Procedimento patrocinato dallo Studio legale Filesi
LA MASSIMA
Sia l’azione revocatoria ordinaria, sia la c.d. “revocatoria risarcitoria” e cioè la domanda volta ad ottenere la condanna al risarcimento del terzo che, dopo avere acquistato un bene dal debitore altrui, lo abbia rivenduto a terzi, sottraendolo così all’azione revocatoria possono essere proposte non solo da chi al momento dell’atto dispositivo era già titolare di un credito certo ed esigibile, ma anche dal titolare di un credito contestato o litigioso.
In quest’ultima ipotesi, quand’anche l’accertamento definitivo del credito avvenga in sede giudiziale, successivamente alla stipula dell’atto pregiudizievole per il creditore, quest’ultimo per ottenere l’accoglimento della propria domanda revocatoria deve provare unicamente la scientia fraudis del terzo (anche mediante presunzioni) e non anche il consilium fraudis.
In tema di azione revocatoria ordinaria, allorché l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, l’unica condizione per l’esercizio della stessa è che il debitore fosse a conoscenza del pregiudizio delle ragioni del creditore e, trattandosi di atto a titolo oneroso, che di esso fosse consapevole il terzo, la cui posizione – per quanto riguarda i presupposti soggettivi dell’azione – è sostanzialmente analoga a quella del debitore; la prova del predetto atteggiamento soggettivo può essere fornita tramite presunzioni il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato.
Questi i principi espressi nell’ ordinanza della Corte di Cassazione Civile, sezione sesta, Pres. Amendola – Rel Scrima, n. 6702 pubblicata in data 19 marzo 2018 con motivazione semplificata.
IL CASO
La parte attrice nell’anno 2006 aveva convenuto in giudizio una persona fisica, per sentirla condannare al risarcimento in proprio favore dei danni subiti nella misura quantificata nella vocatio in jus, previo accertamento della sussistenza delle condizioni che avrebbero reso possibile l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria ex art.2901 cod. civ., di un contratto di compravendita immobiliare stipulato tra la stessa convenuta ed il figlio di essa ultima.
Esponeva in particolare la attrice che tale atto era stato volto ad eludere le sue ragioni creditorie, come fondate su di una sentenza pronunciata da altro Tribunale dello stesso circondario, in una controversia di natura lavoristica sorta con il figlio della convenuta.
Si era costituita in giudizio la convenuta chiedendo il rigetto della domanda e nello stesso processo intervenne volontariamente il figlio, invocando in primis la declaratoria di nullità del giudizio svoltosi innanzi al giudice del lavoro, per violazione del principio del contraddittorio e, di conseguenza, la declaratoria di nullità del giudizio come intrapreso dalla attrice contro la madre, per illegittimità, infondatezza ed assoluta inesistenza del diritto rivendicato.
Il Tribunale adito, con la sentenza di prime cure, premesso che le osservazioni dell’interveniente relative al giudizio svoltosi dinanzi al giudice del Lavoro, non potevano essere prese in considerazione, giacchè di pertinenza del giudice all’uopo preposto in sede di appello, ritenne, incidenter tantum, la sussistenza in capo all’attrice di una ragione di credito, nonché la sussistenza degli altri presupposti di cui all’art. 2901 cod. civ., venendo in rilievo un atto dispositivo posto in essere tra la convenuta e l’interveniente e costituendo il fatto che i cespiti dell’interveniente fossero stati alienati alla madre di questi, un elemento presuntivo, nel senso del ricorrere dei presupposti dell’actio pauliana, anche se il credito era sorto in data successiva al compimento dell’atto dispositivo (la compravendita infatti era stata rogata qualche anno prima).
Rilevò infatti il Tribunale, che sebbene in tale momento il giudizio innanzi al Tribunale del Lavoro non fosse ancora iniziato, il licenziamento della attrice (da cui era scaturito il contenzioso lavoristico) era imminente, essendo avvenuto nello stesso anno in cui si rogitava l’atto di disposizione e che ulteriore elemento probante, era costituito dal fatto che i cespiti acquistati dalla convenuta fossero stati dalla stessa rivenduti, ancora nello stesso anno.
