Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LA MASSIMA
La mediazione costituisce condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda.
Il difetto della condizione di procedibilità può essere rilevato solo su eccezione di parte o su rilievo di ufficio del giudice non oltre la prima udienza, a pena di decadenza, con il limitato effetto di provocare un mero rinvio della successiva udienza, a data posteriore allo svolgimento del procedimento.
Da ciò consegue che le attività processuali svolte sono valide ed efficaci e che quindi le eventuali preclusioni già maturate, restano ferme nel corso del successivo svolgimento del giudizio.
Questi i principi come espressi Corte di Appello di Roma, Pres. Lo Sinno – Rel. Sterlicchio con la sentenza n. 2713 del 24 aprile 2018.
IL CASO
La parte soccombente nel procedimento come formulato in prime cure nella forma dell’art. 702 bis cpc, utilizzatore di beni immobili oggetto di contratto di locazione finanziaria immobiliare, impugnava l’ordinanza che aveva dichiarato la risoluzione di diritto del contratto in commento, condannandolo alla riconsegna del bene in favore del lessor e peraltro dichiarandolo decaduto dalla domanda riconvenzionale come formulata in primo grado da esso lessee. La società di leasing si era costituita ritualmente avanti la Corte distrettuale ed aveva richiesto il rigetto dell’appello.
Invitate le parti alla discussione, la causa è stata decisa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.
IL COMMENTO
La Corte di Appello di Roma, con la sentenza oggi in commento, ha affrontato in primis la censura di parte attrice, ad oggetto la pronuncia d’inammissibilità della riconvenzionale come da esso appellante formulata in primo grado, determinata (così scriveva il giudice in parte qua), dalla tardiva costituzione in giudizio. Orbene la Corte distrettuale ha affermato che la censura, non poteva essere accolta.
Essa Corte ha in particolare ricordato i principi esposti sul punto dai giudici della Legge, laddove, portata al vaglio della Suprema Corte la censura di una parte ricorrente, su una decisione di secondo grado, sostenendo che l’improcedibilità della domanda giudiziale prima dell’esperimento del procedimento di mediazione, doveva comportare che le preclusioni processuali non maturassero fino a che tale procedimento non fosse stato svolto in concreto, essa Corte Suprema ha invece aderito alle motivazioni esposte dal giudice di merito, con le quali osservava, in senso contrario, che la mediazione costituisce condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda, e che in mancanza di essa, ai sensi dell’art. 5, comma I, del decreto legislativo n. 28/2010, il giudice opera un semplice rinvio della “successiva udienza” («il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione»).
Di conseguenza, laddove la domanda giudiziale sia proposta in mancanza del previo esperimento del procedimento di mediazione ed il convenuto proponga la relativa eccezione, si determina un semplice differimento delle attività da svolgersi nel giudizio già pendente, ma non la nullità di quelle fino a quel momento svolte, e restano pertanto ferme le decadenze già verificatesi.
Nel caso oggi in commento, pertanto, la sezione terza della Corte di appello di Roma ha condiviso lo stesso ragionamento. Di più statuendo che se il legislatore avesse inteso stabilire l’inefficacia delle attività processuali svolte in mancanza del previo procedimento di mediazione, sarebbe stata prevista la semplice dichiarazione di improcedibilità della domanda e la chiusura del giudizio instaurato, senza previo ricorso al tentativo di mediazione, con la necessità di instaurarne uno nuovo, ovvero la rinnovazione degli atti processuali già espletati.
Al contrario, è invece prevista la rilevabilità del difetto della condizione di procedibilità, solo su eccezione di parte o su rilievo di ufficio del giudice non oltre la prima udienza, a pena di decadenza, con il limitato effetto di provocare un mero rinvio della successiva udienza, a data posteriore allo svolgimento del procedimento.
Da ciò ricavandosi che le attività processuali svolte sono valide ed efficaci e che quindi le eventuali preclusioni già maturate, restano ferme nel corso del successivo svolgimento del giudizio. (Cass. 9557 del 2017)
Dal ragionamento che precede, la Corte di appello di Roma ha fatto discendere che l’appellante era onerato di costituirsi nel giudizio di primo grado, indipendentemente dal preventivo esperimento del tentativo di mediazione e che pertanto, il Tribunale aveva correttamente ritenuto inammissibile la proposizione della riconvenzionale, oltre il termine di legge.
