Testo massima
L’impossibilità di recuperare lo status quo ante consente di chiedere il risarcimento senza revocazione. Con riferimento al rimedio dell’azione di revocazione ex art. 395 n. 6 cpc di una sentenza viziata per dolo del giudice, la Suprema Corte di Cassazione richiamando i principi processuali dell’interesse ad agire ed i principi costituzionali dell’effettività della tutela e del giusto processo ha affermato che: “il danneggiato da una sentenza ingiusta perché frutto di corruzione del giudice può esercitare un’autonoma azione risarcitoria – in presenza di una situazione oggettivamente ostativa alla pronuncia di qualsivoglia sentenza in rescissorio idonea a soddisfarne le originarie pretese sì come spiegate nel giudizio originario, nel quale, come è noto, alcuna mutatio libelli è consentita (onde l’improponibilità di tale azione in quella sede) – senza che a ciò sia di ostacolo l’omesso esperimento della revocazione in rescindente della sentenza corrotta”.
Il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte di Cassazione costituisce con tutta evidenza un’eccezione alla regola generale che impone obbligatoriamente alla parte di agire nelle forme della revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 6 cpc. qualora intenda impugnare una sentenza passata in giudicato viziata per dolo del giudice
Con la pronuncia in esame, i giudici di legittimità hanno, in altri termini, affermato che la vittima del dolo del giudice può proporre immediatamente l’azione risarcitoria senza esperire preventivamente il giudizio di revocazione, allorché la parte non possa trarre alcuna effettivo beneficio giuridico dall’eliminazione del provvedimento viziata per essere divenuta frattanto impossibile la ricostituzione dello status quo ante.
La vicenda oggetto della controversia posta all’esame della Suprema Corte di Cassazione è scaturita dalla sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Roma con la quale fu dichiarata la nullità di un lodo di equità emesso al termine di un’intricata vertenza societaria che aveva interessato e contrapposto due importanti imprese operanti nel settore dell’editoria.
La causa traeva infatti origine da una possibile operazione di ristrutturazione degli assetti societari di una nota holding che aveva portato le società interessate a definire un accordo contrattuale dalla cui esecuzione sarebbe poi derivata la costituzione di un importante gruppo editoriale.
L’accordo prevedeva infatti un trasferimento azionario incrociato con permuta di titoli azionari tra le parti che avrebbe dovuto consentire l’acquisizione di una maggioranza assoluta da parte di uno dei contraenti.
Fu inoltre concordato che la risoluzione delle controversie riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione dell’accordo di permuta sarebbe stata devoluta alla cognizione di un arbitrato di equità.
Una delle parti contraenti, rompendo gli accordi precedentemente assunti, decise tuttavia di trasferire le quote azionarie promesse in permuta ad un’altra notissima società operante anch’essa nel settore dell’editoria.
L’altra società contraente decise a questo punto di azionare la summenzionata clausola compromissoria, affinché il costituendo Collegio arbitrale accertasse l’obbligo della società inadempiente di dare esecuzione all’accordo, emettendo, se del caso, un lodo che, ai sensi dell’art. 2932 cc, tenesse luogo del contratto non concluso.
Il Collegio arbitrale accertò tuttavia l’obbligo della parte inadempiente di stipulare il contratto definitivo di trasferimento delle azioni, rigettando la pronuncia costitutiva di cessione dei titoli, in quanto non ritenne ancora spirato il termine per l’adempimento.
Il lodo fu dunque oggetto di impugnazione avanti alla Corte di Appello di Roma che ne dichiarò la nullità per inosservanza di principi di ordine pubblico in tema di governo societario.
La Corte di Appello di Roma ritenne poi nulli sia i patti di sindacato contenuti nell’accordo sia le pattuizioni riguardanti la permuta dei titoli azionari in ragione della ritenuta inscindibilità delle complesse ed articolate convenzioni endo-negoziali stabilite tra le parti.
A fronte della declaratoria di nullità del lodo, la società soccombente decise, a questo punto, di introdurre un giudizio diretto ad ottenere il risarcimento del danno sulla base del presupposto che la sentenza emessa dalla Corte di Appello aveva determinato un capovolgimento nei rapporti di forza tra le parti contrattuali.
Parallelamente alla vertenza pendente avanti alla Corte di Appello di Roma, le parti avevano infatti intavolato delle trattative per la composizione stragiudiziale della controversia che erano state avviate ancor prima della pronuncia sul lodo arbitrale, al fine di poter definire il controllo del gruppo societario, di modo da appianare così ogni questione pendente.
Le trattative erano dunque sfociate in un accordo transattivo, ma se prima della sentenza della Corte di Appello di Roma, la società attrice si trovava in netto vantaggio poiché avrebbe dovuto ricevere dall’altra un consistente conguaglio in denaro per l’operazione di cessione, successivamente, a seguito della pronuncia del giudice dell’impugnazione sul lodo, le posizioni si erano totalmente ribaltate tanto che detta società avrebbe dovuto corrispondere all’altra una consistenza somma, in conseguenza dell’irredimibile indebolimento della propria posizione contrattuale dovuta proprio a quel provvedimento.
Nella prospettazione della società attrice, l’indebolimento della propria posizione contrattuale era stata infatti determinata dalla corruzione del giudice relatore della Corte di Appello di Roma operata dal titolare della società convenuta.
La paventata fattispecie di corruzione era stata difatti oggetto di un parallelo procedimento definito con sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione in capo al titolare della società convenuta che la Corte di Cassazione, investita del ricorso dell’imputato, il quale chiedeva per sé una pronuncia assolutoria con formula piena, lo aveva rigettato, rendendo definitiva la decalaratoria di improcedibilità sopravvenuta dell’azione penale per prescrizione del reato.
