Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
Se il diritto della società concedente di acquisire integralmente i canoni scaduti fino al momento della risoluzione del contratto, discende dal dettato contrattuale di riferimento, con il richiamo al comma II dell’art. 1526 c.c., a nulla rileva la qualificazione giuridica del rapporto, che sia finanziario traslativo e/o di godimento.
Questo il principio espresso dal Tribunale di Roma, Dott. Luigi D’Alessandro, con l’ordinanza del 05.07.2017.
IL CASO
Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. la società di leasing esponeva di aver concesso in locazione finanziaria alla parte convenuta in giudizio, beni immobili.
Nel corso del rapporto negoziale, l’utilizzatrice si era resa inadempiente all’obbligo di pagamento dei canoni periodici sicché essa ricorrente, avvalendosi della clausola risolutiva espressa di cui al dettato contrattuale di riferimento, aveva risolto di diritto il negozio; l’utilizzatrice non aveva corrisposto quanto dovuto, né aveva restituito i beni oggetto della locazione finanziaria.
Tanto premesso, la società ricorrente chiedeva, previo accertamento dell’inadempimento della controparte all’obbligo di pagamento dei canoni convenuti e della risoluzione di diritto del negozio, la condanna della società convenuta alla riconsegna degli immobili oggetto del contratto, liberi da persone e cose.
Parte resistente sollevava eccezioni processuali e, nel merito, evidenziava l’infondatezza della domanda avversaria alla luce, in particolare, delle gravi irregolarità urbanistico-catastali dell’immobile locato.
In via riconvenzionale, chiedeva inoltre condannarsi la ricorrente, ai sensi dell’art. 1526 c.c, a restituire quanto sino ad allora riscosso, salvo il diritto al solo equo compenso per l’uso della cosa, nonché a risarcire il danno da essa subito.
Orbene, il Tribunale di Roma, ha immediatamente disatteso la richiesta della convenuta di disporre la riunione del giudizio al distinto procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo pendente dinanzi allo stesso Ufficio.
Preclusa nella fattispecie in commento la rimessione degli atti al Presidente per le determinazioni di cui affari. 274 c.p.c., in quanto: a)dall’esame degli atti risultava che i due procedimenti avevano oggetti ben distinti, riferendosi l’uno alla sola restituzione degli immobili locati e l’altro al pagamento dei canoni scaduti; b) considerata la diversità dei riti cui erano assoggettate le due cause, la loro eventuale riunione avrebbe frustrato le finalità di celere definizione che sono alla base del giudizio sommario di cognizione; giudizio che infatti era stato prescelto dalla società di leasing per ottenere rapidamente un provvedimento giudiziale di condanna al rilascio del bene di sua proprietà; c) ostava, infine, alla riunione, lo stato delle due cause, quella oggi in commento già definibile a scioglimento della riserva assunta alla prima udienza, l’altra appena instaurata e per la quale doveva essere ancora celebrata la prima udienza.
Nel merito, la domanda della parte ricorrente è stata totalmente accolta, sul presupposto del mancato pagamento del corrispettivo secondo i termini e le modalità concordati, quale causa di risoluzione ipso iure dell’atto negoziale.
Dalla risoluzione del contratto, derivando indi l’obbligo della convenuta di restituire i beni che ne formavano l’oggetto, giacchè incontroversa l’attuale detenzione degli immobili da parte della utilizzatrice.
Sempre nel merito, il Tribunale ha ritenuto prive di pregio le deduzioni svolte dalla convenuta, per opporsi alla pretesa creditoria della ricorrente e per sorreggere le proprie domande riconvenzionali.
