professionista è iscritto è tenuto a dare esecuzione alla deliberazione dell’altro Consiglio”.
Il D.Lgt.C.P.S. n.597 del 1947, art.1 statuisce che “La competenza a procedere disciplinarmente in confronto dell’avvocato o del procuratore che è componente del Consiglio dell’ordine, appartiene al Consiglio costituito nella sede della Corte d’appello. Se egli appartiene a quest’ultimo, è giudicato dal Consiglio costituito nella sede della Corte d’appello più vicina”.
2.5. Ne consegue che la materia della competenza territoriale è delineata completamente da disposizioni specifiche interne al procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati. Pertanto non è possibile procedere all’applicazione in questo procedimento di norme relative al processo civile, in tema di modifica della competenza per ragioni di connessione, ed a maggior ragione di norme del procedimento penale, in assenza di un qualunque rinvio operato dalle norme specifiche che trattano della competenza nel procedimento disciplinare contro un avvocato.
In questi termini si è già pronunziata questa Corte con sentenza n.23287 del 2010, dalla quale non vi è ragione di discostarsi.
2.6.Nella fattispecie la competenza territoriale disciplinare del Consiglio di Monza non poteva affermarsi nei confronti degli avvocati Ba., B. e M., iscritti all’albo presso il COA di Milano, per una pretesa vis actractiva fondata sulla connessione soggettiva, essendo il quarto incolpato C., iscritto all’albo del COA di Monza.
2.7. Ovviamente, per le ragioni già esposte, neppure possono applicarsi i principi di cui all’art.12 cpp, lett. a) e art.16 cpp in tema di competenza per connessione in materia penale “allorchè il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso …”.
A parte il rilievo che, come già detto, la norma procedurale penale è invocabile in siffatto procedimento disciplinare solo quando espressamente prevista e che nella fattispecie non lo è, va in ogni caso osservato che in siffatta ipotesi di connessione l’art.16 cpp, coordinato con l’art.8 cpp, statuisce che la competenza territoriale si appartiene al giudice del luogo ove si è verificato l’evento.
Sennonchè tanto coincide anche con uno dei due fori alternativi previsti dal R.D.L. n.1578 del 1933, art.38, per cui competente al procedimento disciplinare è, oltre al Consiglio dell’ordine di iscrizione del professionista, quello nella cui giurisdizione è avvenuto il fatto.
2.8. Ne consegue che, per effetto dell’iscrizione all’albo, la competenza a procedere disciplinarmente del COA di Monza va riconosciuta solo nei confronti dell’avv. C. e non nei confronti degli altri tre ricorrenti iscritti all’albo del COA di Milano.
3.1. Neppure può affermarsi, relativamente a tali tre avvocati del Foro di Milano, la competenza territoriale del COA di Monza, solo perchè il giornale, pacificamente stampato in Milano, “poteva anche e non solo in via astratta pervenire casualmente nell’ambito territoriale del COA di Monza, cosicchè a prescindere dal luogo di iscrizione del professionista il COA di Monza legittimamente avrebbe potuto iniziare l’azione” (pag. 4 della decisione impugnata).
Infatti, a parte il rilievo che il decidente solo in via di mera ipotesi assume che il giornale “poteva anche…. pervenire casualmente nell’ambito territoriale del COA di Monza”, va osservato che in tema di illeciti civili consumati attraverso la stampa, o più in generale attraverso mezzi di comunicazione di massa, il c.d. forum commissi delicti (di cui all’art.20 cpc, che in effetti fa riferimento al luogo in cui è sorta l’obbligazione) è individuato, secondo la più recente giurisprudenza di queste S.U. nel luogo in cui il danneggiato ha subito il danno.
In particolare le S.U. n.21661 del 13/10/2009, hanno statuito che nel giudizio promosso per il risarcimento dei danni derivanti dal pregiudizio dei diritti della personalità recati da mezzi di comunicazione di massa, la competenza per territorio si radica, in riferimento al “forum commissi delicti” di cui all’art.20 cpc, nel luogo del domicilio (o della sede della persona giuridica) o, in caso di diversità, anche della residenza del soggetto danneggiato. Tale individuazione – che corrisponde al luogo in cui si realizzano le ricadute negative della lesione della reputazione – consente, da un lato, di evitare un criterio “ambulatorio” della competenza, potenzialmente lesivo del principio costituzionale della precostituzione del giudice, e, dall’altro, si presenta aderente alla concezione del danno risarcibile inteso non come danno-evento, bensì come danno-conseguenza, permettendo, infine, di individuare il giudice competente in modo da favorire il danneggiato che, in simili controversie, è solitamente il soggetto più debole.
