Testo massima
L’art. 96 comma 3 cpc, così come introdotto dall’art. 45, comma 12, della Legge 18 giugno 2009, n. 69, nella parte in cui prevede che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 cpc, il Giudice anche d’ufficio può condannare la parte soccombente al pagamento a favore della controparte di una somma equitativamente determinata, è finalizzato a svincolare la condanna dalla necessaria prova degli elementi oggettivi e soggettivi previsti dall’originario testo dello stesso art. 96 cpc.
Sono questi i principi sanciti nella sentenza n.
251 del 2 marzo 2015 del Tribunale di Mantova (Giudice dott. Benatti) che ha
rigettato la richiesta di risarcimento del danno derivante dalla perdita dei
propri investimenti proposta dai clienti di di una banca per asserita
responsabilità dell’istituto di credito.
Gli investitori hanno chiamato in causa la banca
al fine di ottenere la dichiarazione di nullità, annullamento e risoluzione per
inadempimento dei contratti conclusi con l’istituto di credito.
Il Tribunale di Mantova ha innanzitutto respinto
le censure formulate dagli attori in ordine all’eccepita mancanza di forma
scritta ex art. 23 TUF del contratto per la negoziazione, ricezione e
trasmissione di ordini su strumenti finanziari (c.d. “contratto quadro”).
Il Giudice adito ha infatti accertato che il
documento de quo era stato compilato in ogni sua parte ed era stato
sottoscritto sia dagli attori sia dal funzionario della banca, pertanto
appariva destituita di ogni fondamento la censura di nullità del negozio
invocata dagli istanti per mancato deposito di una accettazione dell’istituto
di credito. È stata ritenuta infondata anche la censura riguardante l’omessa
indicazione della data del documento tenuto conto del fatto che lo stesso
proveniva direttamente dalla parte e non era stato disconosciuto neppure sotto
il profilo della presunta difformità all’originale, donde mancava la prova
della circostanza per cui lo scritto sarebbe stato formato in un momento
successivo. Il Tribunale di Mantova ha altresì ritenuto priva di fondamento non
solo la richiesta di prova certa della data del documento e di un timbro
postale finalizzato ad accertarlo visto che tale requisito non appare previsto
da alcuna norma, ma anche la pretesa di nullificare la firma della banca in
quanto illeggibile, essendo stata posta su di un timbro dell’istituto di
credito.Il Giudice adito è giunto alle medesime conclusioni anche con
riferimento alle censure sollevate dagli attori in merito alla asserita
mancanza di forma del contratto di conto corrente in considerazione
dell’orientamento giurisprudenziale maturato in ordine alla sufficienza della
firma del cliente.A tal proposito la giurisprudenza ha oltremodo affermato che
l’obbligo di forma scritta deve ritenersi rispettato allorquando, alla
sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, abbia fatto seguito
la produzione in giudizio di copia del contratto da parte della banca ovvero vi
sia stata la manifestazione di volontà della medesima di avvalersi del
contratto stesso, così come risultante da plurimi atti posti in essere in
costanza del rapporto (si veda Cass. civ. Sez. I, 22/03/2012, n. 4564).
Il Tribunale di Mantova ha inoltre ritenuto
infondate nel merito le doglianze formulate dagli attori in merito alla
presunta ed insussistente violazione degli obblighi informativi ex art. 28 del
Regolamento Consob n. 11522/1998 da parte della banca.
Ed, in ogni caso, quantunque fosse stata
accertata l’omissione da parte della banca dell’adempimento degli obblighi
informativi, le censure sollevate dagli attori non avrebbero potuto essere
accolte per intervenuta prescrizione. Secondo quanto affermato da prevalente
giurisprudenza e dottrina, la responsabilità dell’intermediario per violazione
degli obblighi informativi va difatti ricondotta nell’ambito della
responsabilità aquiliana e, nel caso di specie, erano trascorsi più di cinque
anni tra la sottoscrizione del contratto quadro ed il primo atto interruttivo.
Il Tribunale di Mantova ha infine escluso che la
banca abbia l’obbligo di produrre tutti i documenti atti a provare fatti contro
se stessa alla luce di quanto disposto dall’art. 119 TUB, il cui richiamo non
può costituire il presupposto per ottenere copia di contratti che i clienti
hanno dichiarato di aver ricevuto in copia ed hanno dunque il dovere di
conservare. Né il complesso delle norme in materia di investimenti contempla un
obbligo per l’intermediario di fornire tutta la documentazione richiesta dal
cliente.
Per i motivi sopra richiamati, il Giudice adito
non si è limitato a respingere le domande formulate dagli attori, ritenendole
manifestamente infondate con conseguente condanna alla rifusione delle spese di
lite ai sensi dell’art. 91 cpc, ma ha altresì ritenuto sussistenti i
presupposti ex art. 96 cpc in materia di responsabilità aggravata.
L’art. 96, comma 1, cpc prevede, come noto, che
qualora parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o
colpa grave, il Giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che
alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella
sentenza. L’art. 96, comma 3, cpc specifica inoltre che quando pronuncia, come
nel caso in esame, sulle spese ai sensi dell’art. 91 cpc, il Giudice, anche
d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore
della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Il Giudice adito ha ritenuto, nel caso di
specie, che parte attrice aveva sostenuto una posizione ictu oculi palesemente
infondata sia per genericità ed evidente inconsistenza delle censure formulate
sia per mancanza di prova. La condotta processuale tenuta dagli attori appariva
integrare, da un punto di vista soggettivo, la fattispecie ex art. 96, comma 1,
cpc, sussistendo quantomeno il requisito della colpa grave, ma mancava
l’ulteriore presupposto della prova dell’elemento oggettivo. È difatti onere
della parte che richiedere il risarcimento ex art. 96 cpc dedurre e dimostrare la
concreta ed effettiva esistenza di un danno in conseguenza del comportamento
processuale della controparte.Il Giudice non può infatti liquidare il danno
neppure in via equitativa nel caso in cui dagli atti non risultino elementi
idonei ad identificarne concretamente l’esistenza, nonostante sia possibile
desumere detto danno da nozioni di comune esperienza e fare riferimento anche
al pregiudizio che la parte convenuta ha subito per essere stata costretta a
contrastare una azione processuale totalmente ingiustificata. Nel caso in cui il
Giudice pronuncia sulle spese legali ai sensi dell’art. 91 cpc, la condanna per
lite temeraria è tuttavia da ritenersi giustificata a prescindere dal fatto che
la parte fornisca la prova degli elementi oggettivi e soggettivi previsti
dall’art. 96 cpc.
Sulla base di tali presupposti, il Tribunale di
Mantova ha ritenuto che, nel caso di specie, la banca era stata chiamata a
contrastare una azione totalmente ingiustificata, donde ricorrevano i
presupposti per l’applicazione dell’art. 96, comma 3, cpc in considerazione
anche del fatto che la condanna poteva essere irrogata d’ufficio attraverso la
previsione di una somma liquidata in via equitativa.
Testo del provvedimento
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