ISSN 2385-1376
Testo massima
Subire iniziative giudiziarie pretestuose giustifica, anche in assenza di un danno in re ipsa, la condanna ex art. 96 c.p.c. per responsabilità processuale aggravata per lite temeraria.
Questo è il principio espresso dal Tribunale di Ravenna, in persona del dott. Lucarelli, con la sentenza depositata il 26 settembre 2015.
Nel caso in esame la Curatela fallimentare aveva convenuto in giudizio i soci amministratori di una società, chiedendone la condanna al pagamento di una ingente somma, corrispondente ai crediti vantati dalla società fallita nei loro confronti, inseriti nell’ultimo bilancio come crediti verso terzi, ovvero come prelevamento soci.
I convenuti, a loro volta, riconoscevano il debito, ma eccepivano in compensazione ulteriori crediti, che trovavano, però, riscontro documentale solo in minima parte.
Ad ogni buon conto, chiedevano la chiamata in garanzia del consulente amministrativo contabile della società, colpevole, a loro dire, di non avere correttamente adempiuto l’incarico, a suo tempo conferitogli per predisporre e perseguire un risanamento aziendale, nonché per non aver impedito i contestati prelievi.
Il terzo chiamato in causa si costituiva in giudizio, eccependo l’infondatezza della domanda di manleva, svolta dai convenuti e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna degli stessi ai sensi dell’art. 96 c.p.c., nonché, a sua volta, la chiamata in causa della compagnia assicurativa con la quale aveva stipulato la polizza di copertura per la responsabilità professionale.
Il Giudicante, ritenendo di non dover accogliere nessuna delle richieste istruttorie formulate dai convenuti, tantomeno la richiesta di CTU contabile, tratteneva la causa in decisione.
Al fine di motivare il rigetto della richiesta peritale, il Giudicante ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale, secondo il quale la consulenza tecnica d’ufficio non può essere di natura esplorativa né volta a sopperire l’inerzia della parte o eventuali mancanze documentali che la stessa parte avrebbe potuto produrre, con la conseguenza che la sua ammissione in tali casi comporterebbe lo snaturamento della sua funzione di ausilio (Cass. Civ. Sez. II 18/1/2013 n. 1266).
Quanto alla domanda di manleva spiegata dai convenuti nei confronti del commercialista della società, ritenuto responsabile degli indebiti prelievi dei soci, per avere svolto il proprio incarico di consulente in maniera non diligente, non prudente, né professionale, il Giudice ritiene opportuno dapprima distinguere tra l’ipotesi di garanzia propria (che si verifica quando la domanda principale e quella di garanzia hanno lo stesso titolo, ovvero quando vi è una connessione obiettiva tra i titoli delle due domande o ancora qualora sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con l’azione principale e con quella di regresso) e quella, invece, di garanzia impropria (che si riscontra allorchè il convenuto tende a riversare sul terzo le conseguenze del proprio inadempimento o, comunque, della lite in cui è coinvolto, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale).
A parere del Giudicante, solo in quest’ultimo caso, è possibile verificare se il terzo ha concorso a causare lo stesso evento dannoso, con distinti comportamenti colposi, con la conseguenza che potrebbero confluire in un unico giudizio per lo stesso evento dannoso due autonome responsabilità riconducibili, però, al medesimo titolo.
Tuttavia, nel caso in esame, il Tribunale non ha individuato la fattispecie di chiamata in garanzia né propria, né impropria ma di “unico fatto causativo della corresponsabilità di due distinti soggetti” identificabile, nella specie, nella responsabilità del commercialista nell’avere in qualche modo contribuito agli illegittimi prelievi dei soci e amministratori dalle casse sociali, posti a fondamento della domanda principale proposta dalla curatela del fallimento attoreo.
Pertanto, a parere del Giudicante, la generica prospettazione di una presunta responsabilità professionale del commercialista nel portare a compimento l’incarico di redigere un progetto di ristrutturazione aziendale è assolutamente estraneo al giudizio, in quanto in alcun modo riconducibile all’oggetto della domanda principale, ciò nonostante l’obbligazione gravante sul professionista è essenzialmente un’obbligazione di mezzi e non di risultato.
