Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LE MASSIME
Deve escludersi l’iniquità della penale pattuita ai sensi dell’art. 1526 comma 2 c.c., laddove il lessor con l’applicazione della clausola sopra indicata, non otterrà una somma maggiore di quella che avrebbe percepito dall’esecuzione del contratto.
Una interpretazione anche costituzionalmente orientata, della disciplina di cui all’art. 1526 comma 2 cpc, in concorso con il richiamo alla legge n. 208/2015 comma n. 78, sul cosiddetto leasing abitativo, non può consentire al soggetto meno bisognevole di tutela (l’imprenditore) di godere di una disciplina più favorevole rispetto a quella esplicitamente prevista per il soggetto più debole (le giovani coppie); il dettato normativo come contenuto nella legge 208/15, deve pertanto applicarsi a tutti i contratti di leasing.
La natura di atto amministrativo dei decreti ministeriali osta all’applicabilità del principio “iura novit curia”. Ne consegue che spetta alla parte interessata l’onere della relativa produzione, la quale non è suscettibile di equipollenti
Questi i principi espressi dal Tribunale di Brescia, Giudice Gianluigi Canali con la sentenza n. 2733 del 15.10.2018.
IL CASO
Ricorreva avanti il Tribunale di Brescia un società di leasing, nella forma del processo sommario di cognizione, esponendo di avere concesso in locazione finanziaria un immobile, il cui contratto la conduttrice aveva poi ceduto ad altro soggetto giuridico, sempre società di capitali; essa ultima non aveva pagato i canoni dovuti, sicchè il lessor si era avvalso della clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c.
La ricorrente chiedeva pertanto l’accertamento dell’avvenuta risoluzione e la condanna della conduttrice al rilascio dell’immobile. Parte resistente si costituiva in giudizio, deducendo che competente a conoscere della controversia fosse altro Tribunale, assumendo che il titolo contrattuale speso dalla ricorrente era un contratto di locazione e che l’art. 447 bis cpc non consentiva deroghe pattizie alla competenza; che la procura alle liti era nulla; che la società locatrice aveva applicato interessi usurari e anatocistici; che la conduttrice aveva diritto alla restituzione dei canoni pagati, ai sensi dell’art. 1526 c.c.
Il giudice designato disponeva il mutamento del rito.
In assenza di attività istruttoria, la causa era indi posta in decisione.
IL COMMENTO
Il Tribunale di Brescia, in primis ha affrontato la questione afferente la eccezione di incompetenza per territorio come sollevata dalla resistente concludendo per la infondatezza della stessa, posto che il contratto portato all’esame non rientrava nella tipologia dei contratti di locazione tout court considerati, tali da poter invocare la applicazione della normativa speciale di cui all’art. 447 bis cpc, quanto un contratto di leasing, come anche recentemente tipizzato dal legislatore.
Ad esso contratto, non potendo indi applicarsi l’art. 447 cpc, sicchè la normativa di riferimento in tema di competenza, è stata ritenuta quella di cui all’art 20 cpc, derogabile dalla volontà delle parti le quali ed appunto, con il proprio regolamento di interessi, avevano individuato nel Tribunale di Brescia, il giudice competente.
L’indicata pattuizione, risultava peraltro debitamente sottoscritta, ai sensi dell’art. 1341 c.c.
Anche l’eccezione di nullità della procura alle liti è risultata infondata, atteso che la mandataria ad lites e ad negotia che aveva conferito il relativo mandato al legale, risultava autorizzata con procura notarile alla gestione stragiudiziale e giudiziale, di tutti i diritti derivanti dal contratto di leasing.
