Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LA MASSIMA
Il ricorso è inammissibile ove il ricorrente non individui i termini in cui le norme richiamate in rubrica sarebbero state erroneamente interpretate o applicate, limitandosi al contrario a proporre una diversa lettura della vicenda, funzionale all’affermazione dell’avvenuta rinuncia della locatrice a far valere gli effetti dell’esercitata clausola risolutiva.
Questi i principi come ricavabili dall’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione, Pres. Rel. Sestini, n.12669 del 23 maggio 2018.
IL CASO
In relazione ad un contratto di locazione finanziaria avente ad oggetto un immobile utilizzato da una persona fisica – ditta individuale – il Tribunale di Bari rigettò la domanda proposta da una società di leasing, volta ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto – a seguito della dichiarazione di avvalersi di una clausola risolutiva espressa – il rilascio del bene ed il pagamento dei canoni ancora insoluti.
Ritenne il primo Giudice che l’accettazione dei canoni, avvenuta in corso di procedimento cautelare e dopo l’esercizio della clausola risolutiva, aveva comportato la tacita rinuncia della società ad avvalersi degli effetti risolutivi.
In parziale accoglimento del gravame proposto dal lessor, la Corte di Appello di Bari escluse la possibilità di ritenere integrata nella condotta della concedente, una tacita rinuncia ad avvalersi degli effetti dell’esercitata clausola risolutiva, condannando pertanto il lessee al rilascio dell’immobile.
Propose, quindi, ricorso per cassazione la parte utilizzatrice, affidandosi ad un unico motivo illustrato da memoria ed ha resistito l’intimata, con controricorso.
All’interno dello stesso controricorso, in particolare, parte resistente, in via di eccezione quanto alla formulazione avversaria, ove si eccepiva la violazione e falsa applicazione ex art. 360 n. 3 c.p.c.. dell’art. 1453 c.c., in relazione all’art. 1526 c.c., si è soffermata sul rilievo critico dedotto dalla ricorrente, giusta il quale la Corte di Appello di Bari non aveva ritenuto che il comportamento tenuto dalla società di leasing in pendenza del procedimento cautelare ante causam, ravvisasse la volontà inequivoca della stessa di rinunciare agli effetti della risoluzione contrattuale, come comminata in virtù della facoltà prevista contrattualmente nel dettato di riferimento; ciò in quanto i pagamenti effettuati a più riprese dall’utilizzatore nelle more del procedimento cautelare ed accettati dalla società concedente, sarebbero stati giuridicamente qualificati, al contrario di quanto ritenuto dal primo Giudice, quale domanda conseguente alla intervenuta risoluzione del rapporto, tale da consentire alla stessa società di leasing di realizzare e comunque i diritti ad essa spettanti, all’esito dell’esercizio della facoltà di risoluzione, quali il diritto ad ottenere il pagamento dei canoni scaduti ed insoluti, oltre agli interessi, oltre ed infine alla restituzione del cespite concesso in leasing ed al risarcimento del danno.
Ad avviso del ricorrente le motivazioni assunte dalla Corte Distrettuale a sostegno della riforma, seppure parziale della sentenza di primo grado, sarebbero state del tutto erronee, in quanto il giudicante non avrebbe considerato le circostanze in punto di fatto provate documentalmente e non contestate dalle parti.
In particolare, il contegno ottenuto dalla originaria concedente con l’accettazione del pagamento dei canoni scaduti, nonostante la proposizione della domanda di risoluzione contrattuale, rappresentava manifestazione inequivoca di un interesse alla tardiva esecuzione del contratto e quindi, di rinuncia ad avvalersi dell’effetto risolutivo, già manifestato nella forma e nella spendita della clausola risolutiva espressa.
La società di leasing, rinunciando quindi ipso facto agli effetti della clausola risolutiva già comminata, a dire del ricorrente non avrebbe neppure potuto formulare le domande proposte nel giudizio di primo grado, semmai era deputata soltanto ad imputare la risoluzione del contratto per grave inadempimento.
