Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LA MASSIMA
Per decidere se apportare, o meno, una riduzione, e di quale entità, all’indennità convenzionalmente stabilita dalle parti il giudice dovrà avere riguardo, in relazione all’ammontare complessivo delle rate riscosse, al valore obiettivo della cosa, al tempo per il quale il compratore ne ha avuto l’uso e il godimento e allo stato in cui viene restituita.
Questi i principi espressi dal Tribunale di Roma, Dott.ssa Daniela Gaetano, con l’ordinanza del 17 febbraio 2017.
IL CASO
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., una società di leasing chiedeva al Tribunale adito, accertata e dichiarata in via principale l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto portato all’esame, ai sensi dell’art. 1456. c.c. ed, in via subordinata, previo accertamento e declaratoria degli inadempimenti del lessee agli obblighi di pagamento dei canoni di locazione finanziaria, pronunciata la risoluzione contrattuale anche ai sensi dell’art. 1453 c.c., di condannare la medesima parte utilizzatrice del bene immobile, alla riconsegna immediata dello stesso, in favore della legittima proprietaria.
La società resistente contestava la fondatezza della domanda avversaria, della quale chiedeva il rigetto.
In particolare, segnalava, fra l’altro, la mancata indicazione delle date di stipulazione del contratto di leasing e consegna del bene immobile e la mancata indicazione del luogo di stipulazione del medesimo contratto; ed ancora, assumeva che era in corso presso il medesimo Tribunale, la causa civile assegnata ad altro Giudice, promossa nella forma dell’opposizione al decreto ingiuntivo, con cui era stato chiesto ed ottenuto nel frattempo da lessor il pagamento dei canoni scaduti alla data della risoluzione contrattuale, oltre interessi e spese processuali.
Con la predetta opposizione, proponeva domanda riconvenzionale al fine di conseguire la pronuncia di nullità o annullamento del contratto di leasing, nonché della relativa clausola che prevedeva nella ipotesi di risoluzione, sia l’obbligo di pagamento dei canoni insoluti, sia l’obbligo di pagamento dei canoni a scadere, sia, infine, l’obbligo di restituzione del bene; con la riconvenzionale formulata, invocava la restituzione delle somme già versate in esecuzione del rapporto.
Ancora parte resistente deduceva che nella predetta diversa causa, essa aveva assunto la presenza di costi occulti con incidenza sul TAEG ed il superamento del tasso soglia, in conseguenza dell’applicazione di interessi moratori e costi accessori; aveva indi eccepito il carattere usurario del tasso di mora contrattuale; nello stesso giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, assumeva l’applicabilità e l’inderogabilità dell’art. 1526 c.c., dal quale far derivare la restituzione dei canoni corrisposti ed il riconoscimento, alla parte concedente, di un equo compenso, in ragione dell’utilizzo dei beni locati, in misura tale da remunerare il godimento ma non anche la componente riferita al trasferimento della proprietà.
Orbene, il Tribunale di Roma, ha rilevato in primis che la domanda di rilascio del bene immobile oggetto di locazione finanziaria, per effetto della risoluzione di diritto del rapporto contrattuale, non era condizionata dalla decisione della domanda di accertamento della nullità della clausola relativa agli interessi e le conseguenti restituzioni, in esito all’istruzione con il rito ordinario di cognizione ed istruttoria non sommaria, che è incompatibile con il procedimento previsto dagli art. 702 bis e segg. c.p.c. e, all’art. 702 ter, comma IV, c.p.c., il quale prevede che “Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede un’istruzione non sommaria, il giudice ne dispone la separazione”.
Ha poi osservato il giudice che qualsiasi causa che faccia venir meno il vincolo contrattuale originariamente esistente (nullità, annullamento, risoluzione, rescissione),comporta effetti restitutori, tra i quali, nel caso oggi in commento, il rilascio del bene immobile e che la parte resistente aveva assunto le obbligazioni del contratto di locazione finanziaria, obbligandosi tra l’altro ad adempiere al dettato contrattuale di riferimento, il quale prevedeva che “Il pagamento dei canoni, così come di ogni diversa somma al Concedente dovuta, non potrà essere sospeso o ritardato per motivo alcuno e quindi anche in caso di controversie, mancata utilizzazione o impossibilità di godimento dell’immobile; ogni eventuale pretesa dell’Utilizzatore dovendo pertanto essere fatta valere in separata sede, esclusa in ogni caso la compensazione di qualsiasi sua ragione di credito con quanto da esso, per qualunque titolo, dovuto al Concedente”.
Con la pattuizione di detta clausola, la parte utilizzatrice si è obbligata a corrispondere ciascun canone alla relativa scadenza mensile ovvero alla ricezione della relativa fattura, con la preclusione della facoltà di imputare i pagamenti effettuati per un titolo diverso rispetto a quello indicato nel piano di ammortamento e con esclusione della possibilità di eccepire in compensazione, eventuali crediti inerenti a pagamenti eseguiti per importi ritenuti non dovuti, essendosi obbligata a far valere “ogni eventuale pretesa […] in separata sede”.