Esaminata e quindi dal Tribunale di Brescia la doglianza di parte convenuta, in relazione all’usurarietà degli interessi, esso giudice ha evidenziato la mancata allegazione di parte resistente, di quale sarebbe stato il tasso soglia violato. Comportamento processuale questo che, come si leggerà poi con il dictum della decisione, verrà censurato. Essa resistente avrebbe dovuto infatti indicare in quale categoria il contratto doveva essere compreso e quale fosse il tasso soglia previsto alla stipulazione dello stesso. Solo dopo aver allegato le indicate circostanze di fatto, potendo e dovendo parte convenuta produrre in giudizio i decreti ministeriali relativi ai tassi soglia, in precedenza individuati.
Trattandosi di fatti costitutivi dell’eccezione, la descritta attività assertiva avrebbe dovuto essere posta in essere in comparsa di costituzione, senonché in comparsa non vi era traccia alcuna, di detta attività.
Il Tribunale di Brescia, ancora sul punto in commento ha indi sapientemente richiamato il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, giusta il quale “la natura di atto amministrativo dei decreti ministeriali, osta all’applicabilità del principio “iura novit curia“; da ciò conseguendo che spetta alla parte interessata, l’onere della relativa produzione, la quale non è suscettibile di equipollenti (Cass. 15065 /2014).
A parere di chi scrive, giovando il richiamo anche a Cass. Sez. Un. n. 9941 del 29/4/2009, che in modo più preciso ha affermato quanto alla natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali, la inapplicabilità del principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 cod. proc. civ., da coordinarsi, sul piano ermeneutico, con il disposto dell’art. 1 preleggi (che non comprende infatti i detti decreti, tra le fonti del diritto; da ciò conseguendo che in assenza di qualsivoglia loro produzione nel corso del giudizio di merito, deve ritenersene inammissibile l’esibizione, ex art. 372 cod. proc. civ., in sede di legittimità, dovendosi comunque escludere, ove invece gli atti e i documenti siano stati prodotti nel corso del giudizio di merito, la sufficienza della loro generica indicazione nella narrativa che precede la formulazione dei motivi, attesa la necessità della “specifica” indicazione della documentazione posta a fondamento del ricorso, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; norma essa che impone la precisa individuazione della fase di merito, in cui la stessa sia stata prodotta. Ed ancora precisando la sentenza in commento, che in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, la nuova previsione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale puntuale indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità, con la conseguenza che, in caso di omissione di tale adempimento, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile“.
Bene, l’indicato principio di diritto, è stato affermato anche con riferimento al caso trattato dal giudice bresciano, in linea con la consolidata giurisprudenza, anche di merito. (Trib. Mantova 1.12.2009) (Trib Ravenna 29.5.2012).
Era pertanto onere di parte convenuta, motiva il Tribunale di Brescia, produrre i decreti ministeriali relativi ai periodi in cui, secondo la sua prospettazione, si sarebbe verificato il superamento del tasso soglia, onde consentire al giudicante di verificare la fondatezza dell’assunto.
Solo per completezza, lo stesso Tribunale ha comunque preso in considerazione l’ulteriore motivo di infondatezza dell’eccezione di parte resistente, riferita agli interessi moratori; così partendo dal noto quadro normativo in tema di usura, come riformato dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, la quale è innanzitutto intervenuta sull’art. 644 c.p., che nella formulazione attuale punisce chiunque si faccia dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. Ai sensi del terzo comma del medesimo articolo, la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari.
Il pendant di tale disposizione in ambito civilistico, è rappresentato dal secondo comma dell’art. 1815 c.c. (anch’esso modificato dalla legge 108), ai sensi del quale, laddove siano convenuti interessi usurari, “la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
La legge 108 ha rimesso al Ministero del Tesoro, sentita la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, l’individuazione, mediante rilevazioni trimestrali, del tasso soglia, superato il quale gli interessi devono essere considerati usurari.
La nota questione, sorta già all’indomani dell’entrata in vigore di tale normativa, ha per oggetto l’estendibilità della disciplina anti-usura, agli interessi moratori.
Gli interpreti, al riguardo, assumendo posizioni contrastanti.
