È manifestamente inammissibile e va sanzionato ex art. 96, comma 3, c.p.c., il ricorso per cassazione con il quale si censura un tipico apprezzamento di fatto, quale è lo stabilire se un fatto sia o non sia avvenuto; se una dichiarazione sia o non sia frutto di errore materiale; se una prova sia o non sia sufficiente ed attendibile.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Travaglino, Rel Rossetti con l’ordinanza n. 29102 del 06.10.2022.
Nel passaggio motivazionale la Corte si è così espressa:
– reputa il Collegio che il presente ricorso sia stato proposto quanto meno con colpa grave, e che pertanto il ricorrente vada condannato d’ufficio, ex art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento d’una somma equitativamente determinata in favore della società resistente.
– Il ricorrente, infatti, ha proposto un ricorso fondato su questioni apertamente, manifestamente e indiscutibilmente di puro fatto. Ha censurato in sede di legittimità il modo in cui il giudice di merito ha valutato le prove, il modo in cui ha giudicato l’attendibilità dei testimoni, il modo in cui ha tenuto conto della condotta delle parti.
Dinanzi ad un ricorso di questo tipo, non possono darsi che due eventualità: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti delle controparti processuali, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’inammissibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di proporre un ricorso votato all’insuccesso (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire); ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la diligenza esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere la qualificata prestazione professionale di avvocato cassazionista.
Deve dunque concludersi che il ricorso oggetto del presente giudizio è stato proposto quanto meno con colpa grave, con la conseguenza che il ricorrente deve essere condannato d’ufficio, ex art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata in base al valore della controversia. Tale somma va determinata, secondo il costante orientamento di questa Corte, in misura pari all’importo delle spese di lite.
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