LA MASSIMA
Nella fattispecie di contratto di locazione finanziaria (leasing), allorquando il concedente, all’esito della comminata risoluzione contrattuale per inadempimento del lessee (conduttore), opti esclusivamente per la riconsegna del bene, di fatto rinunciando alla facoltà, prevista dal regolamento di interessi, di richiedere il pagamento dei canoni residui e del rateo finale, deducendo il prezzo ricavato dalla rivendita dell’immobile, trova applicazione, nella ipotesi di accertamento della natura traslativa della locazione finanziaria, la normativa di cui all’art. 1526 comma 1 e 2 c.c., con la conseguente restituzione alla parte utilizzatrice dei canoni riscossi, salvo il diritto all’equo compenso per l’uso della cosa oltre al risarcimento del danno.
Qualora il dettato contrattuale di riferimento preveda che i canoni pagati restino acquisiti al concedente a titolo di indennizzo, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l’indennità convenuta, nella forma ed attraverso il richiamo all’art. 1384 c.c.
Questi i principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. terza, Pres. Vivaldi – Rel. Tatangelo, con sentenza n. 16050 pubblicata in data 2 agosto 2016
IL CASO
Nei fatti la società esercente attività di locazione finanziaria (leasing), aveva agito in giudizio (ai sensi dell’art.702-bis c.p.c.) nei confronti del lessee (conduttore), al fine di ottenere l’accertamento dell’avvenuta risoluzione contrattuale, ai sensi dell’art. 1456 c.c., ovvero dell’art. 1453 c.c., di un contratto di locazione finanziaria immobiliare; invocava, quindi, il rilascio dell’immobile stesso.
La società utilizzatrice, nel contestare il fondamento delle domande dell’attrice, aveva proposto, in via riconvenzionale subordinata, domanda di accertamento della natura traslativa della locazione e della conseguente applicabilità dell’art. 1526 c.c., nonchè della nullità e della natura usuraria della clausola penale contenuta nel dettato contrattuale, della quale invocava la disapplicazione, con il conseguente accertamento del proprio credito restitutorio, al cui pagamento chiedeva fosse subordinato il rilascio dell’immobile.
Il Tribunale di Pinerolo accoglieva le domande della Banca-attrice e condannava la convenuta al rilascio dell’immobile, rigettando tutte le domande da questa proposte in via riconvenzionale.
La Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della decisione di primo grado, riduceva l’entità della penale prevista dal contratto e conseguentemente condannava il lessor (concedente) a restituire alla parte utilizzatrice un consistente importo, confermando per il resto l’ordinanza impugnata.
Avanti i giudici di legittimità la parte utilizzatrice dei beni ha proposto ricorso assumendo, con un unico motivo, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1384 e 1526 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3. c.p.c..
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso sulla base dei seguenti dati di fatto incontestati:
1) che il regolamento di interessi prevedeva la possibilità per la concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, di chiedere il pagamento (oltre che delle rate scadute insolute), degli importi ancora dovuti per le rate non ancora scadute e il rateo di riscatto, deducendo quanto ricavato dalla rivendita o rilocazione dell’immobile;
2) che in qualunque ipotesi di risoluzione anticipata, i canoni pagati sarebbero rimasti acquisiti alla concedente per l’intero loro ammontare (ferma restando la eventuale facoltà di questa di non chiedere la risoluzione, ma l’adempimento negoziale ed il risarcimento del danno);
3) che la concedente aveva agito in giudizio chiedendo esclusivamente il rilascio dell’immobile, previo accertamento della avvenuta risoluzione del contratto di locazione finanziaria, con ciò definitivamente rinunciando alla facoltà prevista sempre all’interno del regolamento di interessi, di richiedere il pagamento dei canoni residui e del rateo finale, deducendo il prezzo ricavato dalla rivendita dell’immobile;
4) che essa infatti concedente aveva optato per la risoluzione del contratto stesso, avvalendosi esclusivamente della facoltà di ritenere i canoni versati, come prevista dalla clausola contrattuale;
5) la utilizzatrice, di contro, aveva invece chiesto che, qualificato il contratto come leasing traslativo, fosse applicato l’art. 1526 c.c. e che la penale fosse ridotta ad equità.
La Corte di Appello – hanno spiegato i giudici di legittimità a motivazione del rigetto del ricorso – aveva in effetti applicato proprio la suddetta disposizione riconoscendo, come previsto dall’art. 1526, comma 1, il diritto del lessee (conduttore) di ottenere la restituzione dell’intero importo dei canoni versati, detratto l’equo compenso per l’utilizzazione dell’immobile per dodici anni, così condannando la concedente a restituire la differenza. Correttamente qualificata la clausola oggetto di contestazione come penale ai sensi dell’art. 1526, comma 2, c.c., aveva poi ritenuto di doverla ridurre ad equità, applicando la norma indicata, ovvero l’art. 1384 c.c. e sostanzialmente (quasi) integralmente azzerandola, non riconoscendo alcun ulteriore importo in favore della concedente (ad esclusione degli importi oggetto di arrotondamento nel calcolo), oltre all’equo compenso per l’utilizzazione del cespite.
Di conseguenza, non è stata ritenuta ravvisabile alcuna violazione delle norme invocate dalla ricorrente nella decisione impugnata.
IL COMMENTO
Dalla disamina della sentenza emerge l’importanza del thema decidendum nella fattispecie di leasing finanziario avente ad oggetto bene immobile.
Esperita con successo l’azione volta alla riconsegna del bene, attraverso lo strumento del processo sommario di cognizione, previo accertamento, incidenter tantum, di una già intervenuta risoluzione contrattuale, sembra essere chiara l’assenza, nelle domande formulate dal lessor (concedente) in prime cure, della riserva di azionare il residuo credito eppure escutibile dopo la comminatoria della risoluzione, all’esito delle attività di riallocazione e/o rivendita del bene.
Ciò che avrebbe comportato, già agli occhi del primo giudice, la implicita rinuncia del lessor (concedente) a far valere le pretese creditorie come effettivamente derivanti dalla risoluzione oltre che dal dettato contrattuale di riferimento, eventualmente nella forma della reconventio –reconventionis; nel caso in esame, evincendosi sostanzialmente una scelta, squisitamente processuale, di rinuncia a richiedere il pagamento dei canoni residui e del rateo finale, deducendo il prezzo che sarebbe stato ricavato dalla rivendita dell’immobile, anche nell’immediato futuro.
La sentenza in commento consente il richiamo ai principi già più volte espressi dalla Suprema corte nella fattispecie di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento, ma senz’altro validi anche laddove la domanda introduttiva del giudizio sia proposta con atto di citazione, ossia nelle forme del giudizio ordinario di cognizione.
Dalla rappresentazione che precede, pertanto, deriva anche la opportunità di una valutazione ex ante sui limiti del rito sommario di cognizione, laddove introdotto nella fattispecie della locazione finanziaria, con oggetto la riconsegna di immobili; ovvio cioè che le valutazioni di opportunità, come derivanti dalla rappresentazione ex latu actoris, di una istruzione sommaria, tale da consentire la aspettativa di un decisione veloce nelle forme di cui ai paragrafi V e VI dell’art. 702 ter cpc, debba tenere conto e specie nella ipotesi di mancata separazione della domanda principale dalle domande riconvenzionali (arg. paragrafo IV della norma sopra citata), del thema decidendum come definitivamente formato con l’atto introduttivo della lite.
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