Detta clausola del contratto di locazione finanziaria, specificamente approvata ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c., comportava indi la rinuncia dell’utilizzatore a far valere preventivamente l’eccezione di compensazione del credito per la dedotta eccessività di quanto richiesto e corrisposto, rispetto alle pattuizioni contrattuali ed alle previsioni di legge.
In merito alla entità dei canoni di leasing e degli accessori, il Tribunale ha esposto che essi erano stati pattuiti dalle parti nell’esercizio dell’autonomia contrattuale e ciò non contrastava con alcun principio di ordine pubblico.
La clausola risolutiva espressa, aveva ricondotto la risoluzione di diritto del rapporto contrattuale all’inadempimento di obbligazioni specificamente determinate, tra le quali quella a carico dell’utilizzatore di eseguire il tempestivo pagamento di ciascun canone di leasing, salva l’azione separata di ripetizione dell’indebito; in ogni caso la parte resistente non aveva specificatamente contestato i fatti enunciati e documentati dalla ricorrente, riguardo alla data di stipulazione del contratto di locazione finanziaria, l’immissione in possesso del bene immobile ed i canoni pagati e non.
Ancora il Tribunale ha osservato che il lessor parte ricorrente, non aveva documentato la controversa consegna alla società utilizzatrice della lettera con cui essa aveva manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa per il mancato pagamento dei canoni ivi indicati, dichiarando risolto di diritto il rapporto contrattuale, ma ritenendo comunque detta carenza documentale del tutto irrilevante, in considerazione del principio in base a cui: “In tema di clausola risolutiva espressa, la dichiarazione del creditore della prestazione inadempiuta di volersi avvalere dell’effetto risolutivo di diritto di cui all’art. 1456 c.c. non deve essere necessariamente contenuta in un atto stragiudiziale precedente alla lite, potendo essa per converso manifestarsi, del tutto legittimamente, con lo stesso atto di citazione o con altro atto processuale ad esso equiparato”.
Parte resistente non aveva inoltre prodotto documentazione comprovante il pagamento alla controparte di interessi di mora, in misura superiore al tasso soglia previsto dalla legge n. 108 del 1996, a sua volta, non cumulabile con alcuna componente dalla rata mensile del corrispettivo del leasing, costituente la suddivisione in canoni dell’intero corrispettivo inizialmente pattuito dalle parti nella complessiva misura indicata nel rapporto, né il contenuto della perizia di parte resistente, dimostrando i fatti illustrati.
In merito all’onere della prova ad oggetto i fatti estintivi e/o modificati delle obbligazioni contrattuali, il Tribunale ha infine richiamato il costante insegnamento della giurisprudenza, giusta il quale il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; eguale criterio di riparto dell’onere della prova, trovando applicazione anche al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno, si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ.
Sempre nel merito della lite, il Tribunale di Roma ha assunto che la decisione inerente alla domanda principale di rilascio introdotta con il rito sommario, non è condizionata dalla decisione delle domande proposte agli atti dell’altra causa promossa dal lessee con l’atto di citazione in opposizione al decreto ingiuntivo.
Quanto alle argomentazioni sempre di parte resistente, inerenti la riduzione della penale pattuita con il contratto di locazione finanziaria, le dichiarava inammissibili in sede di decisione della domanda di risoluzione di diritto del contratto e rilascio del bene immobile, sul richiamo alla giurisprudenza di legittimità : “[…] per decidere se apportare, o meno, una riduzione, e di quale entità, all’indennità convenzionalmente stabilita dalle parti il giudice dovrà avere riguardo, in relazione all’ammontare complessivo delle rate riscosse, al valore obbiettivo della cosa, al tempo per il quale il compratore ne ha avuto l’uso e il godimento e allo stato in cui viene restituita” (Cass. civ., Sez. 1, sentenza 28.6.1995, n. 7266).
Nella fattispecie oggi in commento, non potendo indi avere luogo alcuna valutazione inerente alla penale, ovvero al risarcimento eventualmente dovuto dalla società utilizzatrice a titolo risarcitorio, non essendo stata proposta detta domanda dalla parte ricorrente oltre che non intervenuto il rilascio del bene immobile locato, solo all’esito del quale sarebbe stato possibile, in astratto, allegare e provare l’ulteriore presupposto pattuito per l’applicazione della penale, rappresentato dalla vendita o riallocazione del bene immobile, prevista dalle condizioni generali di contratto, ritenuto, quindi, il rapporto contrattuale risolto, il Tribunale ha accertato l’intervenuta risoluzione ai sensi dell’art. 1456 c.c., con la condanna di parte resistente all’immediato rilascio del bene, oltre che al pagamento delle spese e dei compensi di lite.