Ancora a commento della decisione che ci occupa, gioverà ricordare che anzitutto il mancato tempestivo esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, previsto dall’art. 5 del D. Lgs. 28/2010 a pena di improcedibilità dell’azione, afferisce e fra le altre la materia bancaria. Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di attivare la suddetta procedura è da rinvenirsi in capo all’attore-opponente il quale ha interesse a stimolare la prosecuzione del procedimento di opposizione al fine di ottenere, in caso di fondamento delle proprie doglianze, la revoca del decreto emesso a favore dall’istituto di credito nella procedura monitoria, come affermato dalla recente Giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. Sez. III, 03.12.2015, sent. n. 24629).
Visto e quindi che l’art. 5, co. 1 -bis, del D.Lgs n. 28/2010 prevede che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale“, la mediazione nel giudizio di opposizione a decreto è quella obbligatoria ante causam, sicchè il tentativo deve essere esperito già prima del giudizio, costituendo una condizione dell’azione.
Abbiamo già visto che qualora la domanda giudiziale non sia preceduta dal predetto procedimento, la stessa norma autorizza il giudice a concedere alle parti un termine massimo di gg 15 per provvedervi.
La parte onerata può pertanto, entro e non oltre il termine di 15 giorni, sanare il vizio di improcedibilità della domanda proposta, con la conseguenza che, se non vi provvede, o vi provvede in ritardo, la domanda giudiziale resta improcedibile.
Il termine di 15 giorni può infatti farsi rientrare nella fattispecie di sanatoria del predetto vizio, che non può essere applicato in via analogica alla tardiva proposizione della domanda di mediazione. Non rileva, infatti, in senso contrario la circostanza che la norma non sancisca espressamente la perentorietà del termine. A ciò si aggiunge che il carattere perentorio del termine, secondo la Giurisprudenza di legittimità, può desumersi anche in via interpretativa, tutte le volte in cui, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, lo stesso debba essere rigorosamente osservato (cfr. Cass. n. 14624/2000; Cass. n. 4530/2004).
Ad esempio, il termine per proporre opposizione a decreto ingiuntivo è perentorio, sebbene tale circostanza non sia espressamente prevista dal codice.
Sarebbe indi illogico ritenere che il legislatore dell’art. 5 co. 1 bis, da un lato abbia previsto la sanzione dell’improcedibilità per mancato esperimento della mediazione, prevedendo altresì che la stessa debba essere attivata entro il termine di 15 gg, e che, dall’altro lato, abbia voluto negare ogni rilevanza al mancato rispetto del suddetto termine (cfr. in tali termini: Trib. Firenze 04.06.2016; Trib.Lecce 3.3.2017).
Assegnare in caso di inottemperanza un ulteriore termine o ritenere assolto l’obbligo nonostante la tardività, contrasterebbe con il dato normativo, che sanziona con l’improcedibilità tale ipotesi, introducendo una ulteriore forma di sanatoria non prevista dalla legge, in contrasto con il principio di economia processuale e con il principio di iniziativa di parte Il termine in commento ha pertanto natura perentoria; natura che si evince dalla stessa gravità della sanzione prevista, l’improcedibilità della domanda giudiziale, tale da comportare la necessità di emettere una sentenza di puro rito, sussistenti in astratto i presupposti appena dedotti, impedendo così al processo di pervenire al suo naturale epilogo.
La mediazione tardivamente attivata rende in buona sostanza improduttivo di effetti il relativo incombente, provocando gli stessi effetti del mancato esperimento di esso, con conseguente applicazione della sanzione della improcedibilità della domanda giudiziale.
Quanto agli altri motivi d’impugnazione, attinenti alla proposizione di eccezioni, esponendo la Corte distrettuale che appariva assorbente osservarne l’irrilevanza, stante il difetto di motivata censura in ordine alla pronuncia di risoluzione, fondata sul mancato pagamento dei canoni di locazione finanziaria; fatto questo mai contestato dalla parte soccombente utilizzatrice dei beni; consequentialiter, confermando il giudice di II grado la correttezza del ragionamento e della motivazione svolta dal primo giudice, ove egli affermava che la parte resistente non aveva fornito alcuna prova di aver corrisposto alla società concedente i canoni, alle scadenze pattuite con il contratto di locazione finanziaria.
Il ricorso in appello è stato indi respinto e le spese di lite del grado sono state poste a carico dell’appellante.
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