Per tali ragioni il primo Giudice condannò la convenuta e l’interveniente, in solido, a pagare in favore dell’attrice, una somma a titolo di risarcimento del danno, oltre rivalutazione ed interessi, dalla data dell’atto di compravendita, al soddisfo.
Avverso la sentenza di primo grado le due parti soccombenti proposero distinti atti di gravame, ai quali si oppose la attrice.
La Corte di appello, riuniti i giudizi, rigettò con sentenza dell’anno 2015 l’appello proposto dai due ricorrenti, condannandoli sempre in solido tra loro, alle spese del grado.
Avverso la sentenza della Corte distrettuale la soccombente principale ha proposto indi ricorso per cassazione, basato su tre motivi, cui ha resistito la attrice in prime cure, con controricorso illustrato da memoria. La proposta del relatore è stata comunicata agli avvocati delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.. ed Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza, con motivazione semplificata.
Con il primo motivo, la ricorrente ha richiamato quanto previsto dall’art. 2901 cod. civ., sostenendo in particolare che secondo il dettato normativo, in caso di atto a titolo oneroso anteriore al sorgere del credito (come nel caso all’esame), il creditore deve dimostrare la dolosa preordinazione dell’atto, da parte del debitore, al fine di pregiudicarne il soddisfacimento, nonché la partecipatio fraudis del terzo acquirente, il che non sarebbe avvenuto nel caso di specie.
Secondo la ricorrente, infatti, l’atto di trasferimento immobiliare effettuato dal figlio in proprio favore, sarebbe stato stipulato ben cinque mesi prima della data di licenziamento della attrice; al momento della stipula la attrice lavorava per esso alienante della madre e nulla lasciava presagire che la attrice avrebbe intrapreso una controversia di lavoro dopo due anni; il prezzo della compravendita (della nuda proprietà), sarebbe stato interamente pagato dall’acquirente tramite bonifico bancario prodotto in atti e mai contestato; la madre….rectius la acquirente, avrebbe poi dovuto estinguere un mutuo acceso dal figlio con un istituto di credito e da essa garantito.
Ad avviso della ricorrente in sede di legittimità, l’atto pregiudizievole compiuto dal debitore («in tanto è revocabile, in quanto sia accompagnato dal consilium fraudis»); nella specie rappresentando che il figlio le aveva dovuto vendere la nuda proprietà del proprio terreno, del quale era già usufruttuaria e che aveva garantito per esso figlio un mutuo con una banca, per pagare i dipendenti ed i fornitori; proprio grazie a ciò la attrice principale sarebbe stata regolarmente pagata fino al licenziamento ed avrebbe percepito anche il TFR; inoltre, anche il mutuo acceso dalla da essa madre sarebbe stato girato dalla predetta al figlio con bonifico bancario, come doveva risultare dagli atti di causa; infine, ancora la attrice principale non aveva dimostrato il pregiudizio oggettivo che l’atto di disposizione patrimoniale le avrebbe arrecato, in quanto non dimostrato di aver tentato di recuperare il presunto credito, attraverso le procedure esecutive ordinarie.
Con il secondo motivo, la ricorrente ha dedotto che nessun atto doloso o colposo sarebbe stato da lei posto in essere ai danni della creditrice; che nell’ipotesi di atto anteriore al sorgere del credito, sarebbe stata comunque necessaria la prova della conoscenza da parte del terzo, della dolosa preordinazione ad opera del disponente rispetto al credito futuro e che tale prova non sarebbe stata fornita, né poteva al riguardo farsi ricorso alle presunzioni.
Con il terzo motivo, la ricorrente ha sostenuto che erroneamente la Corte di merito aveva affermato nella sentenza impugnata, che a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, l’atto dispositivo di che trattasi era da considerarsi successivo al sorgere del credito in capo alla appellata e richiamando al riguardo le date dell’atto di vendita di cui si discuteva in causa e quella del licenziamento, ribadendo che né lei nè il figlio potevano prevedere che la ex dipendente avrebbe agito in giudizio, nei confronti del suo ex datore di lavoro.