Secondo un primo orientamento, il combinato disposto dell’ art. 644 c.p. e dell’art. 1815, comma secondo, c.c., sarebbe stato operante anche nel caso di interessi moratori; tesi questa che si fonda essenzialmente sul disposto dell’ art. 1, comma primo, del d.l. 29.12.2000, n. 394, di interpretazione autentica dell’ art. 644 c.p., convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, l. 28.2.2001, n. 24, il quale ha ricondotto alla nozione di interessi usurari quelli convenuti “a qualsiasi titolo”. Da ciò deriverebbe l’applicazione del tasso soglia fissato dal Ministero, anche agli interessi moratori, che, dunque, in caso di superamento del limite, sarebbero qualificabili come usurari.
A tale tesi contrapponendosi l’orientamento che esclude l’applicabilità della disciplina anti-usura agli interessi di mora, valorizzando la distinzione funzionale fra interessi moratori e interessi corrispettivi. Nello specifico, i secondi avrebbero una funzione remunerativa, costituendo il corrispettivo di una prestazione di denaro, mentre i primi avrebbero natura risarcitoria, e quindi rappresenterebbero la liquidazione forfettaria del danno, in caso di ritardato adempimento nelle obbligazioni pecuniarie. Tale tesi è suffragata dal dato testuale dell’art. 644 c.p., il quale sanziona chiunque si fa dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità. La dizione della legge “in corrispettivo” si riferirebbe, invero, ad interessi che stiano in un rapporto di sinallagmaticità rispetto al finanziamento e, dunque, condurrebbe a limitare l’operatività della stessa, ai soli interessi corrispettivi.
Assimilando sul piano funzionale la pattuizione relativa agli interessi moratori, ad una clausola penale, motiva il Tribunale di Brescia, la tutela del debitore sarebbe dunque affidata all’ art. 1384 c.c., che consente al Giudice di diminuire in via equitativa la penale, laddove l’obbligazione principale sia stata eseguita in parte ovvero l’ammontare della penale sia manifestamente eccessivo, avuto riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento. Inoltre, al fine di evitare eventuali pattuizioni elusive, tale orientamento ritiene applicabile la disciplina del contratto in frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c. nelle ipotesi in cui vengano previsti in capo al debitore, termini di adempimento così ravvicinati, da porre quest’ultimo quasi immediatamente in posizione di inadempimento, facendo sì che i tassi moratori, anziché trovare applicazione solo con riferimento alla fase patologica del rapporto, finiscano per regolare anche la fase fisiologica dello stesso.
Orbene, nel caso oggi in commento, il giudice ha aderito a tale secondo indirizzo, assumendo oltre alle considerazioni sin qui riportate, ulteriori elementi che inducono ad escludere che gli interessi moratori, possano essere attratti nell’ambito della disciplina anti-usura. Vediamoli:
- a) a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella L. 10 novembre 2014, n. 162, l’art. 1284, al comma quarto, stabilisce che, nel caso in cui le parti non abbiano determinato la misura degli interessi, “dal momento in cui è proposta domanda giudiziale, il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. Il riferimento è dunque al D. lgs 231/02, che determina il saggio degli interessi legali di mora “in misura pari al saggio d’interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali” maggiorato di 8 punti percentuali. Il nuovo art. 1284 c.c. intende contrastare il fenomeno dell’autofinanziamento a basso costo connesso alla durata di un giudizio ordinario di primo grado: il debitore preferirebbe in sostanza lucrare dal mantenimento della disponibilità delle somme per un tempo indeterminato, ad un tasso molto contenuto. Con l’applicazione degli interessi moratori di cui al d.lgs. 231, a partire dalla domanda giudiziale, questa convenienza viene meno. Il legislatore si è mosso dunque in una direzione opposta rispetto a quella tenuta nel fissare la disciplina antiusura per i corrispettivi: se per questi la legge ha inteso limitare il costo del denaro a vantaggio del debitore, individuando un limite oltre il quale il tasso deve considerarsi usurario, con riferimento ai moratori è stata considerevolmente innalzata la misura degli interessi legali di mora, al fine di scoraggiare i ritardi negli inadempimenti. Ciò che costituisce una conferma del fatto che il legislatore, nel disciplinare gli interessi moratori, utilizza logiche e parametri differenti da quelli utilizzati per i corrispettivi;
- b) l’applicazione inoltre del tasso soglia anche ai moratori, produrrebbe una contraddizione sistematica, in quanto, di regola, il tasso di cui al d.lgs 231/02 è superiore al tasso soglia ministeriale. Nello specifico, potendosi determinare una situazione irragionevole in cui, nell’ipotesi di previa pattuizione di interessi, il creditore che agisca per ottenerne il pagamento in misura superiore al tasso soglia ministeriale, ma inferiore al saggio ex art. 1284, comma quarto, si vedrebbe respingere la propria domanda; al contrario, nel caso di mancata pattuizione, il creditore potrebbe agire chiedendo la corresponsione degli interessi nella misura stabilita dal d.lgs. 231, che, seguendo la tesi qui contestata, dovrebbe tuttavia considerarsi usuraria.