Il comportamento in buona sostanza tenuto dal lessor, avrebbe quindi assunto un significato manifestamente abdicativo degli effetti risolutivi del rapporto, da mettersi in relazione anche con la qualificazione giuridica dello stesso, leasing finanziario traslativo, tale da comportare il richiamo a tutte le conseguenze previste all’art. 1526 c.c. previa declaratoria, incidenter tamtum, di nullità di alcune clausole delle condizioni generali del rapporto.
Ha esposto, quindi, la resistente in sede di legittimità, che il ricorso formulato ex adverso appariva prima facie inammissibile e privo di fondamento giuridico, laddove la lettura della sentenza portata all’esame della Suprema Corte, era solo parziale e non coglieva affatto il senso ed il contenuto delle effettive motivazioni poste a base della decisione impugnata.
La Corte Distrettuale, infatti, aveva affermato che se era vero che il creditore, il quale si sia avvalso della clausola risolutiva espressa, possa rinunciare tacitamente all’effetto risolutivo, era altresì vero che, a tal fine, non poteva prescindersi dalla inosservanza di un comportamento inequivoco, chiaramente incompatibile con la volontà di avvalersi di tale effetto.
Ancora, la Corte di Appello di Bari esponendo che, contrariamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, nel comportamento ottenuto dalla società di leasing, in pendenza del procedimento cautelare ante causam, non fosse ravvisabile l’imprescindibile requisito della inequivocità dell’intento perseguito dalla concedente, nel senso di rinunciare agli effetti di una risoluzione contrattuale già comminata con lettera racc. A/R, in esercizio della facoltà contrattualmente prevista dal dettato contrattuale di riferimento.
Aveva, quindi, ben esposto la Corte Distrettuale come, all’esito dell’esercizio della facoltà di risolvere il contratto, stante l’inadempimento dell’utilizzatore, facessero seguito precisi obblighi a carico di quest’ultimo, consistenti nel pagamento dei canoni scaduti, con gli interessi di mora, oltre che la restituzione del cespite concesso in leasing e l’ulteriore risarcimento del danno.
Ancora aggiungendo, la Corte Distrettuale, che pur avendo richiesto il lessor, ante causam, con la domanda cautelare ex art. 700 c.p.c., la restituzione dell’immobile sul presupposto della risoluzione contrattuale, non poteva certo escludersi che la società finanziaria avesse accettato i pagamenti parziali, nelle more del predetto procedimento cautelare, nell’intento di realizzare comunque diritti dalla stessa ritenuti a sé spettanti, in attuazione del regolamento di interessi.
In buona sostanza, aveva assunto la Corte che il diritto a percepire i canoni scaduti ed insoluti era diritto esercitabile secondo il regolamento contrattuale, sia in pendenza del rapporto di locazione finanziaria sia nella ipotesi di scioglimento per effetto della esercitata facoltà di recesso, ricollegabile all’inadempimento dell’utilizzatore; consequentialiter, non potendosi interpretare l’accettazione dei canoni corrisposti tardivamente da parte del lessor, quale volontà di essa società creditrice di abbandonare gli effetti derivanti dalla risoluzione, proseguendo nel rapporto.
Ancora, la Corte Distrettuale, censurando il giudice di prime cure, laddove esso aveva argomentato, a favore della rinuncia tacita, con il richiamo alla clausola disciplinate l’evento risoluzione del rapporto, tale da apparire in contrasto con la disciplina legale di cui all’art. 1526 c.c. concluse, quindi, la Corte Distrettuale con l’assunto che nonostante il pagamento tardivo dei canoni di locazione, il rapporto contrattuale, contrariamente da quanto opinato dal primo Giudice, doveva ritenersi irrimediabilmente risolto, per effetto dell’esercizio da parte del lessor della facoltà di recesso, contrattualmente prevista; ciò, a fronte dell’indiscusso inadempimento dell’utilizzatore al pagamento puntuale dei canoni dovuti.