3.2.In materia penale, dove ciò che perfeziona la fattispecie è l’evento e non il danno civile conseguente, si è invece affermato che nei procedimenti per reati commessi con il mezzo della stampa, la competenza per territorio va determinata con riferimento al luogo di cosiddetta “prima diffusione”, il quale di solito coincide con quello della stampa, per la ragionevole presunzione che la possibilità che lo stampato venga letto da altre persone e, quindi, la sua diffusione in senso potenziale, si verifichi immediatamente all’uscita dello stampato dalla tipografia (Cass. Pen. Sez. 1 n.7259 del 21/12/2005; Cass. Pen. Sez. 1, n. 25804 del 12/06/2007).
3.3. In entrambi gli ordinamenti il legislatore (e quindi la giurisprudenza) ha avuto cura di evitare che potesse formarsi un’interpretazione delle norme in tema di competenza che favorisse un criterio “ambulatorio” della competenza, con possibilità di scelta del giudice (c.d. “forum shopping”) e senza alcuna “prevedibilità” del giudice competente a decidere, che è invece un elemento essenziale di ogni ordinamento con caratteristiche di garanzia.
Ciò comporta che anche in sede di giudizio disciplinare, allorchè l’illecito è commesso con l’uso della stampa, la competenza per territorio va determinata con riferimento al luogo di perfezionamento dell’illecito e cioè a quello della “prima diffusione”, che coincide generalmente con il luogo della stampa (poichè lì si è perfezionato l’illecito). Che poi una copia dello stampato possa pervenire in altro luogo del territorio nazionale, ciò non modifica la competenza disciplinare per territorio, già radicatasi in relazione al luogo di consumazione dell’illecito.
3.4.Nella fattispecie, quindi, va accolto il primo motivo di ricorso proposto dagli avv.ti Be.Ba., B.N. ed M.A., per i quali sussiste solo la competenza disciplinare del COA di Milano, sia sulla base del criterio di collegamento dell’iscrizione che di quello del luogo di consumazione del preteso fatto illecito.
L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo motivo proposto dagli stessi tre avvocati.
4. Con il SECONDO motivo di ricorso l’avv. C. (in una agli altri tre ricorrenti per i quali se ne è già dichiarato l’assorbimento) lamenta la nullità della decisione per violazione e falsa applicazione del D.L. n.223 del 2006, art.2, conv. con L. n.248 del 2006 (cd. legge Bersani).
Nullità della decisione per violazione e falsa applicazione del D.D.L. n.1578 del 1933, art.38, comma 1, con riferimento al codice deontologico forense – conseguente controllo di ragionevolezza in sede di legittimità della concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (effettive, concrete e specifiche violazioni all’interno del messaggio informativo censurato, idonee a violare la norma deontologica).
Assume il ricorrente che con la L. n.248 del 2006, art.2 sono state abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che disponevano divieti, anche parziali, di pubblicità informativa relativa ad attività libero-professionale; che l’art.17, modificato a seguito di questa norma, del codice deontologico forense prevede che l’avvocato può dare informazioni sulla propria attività professionale; che l’art.17 bis cod. deontologico statuisce le modalità dell’informazione.
Secondo il ricorrente la pubblicità è consentita, con il solo limite della veridicità e trasparenza; che nella fattispecie non vi era alcun messaggio suggestivo per perpetrare “attività accaparratoria di clientela”.
5.1. Il motivo è infondato.
L’esame di tale motivo rende necessaria l’esposizione di alcuni principi regolatori della responsabilità disciplinare degli esercenti la professione forense e del controllo delle Sezioni Unite sulla motivazione delle decisioni rese dal Consiglio Nazionale Forense in tale materia.
Vi è da premettere che, come affermato dalla costante giurisprudenza della Sezioni Unite (ex multis 16/11/2004, n.21633) il R.D.L. 27 novembre 1933, n.1578, art.38, il quale prevede che siano sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o di mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”, non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi d’illecito.
La ragione di tale scelta di formulazione normativa, al pari di quanto avviene per altre categorie, viene generalmente ravvisata nel fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare.
Pertanto, per un’esatta ricostruzione del controllo di legittimità sull’interpretazione ed applicazione di tale norma, occorre prendere le mosse dalla premessa che la stessa descrive fattispecie d’illecito disciplinare, non mediante un catalogo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o concetti giuridici indeterminati.
Ciò comporta anzitutto che tale norma non si presta ad una definitiva ed esaustiva individuazione di ipotesi tipiche sul piano astratto, sia pure da parte dell’organo deputato alla sussunzione del fatto nella norma generale. Il che, sotto il profilo attuativo, significa che il perimetro di tale norma generale, preposta alla tutela del decoro e della dignità professionale, non è esaurito dalle fattispecie tipiche lesive che possano rivenirsi nel codice deontologico professionale.