Bene, alla luce delle considerazioni esposte, il Giudice di Brescia ha ritenuto non applicabile la disciplina anti-usura, agli interessi moratori. Per quanto riguarda la doglianza sempre di parte resistente relativa alla presunta applicazione di interessi anatocistici, rilevandone esso giudice l’assoluta genericità. Sempre nel merito ed infine, il Tribunale di Brescia ha affrontato la questione come sollevata dalla resistente in via riconvenzionale subordinata, giusta la quale, poiché il contratto di leasing portato all’esame doveva essere qualificato come traslativo, l’attrice, in caso di risoluzione del contratto, avrebbe dovuto restituire i canoni percepiti. Orbene ed in primis, a parere del Giudice, il contratto doveva sicuramente qualificarsi quale leasing traslativo, atteso che oggetto dello stesso era un immobile, il quale, per sua natura, mantiene sicuramente il proprio intero valore, al termine del contratto di locazione finanziaria. Le parti inoltre risultavano avere previsto per l’esercizio dell’opzione di acquisto, un corrispettivo pari ad una frazione del valore dell’immobile, così chiarendo che con le rate di leasing, il conduttore, più che assicurarsi il godimento del bene, ne acquistava “ratealmente” la proprietà. Con la decisione oggi in esame, il giudice ha però correttamente ricordato in primis che l’art. 1526 secondo comma c.c., prevede che “qualora sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l’indennità convenuta”.
Il citato secondo comma consentendo quindi alle parti, di derogare alla disciplina prevista dal primo comma, secondo cui “se la risoluzione del contratto ha luogo per l’inadempimento del compratore il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno”. Bene, a fronte e quindi della regola generale secondo cui le rate pagate devono essere restituite, salvo il risarcimento del danno, è consentito alle parti, sempre salvo il risarcimento dell’ulteriore danno, stabilire che le rate già pagate, siano trattenute a titolo di indennizzo.
Ai sensi dell’art. 1384 c.c., motiva ancora il Giudice di Brescia, è poi consentito ai contraenti di prevedere che la società di leasing possa pretendere, a titolo di penale, le rate scadute e non pagate, oltre alla rate a scadere attualizzate, al netto della somma incassata dalla ricollocazione sul mercato dell’immobile o, qualora la società di leasing preferisca non procedere alla vendita, al netto del valore di mercato dell’immobile, alla data della risoluzione.
In questo senso esprimendosi anche il legislatore che, nel disciplinare la risoluzione del contratto di leasing, con la legge n. 208/2015 comma n. 78, ha previsto che “in caso di risoluzione del contratto di locazione finanziaria per inadempimento dell’utilizzatore, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene avvenute a valori di mercato, dedotta la somma dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere attualizzati e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto. L’eventuale differenza negativa è corrisposta dall’utilizzatore al concedente. Nelle attività di vendita e ricollocazione del bene, di cui al periodo precedente, la banca o l’intermediario finanziario deve attenersi a criteri di trasparenza e pubblicità nei confronti dell’utilizzatore”.