IL COMMENTO
Il caso oggi in commento, preme a chi scrive evidenziarlo, non afferisce le consuete azioni giudiziali promosse da o contro gli istituti di credito, ma la questione giuridica trattata cd. azione revocatoria risarcitoria, oltre che poter vedere protagoniste dalla parte attiva della azione giudiziale, anche ed ovviamente gli istituti di credito, merita a prescindere la giusta considerazione, in Rivista.
Orbene i giudici della legge, con la sentenza oggi in commento, hanno ritenuto in primis che i motivi proposti, essendo strettamente connessi, potevano essere trattati congiuntamente, ma che non potevano essere accolti, passando immediatamente al terzo motivo, dichiarandolo inammissibile.
La sentenza impugnata infatti era stata pubblicata nel periodo in cui trovava già applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione novellata dal comma 1, lett. b), dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
Alla luce del testo di detta norma, così come novellata, non era più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione, sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 cod. proc. civ. aggiungendo che andava esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di essa Corte, Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
La conseguenza è che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia, nella specie all’esame, non è stata ritenuta sussistere e si esauriva nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico“, nella “motivazione apparente“, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile“, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Ancora i Giudici della legge hanno precisato che le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, avevano pure precisato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., così come da ultimo riformulato, introducesse nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risultasse dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che avesse costituito oggetto di discussione tra le parti oltre che avere carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne conseguiva che nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrente doveva indicare il “fatto storico“, il cui esame era stato omesso, il “dato“, testuale o extratestuale, da cui esso risultasse esistente, il “come” e il “quando” tale fatto fosse stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integrava, ex sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, fosse stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non avesse dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nella specie ed in buona sostanza, con le censure formulate ad oggetto i lamentati vizi motivazionali, la ricorrente non aveva proposto le relative doglianze nel rispetto del paradigma legale di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 del codice di rito, al contrario riproponendo, inammissibilmente lo stesso schema censorio del n. 5 nella sua precedente formulazione, inapplicabile ratione temporis.
Anche le ulteriori doglianze proposte con i motivi primo e secondo, sono state dichiarate infondate dai giudici della legge.
La Corte di merito, premesso che l’attrice aveva agito direttamente contro il terzo acquirente dei beni del proprio debitore, con l’azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. sull’assunto che lo scopo perseguibile con l’azione revocatoria non fosse realizzabile per fatto illecito successivo del terzo acquirente, consistente in un atto elusivo in modo totale della garanzia patrimoniale, aveva ritenuto che l’atto dispositivo di cui si discuteva in causa, doveva considerarsi successivo al sorgere del credito in capo alla stessa attrice ed ex dipendente, evidenziando che mentre l’atto di trasferimento immobiliare era stato stipulato ad una data, il credito da prestazioni lavorative vantato dall’originaria attrice, era stato invece giudizialmente accertato solo 4 anni dopo dal competente Giudice del lavoro, ma che ciononostante detto credito era sorto già nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato, iniziato ben anni prima dell’atto di disposizione, come risultava dalla sentenza lavoristica, «chiaro essendo che la lavoratrice avrebbe potuto agire giudizialmente anche in corso di rapporto per ottenere il riconoscimento del diritto alle differenze retributive da lei a vario titolo già maturate».
Ha quindi osservato la Suprema Corte di Cassazione che tali analitiche affermazioni della Corte territoriale, non erano state specificamente e adeguatamente censurate dalla ricorrente, la quale si era limitata a sostenere che l’atto di trasferimento immobiliare era avvenuto cinque mesi prima della data del licenziamento della attrice principale e che nulla lasciava presagire che la stessa avrebbe poi intrapreso una controversia di lavoro.