5.2. L’applicazione di norme di tale specie può dar luogo a valutazioni che – pur rimanendo distinte dal campo della discrezionalità, intesa come ponderazione comparativa d’interessi – finiscono con l’attribuire all’organo decidente un margine di apprezzamento non controllabile in cassazione.
Il sindacato del giudice di legittimità sull’applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere, quindi, rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione ed apprezzamento.
Il controllo della Corte di Cassazione sulla corretta interpretazione ed applicazione del citato art. 38 non può prescindere dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti giuridici indeterminati.
5.3. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità deve tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire agli organi disciplinari forensi un compito di individuazione delle condotte sanzionabili, nel quale non può ammettersi una sostituzione da parte dal giudice di legittimità, consistente nella riformulazione o ridefinizione di tali condotte. Il dibattito sul controllo di legittimità dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati effettuata dal giudice di merito non è certo recente, nè esclusivo della tradizione giuridica italiana, ma risale ad oltre un secolo e mezzo fa.
Limitando l’esame all’esperienza applicativa della Corte, è certo che, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito è chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto. La Corte non può, pertanto, sostituirsi al giudice di merito nell’attività di riempimento dei concetti indeterminati contenuti nel citato art.38.
Tale è la linea che si ricava dalla costante giurisprudenza della Corte e, in particolare, dalle pronunce delle Sezioni Unite in tema di sindacato di legittimità sulle decisioni del Consiglio Nazionale Forense.
Pertanto, anche nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare degli esercenti la professione forense, essendo le stesse definite dalla legge mediante una clausola generale, il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi agli organi forensi nell’enunciazione di ipotesi d’illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Cass. S.U. 27.1.2004, n. 1414).
5.4. Ciò che va posto in risalto è che in questa attività di individuazione dell’ipotesi concreta di illecito disciplinare, quale modo di porsi della norma generale per il caso concreto, l’organo professionale (prima ancora di effettuare una valutazione dei fatti storici) concretizza la norma al caso specifico, individuando un precetto per esso.
Il precetto della norma generale di cui al D.D.L. n.1578 del 1933, art.38, è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.
Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure – come ogni precetto – ancora in astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e con evidente enfasi sul dato economico, con contenuti equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo consentito, e quindi lesivi del decoro ed alla dignità professionale”.
Ne consegue che in questa fase la ragionevolezza cui deve attenersi l’organo professionale disciplinare non è quella relativa alla motivazione sulla ricostruzione dei fatti (che è un momento successivo ed attiene all’accertamento degli avvenimenti fattuali), ma quella relativa alla “concretizzazione” della norma generale nella fattispecie in esame, come ipotesi di illecito disciplinare ascritto all’incolpato.
5.5. Per l’effetto l’attività di sindacato della Corte di legittimità sulla ragionevolezza in questo tipo di attività dell’organo disciplinare, quale risulta dal provvedimento impugnato, non attiene ad un giudizio di congruità logica della motivazione adottata, a norma dell’art.360 cpc, n.5. Non si versa in ipotesi di dubbio sulla ragionevolezza della motivazione sulla ricostruzione fattuale. Qui la ragionevolezza attiene all’individuazione del precetto formulato per l’ipotesi specifica considerata, come concretizzazione del più ampio precetto della norma generale (nella fattispecie L. Fall., art.38). Il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica (sia pure in questa fase ancora in astratto) nella norma generale, quale sua concretizzazione.
Il sindacato da parte della Corte di legittimità sulla ragionevolezza di tale concretizzazione della norma generale è quindi un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ex art.360 cpc, n.3, ben lontano da quello di cui all’art.360 cpc, n.5.
6.1. Il secondo aspetto concerne i limiti del sindacato sulla motivazione propri dello speciale giudizio di legittimità previsto in materia disciplinare per gli esercenti la professione forense. Si deve premettere che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense sono impugnabili soltanto per i motivi previsti dal R.D.L. 27 novembre 1933, n.1578, art.56, comma 3, e R.D. 22 gennaio 1934, n.37, art.68, comma 1, (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge).
Fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n.40 del 2006, art.2, secondo quanto previsto dall’art.27, stesso D.L., doveva, quindi, escludersi un sindacato della Corte di Cassazione secondo il canone di cui all’art.360 cpc, comma 1, n.5, e cioè esteso alla sufficienza della motivazione, limitandosi il controllo di legittimità ai casi in cui il vizio si traduca in violazione di legge (art.111 Cost.).