Peraltro, osserva il Giudice, che la chiamata in causa del terzo quale corresponsabile degli indebiti prelievi effettuati dai soci, avrebbe imposto la “dimostrazione di un positivo comportamento del professionista integrante inadempimento del mandato professionale ricevuto, ovvero un autonomo fatto illecito, generatore di una responsabilità extracontrattuale del chiamato in causa per il danno arrecato ai convenuti“. Al contrario, i convenuti nulla hanno potuto dedurre al fine di comprovare la responsabilità professionale del commercialista, atteso che il rapporto professionale risulta essere intercorso tra il commercialista e la società, e non certo con i singoli soci.
Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dai soci nei confronti del professionista, il Tribunale rileva preliminarmente l’erronea prospettazione dei fatti costituenti la condotta illecita, oltre che l’assoluta mancanza di nesso causale tra la presunta condotta illecita del consulente e il danno subito dai convenuti.
Ed invero, emerge incontestabilmente dagli atti di causa che il consulente ha, in più occasioni e per iscritto, informato i soci dell’irregolarità, sotto vari profili, dei prelievi in denaro dalle casse sociali, per cui la circostanza che, nonostante il riscontro documentale, i convenuti, insistano nella condanna del consulente dimostra l’assoluta temerarietà della loro domanda.
Oltre a ciò, sottolinea il Giudice che, normalmente, i prelievi della casse sociali sono portati a conoscenza del professionista dopo che gli stessi sono stati effettuati e dunque appare evidente che egli non avrebbe potuto impedirli, trattandosi di “veri e propri atti di gestione da parte degli amministratori o dei soci della società, di cui gli stessi se ne assumono, nei confronti della società, la responsabilità prima di tutto della restituzione e, caso mai, della loro compensazione con utili non attribuiti“.
Il comportamento processuale dei convenuti, consapevoli dell’infondatezza della propria tesi, oltre alla pretestuosità dei motivi addotti a sostegno della pretesa responsabilità del consulente, il quale se anche a diverso titolo fosse ritenuto responsabile, non avrebbe comunque inciso sulla domanda principale di restituzione delle somme indebitamente prelevate dai soci, giustifica l’accoglimento della domanda proposta dal chiamato in causa ex art. 96 c.p.c., per responsabilità processuale aggravata, per lite temeraria, quale sanzione dell’inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta.
Ed invero il Giudicante osserva che nel caso in esame, la “ricorrenza di un comportamento processuale dei convenuti consapevole della stessa infondatezza delle proprie tesi laddove a fronte delle produzioni documentali in copia del chiamato ne disconoscono l’autenticità quando gli originali degli stessi non possono che essere dagli stessi, certamente, posseduti essendo quelli in possesso del chiamato in causa variamente sottoscritti dai medesimi convenuti” comporta l’accoglimento della domanda ex art. 96 c.p.c. (Cassazione civile, sez. I, 02/04/2015, n. 6675), con conseguente riconoscimento di un risarcimento a favore della parte che ha subito un’iniziativa giudiziaria pretestuosa, ciò pur in mancanza di dimostrazione di concreti e specifici danni patrimoniali e non patrimoniali, conseguiti allo svolgimento del processo.
A parere del Giudice, infatti, in casi analoghi a quello in esame dove è posta in discussione la competenza professionale, è possibile riconoscere un risarcimento in termini economici, senza la necessità di individuare un danno in re ipsa, ma prendendo atto, secondo nozioni di comune esperienza, che il subire iniziative giudiziarie pretestuose comporta la sicura verificazione di una perdita economica e di danni di natura psicologica a carico della parte vittoriosa.
Con la sentenza in commento, dunque, il Tribunale di Ravenna pronunciava la condanna dei convenuti, in solido tra loro, al pagamento in favore del Fallimento della somma accertata, risultante dai bilanci, tenendo conto delle somme per le quali i soci avevano dimostrato la compensazione, nonché al pagamento in favore del chiamato in causa, commercialista, della somma di 20.000,00, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., oltre alla rifusione delle spese di lite in favore di tutte le altre parti del giudizio.
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Testo del provvedimento
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