Dalla accertata e, quindi, risoluzione del contratto di leasing, derivando l’obbligo restitutorio dell’immobile da parte del lessee, il quale era stato condannato al rilascio dell’immobile, in favore dell’avente diritto.
Ritenuto e, quindi, assorbito da parte della Corte Distrettuale l’ulteriore motivo di gravame, laddove e cioè l’appellante si duoleva del fatto che il Tribunale in parte qua, non avesse tratto le dovute conclusioni in conseguenza della persistenza dell’inadempimento ascrivibile alla parte attrice, essa ritenne, invece, non fondati gli ulteriori motivi di appello.
Ancora la Corte distrettuale evidenziando come al thema decidendum, in difetto di tempestive ed ammissibili domande delle parti, restasse estraneo ogni approfondimento in ordine sia alla determinazione dell’equo compenso, sia alla restituzione dell’ammontare dei canoni corrisposti in pendenza di rapporto, in applicazione della disciplina di cui all’art. 1526 c.c., sia in merito all’eventuale ulteriore accertamento di danni ulteriori, sempre secondo il disposto del citato art. 1526, in difetto di accertamento dell’equo compenso.
Essa Corte si limitò e, quindi, ad una pronuncia di condanna dell’utilizzatore al rilascio dell’immobile, fermo ed impregiudicato ogni diritto conseguente alla applicazione dell’art. 1526 c.c., da definirsi in separato giudizio, se proposto.
Dalla rappresentazione che precede, evidenziandosi e quindi, ancora una volta, con il controricorso, la inammissibilità della impugnativa avversaria, laddove essa evidentemente pretendeva una pronuncia di annullamento con rinvio della sentenza, ove il Giudice del rinvio avrebbe dovuto statuire in merito a domande mai formulate dalle parti avanti il precedente grado di merito, in particolare mai formulate dal ricorrente con la sentenza oggi in commento, sulla pretesa applicazione dell’art. 1526 c.c., atta a contrastare la obbligazione fondamentale ed a proprio carico di riconsegna del bene già oggetto del rapporto, alla legittima proprietaria ed avente diritto; con ciò ostentando una inammissibile pretesa ritentiva sul bene, in totale contrasto con la giurisprudenza consolidata di essa odierna Ecc.ma Corte, oltre che in contrasto con il principio della domanda, già bene evidenziata dalla Corte Distrettuale.
COMMENTO
Orbene, la Suprema Corte, con la sentenza oggi in esame e sulla premessa che con l’unico motivo («violazione e falsa applicazione ex art. 350 n. 3 cpc dell’art. 1453 c.c. in relazione all’art. 1526 c.c.»), il ricorrente censurava la Corte distrettuale per avere ritenuto che il comportamento della locatrice non fosse inequivoco e chiaramente incompatibile con la volontà di avvalersi dell’effetto risolutivo, ha dichiarato inammissibile il motivo (oltre che infondato nella parte in cui deduceva incidentalmente un insussistente giudicato formatosi sul provvedimento di rigetto del ricorso cautelare),
Riteneva che non individuava i termini in cui le norme richiamate in rubrica, sarebbero state erroneamente interpretate o applicate, limitandosi al contrario a proporre una diversa lettura della vicenda, funzionale all’affermazione dell’avvenuta rinuncia della locatrice a far valere gli effetti dell’esercitata clausola risolutiva, così risolvendosi in un’inammissibile istanza di rivalutazione del merito.
La Corte ha, quindi, dichiarato l’inammissibilità del ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in euro 200,00) e agli accessori di legge, dando atto ed infine della sussistenza ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Di rilievo, merita attenzione la decisione oggi in commento, anche sotto altro profilo, afferente la presa d’atto del principio generale che nei casi in cui una sentenza di merito condanni la parte soccombente alla “restituzione del bene”, detta sentenza non possa avere esecuzione, fino al passaggio in giudicato della pronuncia appellata.