Per quanto concerne la pretesa di restituzione dei canoni di leasing già pagati, avanzata dalla convenuta in applicazione dell’art. 1526 c.c. nel presupposto della natura traslativa della locazione finanziaria de qua, essa è stata ritenuta infondata in quanto, anche qualora il contratto di leasing per cui era causa fosse stato qualificabile come “traslativo”, tale da potersi applicare in via analogica la disciplina della vendita con riserva di proprietà, il diritto della società concedente di acquisire integralmente i canoni scaduti fino ai momento della risoluzione del contratto, discendeva e sempre dal dettato contrattuale di riferimento, che a sua volta trovava il suo fondamento normativo proprio nell‘art. 1526, comma 2, c.c. e che espressamente prevede la possibilità delle parti di convenire che le rate pagate restino acquisite al venditore/concedente.
Le doglianze relative all’asserita irregolarità urbanistico-catastale degli immobili ed alla conseguente difformità rispetto a quanto promesso, non sono state infine ritenute tali da elidere la pretesa creditoria della società di leasing, né da fondare una domanda risarcitoria nei suoi riguardi, stante il chiaro disposto, ancora una volta, del regolamento di interessi, che esonerava la parte concedente da qualsiasi responsabilità per vizi o irregolarità che potessero pregiudicare l’uso dell’immobile locato, imponendo alla parte utilizzatrice di corrispondere ugualmente i canoni di leasing, salva la sua possibilità di agire direttamente nei confronti del fornitore/venditore. In conclusione, accertata la risoluzione di diritto del contratto di locazione finanziaria, la resistente è stata condannata al rilascio dei beni, liberi da persone e cose.
COMMENTO
L’applicazione, seppur in via analogica, della disciplina dettata in tema di risoluzione per inadempimento del contratto dall’art. 1526 cod. civ. al leasing traslativo, una volta che il rapporto contrattuale sia stato in tal senso qualificato, non è sussidiaria, giova fin d’ora precisarlo, rispetto alla volontà delle parti, bensì inderogabile (tra le altre, Cass., 27 settembre 2011, n. 19732; in precedenza Cass., 29 marzo 1996, n. 2909), comportando, in linea generale, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti, salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni (tale da remunerare il solo godimento e non ricomprendere anche la quota destinata al trasferimento finale di essi), oltre al risarcimento dei danni.
La clausola di irripetibilità dei canoni riscossi dal concedente, la cui previsione convenzionale è contemplata dallo stesso art. 1526 cod. civ., comma 2 (con conseguente potere riduttivo del giudice “secondo le circostanze”), è da qualificarsi come clausola penale, giacchè volta alla predeterminazione del danno risarcibile nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore (cosi specificamente Cass. n. 2909 del 1996, cit., e Cass., 17 luglio 2008, n. 19697, non massimata; nella medesima prospettiva, Cass., 2 marzo 2007, n. 4969; Cass., 28 agosto 2007, n. 18195 del 2007 e n. 4969 del 2007 Cass., 17 gennaio 2014, n. 888).
Ed è principio consolidato (Cass., 25 gennaio 1997, n. 771; Cass., 15 ottobre 2007, n. 21587; Cass., 24 aprile 2008, n. 10741) giova ancora precisarlo, quello per cui, in assenza di richiesta di applicazione della clausola penale, non può di ufficio il giudice statuire su di essa, neanche a seguito della pronuncia di risoluzione del contratto, attesa la natura autonoma della domanda di pagamento della penale, rispetto a quella di risoluzione contrattuale (autonomia che si apprezza anche rispetto alla domanda di risarcimento del danno).
L’operatività della clausola penale è, dunque, rimessa esclusivamente all’iniziativa della parte e, pertanto, al di là del fatto che essa integri solitamente una domanda, ove in ipotesi si presti a paralizzare una diversa e contrapposta pretesa, essa non può essere annoverata tra le eccezioni in senso lato, bensì nelle eccezioni in senso stretto, sottratte al rilievo officioso del giudice e disciplinate, invece, dall’art. 112 cod. proc. civ.
La decisone oggi in commento, in buona sostanza, dovrà essere letta anche con il richiamo e la giusta considerazione dei principi come esposti dai giudici della legge.
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