IL COMMENTO
In questa stessa Rivista, abbiamo già commentato la decisione del Tribunale di Brescia – Giudice estensore Dott.ssa Fondrieschi pubblicata in data 8 novembre 2016, da cui deriva il principio per cui non è necessario un atto stragiudiziale per avvalersi della clausola risolutiva espressa, potendo tale volontà essere manifestata con la instaurazione del giudizio, giusta il richiamo alla giurisprudenza di legittimità (Cass. 2129/78- 2143/77 e 5436/95).
Detto principio, si applica laddove al contraente viene attribuito il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte, senza doverne provare l’importanza della risoluzione, (che pertanto non può essere pronunciata d’ufficio), ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiara di volersene avvalere, con manifestazione volontaria recettizia; detta manifestazione di volontà, può essere resa in ogni modo idoneo, anche implicito, purché inequivocabile; in particolare, può essere contenuta anche in un atto giudiziale, senza che ne sia in tal senso necessaria la preventiva formulazione in via stragiudiziale ( Cass. n. 167/05).
Sempre con la massima già commentata, è stato ampiamente evidenziato che l’unica differenza fra le due ipotesi, ( risoluzione per intenderci in sede stragiudiziale e risoluzione contenuta nel primo scritto introduttivo del processo e/o nella prima risposta), consiste nel fatto che nella seconda ipotesi, se la domanda è fondata, la risoluzione retroagisce al momento della domanda e non anche ad un momento anteriore, pur non negando che essa, ancorché formi oggetto di pronuncia del giudice, sia pur sempre una pronuncia di risoluzione di diritto del contratto, oltre che intendendosi verificata, causa il mancato adempimento dell’obbligazione specificamente indicata nella clausola risolutiva espressa.
L’azione di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1456 c.c., in buona sostanza, tendendo ad una pronuncia dichiarativa dell’avvenuta risoluzione di diritto a seguito dell’inadempimento di una delle parti, previsto come determinante per la sorte del rapporto, ed in conseguenza della esplicita dichiarazione dell’altra parte di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, ha presupposti, caratteri e natura sostanzialmente diversi dall’azione ordinaria di risoluzione, ex art. 1453 c.c., che tende ad una pronuncia costitutiva, previo l’accertamento, ad opera del giudice, della gravità dell’inadempimento, al punto che se con una delle due domande sia proposta per la prima volta in grado d’appello, essa deve considerarsi nuova, ai fini di cui all’art. 345 c.p.c..
Ora, lo si ribadisce anche nell’odierno commento, la previsione all’interno di un negozio giuridico, della clausola risolutiva espressa, non significa che il contratto possa essere risolto solo nei casi espressamente previsti dalle parti, rimanendo fermo il principio per cui ogni inadempimento di non scarsa rilevanza può giustificare la risoluzione del contratto, con l’unica differenza che, per i casi già previsti dalle parti nella clausola risolutiva espressa, la gravità dell’inadempimento non deve essere valutata dal giudice ( cfr. Cass. 11282/98 – Cass. 1905/03).
La valutazione, infatti, della incidenza dell’inadempimento sull’intero contratto, in questa seconda ipotesi, è stata già compiuta dalle parti, la cui autonomia privata ha instaurato il collegamento tra i singoli inadempimenti considerati nella clausola e la risoluzione dell’intero contratto, con la conseguenza che tale collegamento non può essere contestato né ai fini dell’accertamento giudiziale sull’avvenuta risoluzione, né agli effetti del risarcimento del danno (cfr. Cass. sent. 28 gennaio 1993 n. 1029).
Oggi, il Tribunale di Roma ha pressoché confermato i principi ricavabili dalla decisione Bresciana, laddove, pur dando atto che il lessor, parte ricorrente, non aveva documentato la controversa consegna alla società utilizzatrice, della lettera con cui essa aveva manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa per il mancato pagamento dei canoni ivi indicati, dichiarando risolto di diritto il rapporto contrattuale, ha ritenuto comunque detta carenza documentale, del tutto irrilevante ai fini del decidere.
Una seria riflessione merita ancora la decisione oggi in commento, laddove il Tribunale di Roma si sofferma sulla eccezione di parte resistente, ad oggetto la riduzione della penale contrattuale.
Il giudice, infatti, ha correttamente sostenuto l’inammissibilità delle argomentazioni sul punto, nella sede della decisione in merito alla domanda di risoluzione di diritto del contratto e rilascio del bene immobile, richiamando giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 7266 del 28/6/1995); nella fattispecie all’esame, il giudice ha individuato immediatamente il limite quanto all’ingresso della eccezione della resistente nel thema decidendum della lite, sia perché non formulata dalla ricorrente alcuna domanda a titolo risarcitorio, sia e soprattutto, aggiungiamo noi, per non essere intervenuto il rilascio del bene immobile già oggetto del rapporto, solo all’esito del quale poter in astratto allegare e provare l’ulteriore presupposto pattuito per la applicazione della penale, rappresentato dalla vendita o riallocazione del bene, come prevista nel dettato contrattuale di riferimento.