A tale proposito, precisandosi che al di fuori delle statuizioni di condanna consequenziali, le sentenze di accertamento (e quelle costitutive) non possono avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, essendo l’esecuzione riferibile soltanto a quelle sentenze (di condanna) suscettibili del procedimento disciplinato dal terzo libro del codice di procedura civile.
Tale interpretazione trovando ulteriore conferma: a) nell’art. 283 cod. proc. civ., che, prevedendo espressamente la possibilità di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, necessariamente intende fare riferimento alle sentenze di condanna;
- b) nelle disposizioni di cui agli 431 e 447 bis cod. proc. civ., che fanno riferimento alle sole ipotesi di condanna;
- c) nella regola generale dell’immutabilità dell’accertamento sancita dall’ 2909 cod. civ., atteso che, in mancanza di una espressa previsione legislativa in senso contrario, tale norma non consente di attribuire efficacia a un accertamento che non sia ancora definitivo (cfr. Cass. n. 7369 del 26.03.2009).
Dallo scenario che precede, derivando che l’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione, soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, ex se, a costituire titolo esecutivo, postulando il concetto stesso di esecuzione di un’esigenza di adeguamento della realtà al decisum che, evidentemente, manca sia nelle pronunce di natura costitutiva che in quelle di accertamento.Orbene, il provvedimento rectius, la sentenza oggetto della controversia oggi in commento, conteneva una statuizione di natura evidentemente dichiarativa, nella parte in cui accertava, incidenter tantum, l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto intervenuto tra le parti.
Se è vero che dal punto di vista sostanziale, gli effetti della risoluzione di diritto – al contrario della risoluzione giudiziale -retroagiscono al momento della verificazione dei presupposti di legge richiesti dalla legge, diverso è il piano processuale in punto di esecutività della pronuncia, in cui non si può prescindere dal disposto dell’art. 282 c.p.c. dove l’esecutività è circoscritta alle pronunce di condanna.
Per verificare, dunque, se la pronuncia di condanna alla restituzione dell’immobile (è) conseguente alla dichiarazione della risoluzione del contratto, si devono prendere spunto dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 4059 del 2010.
Pur nella sostanziale diversità del caso concreto affrontato – nella specie i giudici di legittimità si erano occupati dell’esecutività del capo di condanna al rilascio di immobile, conseguente all’accoglimento di pronuncia costitutiva ex art 2932 c.c. – la Suprema Corte ha espresso una serie di principi, valevoli ancora oggi nella panoramica giurisprudenziale.
In particolare, nella suddetta pronuncia si afferma che “la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva, va riconosciuta in concreto volta a volta a seconda del tipo di rapporta tra l’effetto accessivo condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato”.
A tal fase occorrendo differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che, invece, sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico, ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
“In forza di ciò, potendosi, dunque, ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi di condanna, compatibili con la produzione dell’effetto dichiarativo o costitutivo, anche in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza dichiarativo e/o costitutivo”.
Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda.
La provvisoria esecutività non potendo, invece, riguardare i capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi dichiarativi e/o costitutivi della situazione giuridica sostanziale.
Ora, nel caso di specie, la pronuncia di condanna alla restituzione dell’immobile è indubbiamente legata da un rapporto di stretta connessione sinallagmatica rispetto alla dichiarazione di risoluzione del contratto, rispetto a cui si presenta cioè inscindibile, di talché la sua esecutività non può essere anticipata rispetto alla pronuncia dichiarativa che, come detto, non può produrre effetti prima del passaggio in giudicato.
In conclusione, precisando chi scrive che solo all’esito del giudicato formale e sostanziale come verificatosi con la sentenza della Suprema Corte potrà finalmente essere messa in esecuzione la sentenza della Corte di appello in parte qua ad oggetto la condanna alla riconsegna di immobile concesso in leasing.
Per ulteriori approfondimenti, si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in rivista:
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Sentenza | Tribunale di Trento, dott.ssa Giuliana Segna | 15.07.2015 | n.663
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