La Corte di appello aveva poi reputato sussistenti, nella specie, tutti i presupposti di cui all’art. 2901 cod. civ. e quindi ritenuto che l’atto di disposizione patrimoniale posto in essere dal debitore, fosse revocabile ai sensi di tale norma. In particolare, i Giudici del secondo grado avevano ritenuto sussistente, oltre all’eventus damni, anche l’elemento soggettivo del debitore e del terzo, evidenziando dettagliatamente, a tale ultimo riguardo, gli elementi presuntivi su cui si fondava tale valutazione.
Ha quindi ricordato la Suprema Corte con la sentenza oggi in commento, che più volte essa Corte ha affermato l’accoglimento da parte dell’art. 2901 cod. civ., di una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità, sicché anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio, sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualità di creditore, che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria, avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore (Cass. 22/03/2016, n. 5619; Cass. 9/02/2012, n. 1893).
Da ciò conseguendo che sia l’azione revocatoria ordinaria, sia la c.d. come nel caso di specie “revocatoria risarcitoria” (e cioè la domanda volta ad ottenere la condanna al risarcimento del terzo che, dopo avere acquistato un bene dal debitore altrui, lo abbia rivenduto a terzi, sottraendolo così all’azione revocatoria) possono essere proposte non solo da chi al momento dell’atto dispositivo era già titolare di un credito certo ed esigibile, ma anche dal titolare di un credito contestato o litigioso; dallo scenario che precede conseguendo ed ancora che in quest’ultima ipotesi, quand’anche l’accertamento definitivo del credito avvenga in sede giudiziale, successivamente alla stipula dell’atto pregiudizievole per il creditore, quest’ultimo per ottenere l’accoglimento della propria domanda revocatoria, deve provare unicamente la scientia fraudis del terzo (anche mediante presunzioni) e non anche il consilium fraudis (Cass. 27/01/2009, n. 1968). Ancora la Suprema Corte precisando che in tema di azione revocatoria ordinaria, allorché l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, l’unica condizione per l’esercizio della stessa è che il debitore sia conoscenza del pregiudizio delle ragioni del creditore e, trattandosi di atto a titolo oneroso, che di esso sia consapevole il terzo, la cui posizione – per quanto riguarda i presupposti soggettivi dell’azione – è sostanzialmente analoga a quella del debitore; la prova del predetto atteggiamento soggettivo, potendo essere fornita tramite presunzioni il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato (Cass. 17/08/2011, n. 17327; Cass. 30/12/2014, n. 27546; Cass. 22/03/2016, n. 5618).
La parte ricorrente, nel caso oggi in commento, non ha quindi colto quanto in modo corretto già affermato dalla Corte distrettuale, sul richiamo ai principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
Quanto ai presupposti oggettivi e soggettivi prescritti dall’art.2901 c.c., la Corte distrettuale aveva premesso che l’originaria attrice aveva agito direttamente contro il terzo acquirente dei beni del proprio debitore, con l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., sull’assunto che lo scopo perseguibile con l’azione revocatoria non fosse realizzabile per fatto illecito successivo del terzo acquirente, consistente in un atto elusivo in modo totale della garanzia patrimoniale (nella specie, un atto dispositivo del bene acquistato in favore di terzi) esponendo e quindi la stessa Corte in sentenza, la necessità di verificare, a fronte delle censure degli appellanti, se nel giudizio di primo grado fosse rimasta provata la sussistenza di tutte le condizioni previste dall’art. 2901 c.c. e, quindi, se l’atto di disposizione patrimoniale posto in essere dal debitore, fosse revocabile ai sensi di tale norma. Ciò sul presupposto che le condizioni richieste dalla legge ai fini dell’esperimento dell’azione revocatoria sono costituite, com’è noto, dal pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie (c.d. eventus damni), pregiudizievole essendo anche un atto che renda solo più difficile o più onerosa la realizzazione del credito, nonché dall’elemento soggettivo che, nel caso di atto dispositivo posteriore al sorgere del credito, si atteggia come semplice scientia damni dimostrabile anche con il ricorso a presunzioni (il relativo apprezzamento essendo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ex multis Cass.966/07).