6.2. Per effetto della sostituzione dell’art.360 cpc, disposta dal D.Lgs. n.40 del 2006, art.2, a norma dell’art.360 cpc, u.c., la decisione del CNF, essendo impugnabile per violazione di legge, lo può essere anche per vizio di motivazione a norma dell’art.360 cpc, n.5.
Va solo ribadito, in generale e secondo il costante orientamento, che il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art.360 cpc, n.5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte.
7.1. Nella fattispecie non sussistono le lamentate violazioni di legge. E’ vero infatti, che il D.L. n.223 del 2006, art.2, conv. con L. n.248 del 2006, ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa.
7.2. Sennonchè diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e al decoro professionale, in quanto 1 fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare di cui al R.D.L. n.1578 del 1933, art.38, comma 1 Lo stesso art.17 del regolamento deontologico forense dispone che sussiste la libertà di informazione da parte dell’avvocato sulla propria attività professionale, ma che tale informazione, quanto alla forma ed alle modalità deve “rispettare la dignità ed il decoro della professione” e non deve assumere i connotati della “pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa”.
L’art.17 bis del cod. deontologico stabilisce le modalità specifiche dell’informazione e l’art.19 fa divieto di acquisizione della clientela con “modi non conformi alla correttezza e al decoro”. Ne consegue che sotto il profilo delle lamentate violazioni di legge, esse non sussistono poichè non è illegittimo per l’organo professionale procedente individuare una forma di illecito disciplinare (non certamente nella pubblicità in sè perfettamente legittima nel suo aspetto informativo ma) nelle modalità e nel contenuto della pubblicità stessa, in quanto lesivi del decoro e della dignità della professione, e non nell’attività di acquisizione di clientela in sè, ma negli strumenti usati, allorchè essi siano non conformi alla correttezza ed al decoro professionale. Non vi è, quindi, nel caso in esame irragionevolezza nel precetto deontologico individuato dall’organo professionale, quale fattispecie sanzionabile in sede disciplinare.
8. Quanto al preteso vizio motivazionale, lo stesso non sussiste negli stretti limiti in cui esso può essere fatto valere in questa sede di sindacato di legittimità, come sopra detto. La sentenza impugnata ha infatti ritenuto che il messaggio pubblicitario inserito nel box era connotato da slogan sull’attività svolta dal ricorrente, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico e contenente dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo, per cui il messaggio integrava modalità attrattiva della clientela con mezzi suggestivi ed incompatibili con la dignità ed il decoro professionale, per la marcata natura commerciale dell’informativa sui costi molto bassi. Trattasi di una valutazione degli elementi fattuali, la quale non è nè apparente, ne1 insufficiente nè contraddittoria, e pertanto non è censurabile da questa Corte che non può sostituire il proprio apprezzamento nella rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni, appartenendo ciò all’esclusiva competenza degli organi disciplinari forensi (Cass. S.U. 18 ottobre 1994, n.8482 10 febbraio 1998, n.1342; 6 aprile 2001, n.150).
Sotto questo profilo non svolge alcun rilievo il D.P.R. 3 agosto 2012, n.137, art.4 che ribadisce la legittità della “pubblicità informativa avente ad oggetto l’attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio ed i compensi richiesti per le prestazioni”. A parte il rilievo che tale norma non è applicabile direttamente nella fattispecie ratione temporis, potendo essere utilizzata solo ai fini di una corretta interpretazione della normativa vigente all’epoca dei fatti, va osservato che – proprio in questa ottica di strumento interpretativo – il comma secondo di tale norma statuisce che la pubblicità deve essere “funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria”. Proprio tali caratteristiche ha ritenuto mancanti la sentenza impugnata nella pubblicità in questione.
9. Pertanto va accolto il primo motivo di ricorso proposto dagli avvocati Be.Ba., B.N. ed M. A., assorbiti i restanti. Va cassata l’impugnata sentenza e dichiarata la competenza territoriale del Consiglio dell’Ordine di Milano. Va, invece, rigettato il ricorso dell’avv. C. C.M..
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
Accoglie il primo motivo di ricorso proposto da Be.
B., B.N. ed M.A., assorbito il secondo. Cassa l’impugnata sentenza e dichiara la competenza territoriale del Consiglio dell’Ordine di Milano.
Rigetta il ricorso dell’avv. C.C.M..
Condanna il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Monza al pagamento delle spese processuali sostenute da Be.Ba., B.N. ed M.A. e liquidate in Euro 4200,00, di cui Euro 200,00 per spese e l’avv. C.C.M. al pagamento delle spese processuali sostenute dal detto resistente Consiglio e liquidate in Euro 3200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre, per entrambe le liquidazioni, agli accessori di legge.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 100/2012