Secondo alcuni, motiva il Tribunale, la norma non sarebbe applicabile solamente al leasing abitativo, ma porrebbe una regola che troverebbe applicazione nella locazione finanziaria in generale; secondo altri, invece, la disciplina dovrebbe essere applicata solamente agli immobili destinati ad abitazione principale del contraente utilizzatore.
Senonché, conclude il giudice, anche seguendo questa seconda impostazione, sembrando difficile ritenere che il legislatore abbia inteso dettare nei confronti di un soggetto debole (le giovani coppie che hanno acquistato un immobile) una norma più severa rispetto a quella (l’art. 1526 c.c.) che la giurisprudenza è solita applicare nei confronti di utilizzatori, quali le società di capitali, sicuramente meno bisognosi di tutela e protezione. In buona sostanza, potendosi escludere che mentre un imprenditore commerciale inadempiente debba essere tenuto a pagare solamente l’equo compenso, una coppia che abbia necessità di acquistare la propria casa di abitazione, oltre a non avere diritto alla restituzione dei canoni pagati, debba corrispondere i canoni scaduti e quelli a scadere, al netto di quanto ricavato dalla vendita dell’immobile.
Evidente e quindi che una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina citata, non possa consentire al soggetto meno bisognevole di tutela (l’imprenditore) di godere di una disciplina più favorevole rispetto a quella esplicitamente prevista per il soggetto più debole, con conseguente necessità di applicare la norma, a tutti i contratti di leasing.
Ha quindi concluso il Tribunale di Brescia, con la importante affermazione che la recente normativa in tema di leasing, introdotta con legge 124/2017, ha definitivamente ammesso la possibilità che la società di leasing, possa trattenere i canoni percepiti e pretendere il pagamento del capitale residuo al netto del valore del bene; nel caso portato all’esame, occorrendo rilevare come le parti avessero pattuito il diritto del locatore di trattenere i canoni pagati e di pretendere il pagamento di quelli scaduti ed a scadere, al netto del valore del bene.
Detta clausola, come più volte ritenuto dallo stesso Tribunale, è stata indi ritenuta pienamente valida, in quanto conforme all’art 1526 secondo comma c.c. (vedi ora Cass. 15202/18).
Ancora detta clausola, che ha natura di penale, potendo essere evidentemente ricondotta ad equità dal giudice, ex art. 1384 c.c., qualora la parte interessata dimostri che la sua applicazione, porterebbe a conseguenze inique; senonchè, nel caso in esame, poiché la società di leasing, con l’applicazione della clausola sopra indicata, non avrebbe ottenuto una somma maggiore di quella che avrebbe percepito dall’esecuzione del contratto, è stata definitivamente esclusa l’iniquità della penale pattuita.
Parte resistente è stata quindi condannata alla restituzione del bene immobile, rigettate tutte le domande di essa stessa soccombente come formulate in riconvenzionale, con una sonora condanna alle spese di lite.
LEASING: ANCORA SULLA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL RAPPORTO
INADEMPIMENTO E PRETESA APPLICAZIONE DELL’ART. 1526 C.C.
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USURA-LEASING: ANCORA SULL’ECCEZIONE DI USURARIETÀ DEGLI INTERESSI CORRISPETTIVI E DI MORA
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Sentenza | Tribunale Di Roma, Dott. Simone Antonio Castelnuovo | 13.01.2018 | n.847
LEASING- ANCORA SULLA LEGGE 124/17: TRA OVERRULLING E JUS SUPERVENIENS PREVALE IL SECONDO
L’ART. 11 DELLE PRELEGGI NON COSTITUISCE UN LIMITE ALLA IMMEDIATA APPLICAZIONE DELLA RIFORMA
Articolo Giuridico | 11.01.2018 |
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