La Corte distrettuale aveva indi precisato che -a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale- l’atto dispositivo portato all’esame era da considerarsi successivo al sorgere del credito in capo alla attrice.
A tale proposito considerando essa Corte che se era vero che l’atto di trasferimento immobiliare posto in essere dall’ex datore di lavoro in favore della propria madre, era stato rogato qualche anno prima, il credito da prestazioni lavorative vantato dall’originaria attrice, sebbene giudizialmente accertato solo qualche anno dopo, era sorto già nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato; chiaro essendo che la lavoratrice avrebbe potuto agire giudizialmente anche in corso di rapporto, per ottenere il riconoscimento del diritto alle differenze retributive da essa a vario titolo già maturate.
La Corte ha quindi correttamente affermato che avendo la attrice ed ex dipendente fornito la prova dell’atto di disposizione patrimoniale compiuto dal proprio debitore, essa aveva per ciò stesso dimostrato la sussistenza dell’eventus damni, ad integrare il quale non si richiedeva la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, essendo sufficiente il compimento di un atto che rendesse più difficile o incerta la soddisfazione del credito (e, dunque, anche la mera variazione qualitativa del patrimonio del debitore, tale da rendere più difficile la soddisfazione coattiva del credito); in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dall’eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva, mentre nessuna prova era stata fornita od offerta dall’ appellante, in ordine all’insussistenza del predetto rischio, in ragione dell’esistenza di ampie residualità patrimoniali.
Provato, prosegue la Corte, il presupposto soggettivo della azione revocatoria, in quanto desumibile dalle stesse circostanze di fatto come processualmente emerse; ed essendo l’elemento soggettivo costituito nella fattispecie, dalla mera consapevolezza del debitore di ledere, in conseguenza dell’atto dispositivo, la garanzia del creditore (scientia damni)- esso in via presuntiva si ricavava dal fatto stesso che l’appellante aveva disposto del proprio patrimonio, mediante la vendita con un unico atto di una pluralità di beni.
La sussistenza di detta consapevolezza, risultando avvalorata dalla circostanza che l’appellante, solo quattro mesi dopo il compimento dell’atto di dismissione dei beni in favore della propria madre, aveva chiuso la propria attività commerciale, così determinando la cessazione del rapporto di lavoro intrattenuto sin dal 1997 con la attrice, poi odierna resistente in sede di legittimità; con ciò potendosi ragionevolmente prevedere che quest’ultima avrebbe, a tal punto, avanzato le pretese di pagamento delle maggiori somme, dovute in base alla contrattazione collettiva di riferimento e mai corrisposte nel corso del rapporto. A ciò dovendo aggiungersi che l’operazione economica realizzata con l’atto dispositivo in questione, appariva priva di ogni plausibile giustificazione -né gli appellanti ne avevano spiegato il senso o l’utilità economica- ove considerato che, dopo soli due mesi dal compimento di tale atto, la terza acquirente aveva alienato gli stessi beni acquistati a terzi estranei.
Le superiori considerazioni conducendo ad affermare che essendo rimasta provata la sussistenza delle condizioni per la revocabilità ai sensi dell’art.2901 c.c., dell’atto di trasferimento immobiliare rogato tra figlio e madre ed essendo rimasto provato, altresì, il fatto illecito successivo posto in essere dalla madre (consistito nel compimento del secondo atto traslativo avente ad oggetto la rivendita degli stessi beni acquistati dal proprio figlio, a favore di subacquirenti), con conseguente sottrazione dei beni stessi all’azione revocatoria, sussistevano tutti i presupposti (danno e colpevolezza) per l’accoglimento dell’azione risarcitoria ex art.2043 c.c., spiegata dall’originaria attrice.
A tali principi, giova ribadirlo, si era in sostanza attenuta la Corte di merito, sicchè il ricorso avanti i giudici della legge è stato rigettato, con la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese e dei compensi del grado, oltre che dichiarati sussistenti i presupposti per il versamento da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 1.
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