Gioverà fin d’ora ricordare che i giudici della legge, con la sentenza sopra citata n. 7266/95, avevano affrontato il caso in cui una Corte territoriale, sull’esame della clausola che conveniva, nella ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, il diritto di recuperare il bene, di incamerare i “canoni” già riscossi e di pretendere il pagamento di tutte le ulteriori mensilità previste dal contratto, come pure del corrispettivo stabilito per l’esercizio dell’opzione di acquisto, previa deduzione del prezzo ricavato dalla rivendita a terzi del bene recuperato, aveva concluso, con la sentenza definitiva di merito, che la società concedente non avrebbe conseguito un risultato economico più vantaggioso di quello derivante dall’applicazione dei principi generali in tema di risarcimento del danno, ritenendo che non ricorressero i presupposti per ridurre, in considerazione di quanto previsto dall’art. 1526, secondo comma, c.c., l’indennità stabilita dalle parti (in particolare, il ragionamento derivava dalla previsione che l’importo corrispondente al ricavato della rivendita del bene, sarebbe stato accreditato all’utilizzatore).
Tale convincimento della Corte distrettuale fu quindi cassato dalla Suprema Corte, con rinvio, laddove essa si era meramente soffermata sulla presenza accertata, da un lato, di un patto di riservato dominio, affiancato, dall’altro, da una clausola con la quale le parti convenivano che in caso di inadempimento del compratore, le rate pagate restassero acquisite al venditore a titolo di indennità (rectius arg. ex art. 1526 comma 2 c.c.).
I giudici della legge affermarono allora che il legislatore, con il richiamo al comma 2 dell’art. 1526 c.c., normalmente utilizzato per indicare quelle forme di compensazioni in danaro la cui entità non corrisponde necessariamente a quella del danno, intendevano riferirsi ai casi in cui la liquidazione anticipata, concerne unicamente il credito dell’equo compenso per il temporaneo godimento del bene, come peraltro era confermato nel caso al proprio esame, in cui l’oggetto della clausola era individuato con riferimento all’ammontare delle rate “pagate”, quale termine di riscontro più immediato per calcolare l’indennità dovuta per il godimento della cosa, fino al momento della risoluzione del contratto.
In buona sostanza, seppure riconoscendosi ad una clausola contrattuale in linea con la previsione del comma 2 dell’art. 1526 c.c., l’accostamento alla clausola penale di cui all’art. 1382 c.c., tale da consentire l’assolvimento ad una funzione meramente indennitaria, liquidava preventivamente la pretesa di indennizzo spettante alla parte danneggiata a seguito dell’inadempimento dell’altra, a prescindere dal giudizio di responsabilità.
Ecco il motivo giusta il quale la Suprema Corte statuì che per decidere se apportare, o meno, una riduzione, e di quale entità, all’indennità convenzionalmente stabilita dalle parti, il giudice dovrà avere riguardo, in relazione all’ammontare complessivo delle rate riscosse, al valore obbiettivo della cosa, al tempo per il quale il compratore ne ha avuto l’uso e il godimento e allo stato in cui viene restituita: a tali criteri non si era attenuta la Corte territoriale, che aveva invece ritenuto di far riferimento ai parametri fissati dalla legge per calcolare l’ammontare del danno e, quindi, del risarcimento complessivamente dovuto alla società concedente, senza considerare che la disposizione richiamata non era diretta a risolvere (anche) tale problema.
Anche sull’istituto della clausola penale in materia leasing, abbiamo già scritto su questa stessa rivista, “L’esercizio del potere di riduzione della penale contrattuale ex art. 1384 c.c., è comunque subordinato all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova, incombenti sulla parte che ne ha interesse”, ma diverso era il caso in commento (beni già rivenduti dal lessor all’esito della comminata risoluzione contrattuale); ecco i motivi della “novità” nella fattispecie odierna, ove alla domanda volta alla riduzione della penale, come poi rigettata dal Giudice di Roma, si oppone in punto di fatto, la mai avvenuta riconsegna del bene, alla avente diritto.
Per ulteriori approfondimenti in materia, si rinvia al seguente contributo pubblicato in Rivista:
LEASING: non necessario un atto stragiudiziale per avvalersi della clausola risolutiva espressa
Tale volontà può essere manifestata con l’instaurazione del giudizio
Ordinanza | Tribunale di Brescia, dott.ssa Elena Fondrieschi | 08.11.2016
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