La società attrice contestava pertanto che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Roma sul lodo era stata invalidata dall’intervenuta corruzione del giudice con conseguente causazione di un danno patrimoniale (calcolato nella differenza tra le condizioni effettive della divisione dei gruppi editoriali e le possibili condizioni di una divisione scevra dal condizionamento della sentenza).
La società attrice chiedeva altresì il riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dalla lesione del diritto inviolabile, costituzionalmente tutelato, di essere giudicati da un giudice imparziale, ed a quello, parimenti compromesso per effetto della consumazione di una condotta tenuta contra ius costituzionale, oltre al danno alla immagine ed alla reputazione dell’ente nonché il danno da perdita di chance per essere stata privata della possibilità di ottenere un risultato cioè una sentenza favorevole.
La società convenuta contestava la fondatezza delle pretese risarcitorie ex adverso azionate, eccependo l’intervenuta prescrizione delle stesse, oltre al fatto che dette domande non avrebbero potuto essere comunque accolte in ragione dal giudicato formatosi sulla sentenza emessa dalla Corte di Appello relativa al lodo arbitrale per effetto della rinuncia al ricorso per Cassazione da parte della società attrice.
La società attrice infatti dopo aver depositato impugnazione dinanzi alla Corte di Cassazione per la caducazione della sentenza della Corte di Appello vi aveva poi rinunciato, determinandosi ad una transazione che aveva definitivamente ed inoppugnabilmente definito ogni questione pendente.
Il Tribunale di Milano escludeva, in principalità, l’improponibilità della domanda formulata dalla società attrice, così come eccepito da controparte, per effetto dell’asserita preclusione derivante dalla transazione conclusa tra le parti, donde condannava la società convenuta al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance di un giudizio imparziale, riconoscendo altresì come dovuti i danni non patrimoniali richiesti, la cui liquidazione veniva tuttavia rinviata ad altro giudizio.
La società convenuta proponeva dunque impugnazione, ma la Corte di Appello di Milano confermò la sentenza del giudice del primo grado.
Uno dei punti nodali dell’appello era rappresentato dalla contestata omessa rilevazione da parte del Tribunale di Milano della preclusione da giudicato della sentenza della Corte di Appello di Roma pronunciata sul lodo arbitrale che appariva, a detta della società appellante, di per sè sola ostativa all’esperimento dell’azione risarcimento del danno.
Per l’appellante sarebbe stato ormai impedito l’esame di qualunque questione, dedotta e deducibile, quand’anche volta a finalità diverse da quelle costituenti lo scopo ed il petitum del precedente, irretrattabile giudizio.
Secondo la prospettazione dell’appellante, l’eccezione doveva ritenersi fondata anche in considerazione del fatto che l’appellata non aveva utilizzato il rimedio tipico rappresentato dallo strumento processuale della revocazione per dolo del giudice da esercitarsi contro la sentenza della Corte di Appello di Roma nel cui ambito avrebbe potuto essere fatta valere l’azione di risarcimento del danno.
La Corte di Appello di Milano, interrogata su questo punto, rilevava che l’oggetto della causa pendente dinanzi a sè era costituita dalla pretesa risarcitoria derivante dalla corruzione del giudice della Corte di Appello di Roma pronunciata sul lodo arbitrale.
L’oggetto della causa radicata avanti alla Corte di Appello di Roma riguardava invece le differenti pretese ex contractu relative al rapporto contrattuale concluso transattivamente tra le parti.
Pur nella identità delle parti in causa, la Corte di Appello di Milano riteneva pertanto che i giudizi apparivano divergenti con riferimento alla causa petendi (validità del lodo a fronte di una domanda di accertamento di responsabilità extracontrattuale) e al petitum (annullamento del lodo a fronte di un’azione di risarcimento del danno di natura extracontrattaule).
La Corte di Appello di Milano rigettava, pertanto, l’eccezione di preclusione da omessa impugnazione della sentenza per revocazione ai sensi ex art. 395, n. 6 cpc.
La Corte di Appello di Milano evidenziava, infatti, che la società appellata non aveva assunto la decisione di agire per la per la revocazione della sentenza della Corte di Appello di Roma sul lodo arbitrale al fine di ottenere per tale via l’annullamento della transazione sulla base di alcuno dei presupposti di cui all’artt. 1972 cc (transazione su titolo nullo) 1973 cc (annullabilità per falsità di documenti) art. 1974 cc (annullabilità per cosa giudicata) ed art. 1975 cc (annullabilità per scoperta di documenti) giacchè nessuna di tali ipotesi si attagliava alla fattispecie.
La revocazione della sentenza della Corte di Appello di Roma non costituiva, dunque, nè logicamente, nè giuridicamente il presupposto necessario o la condizione di procedibilità dell’azione risarcitoria proposta dalla società appellata.
La sentenza della Corte di Appello di Roma, dovendo essere considerata tamquam non esset, non poteva pertanto rivestire carattere di giudicato sostanziale, risultando di converso il prodotto di un illecito generatore del danno conseguentemente lamentato dalla società appellata alla quale doveva pertanto essere riconosciuto il risarcimento.
Con più articolati motivi, la società soccombente propose indi ricorso per cassazione della sentenza della Corte di Appello di Milano a cui la società vittoriosa resistette con controricorso anche in via incidentale.
Uno dei motivi principali di ricorso è sicuramente quello riguardante la questione della rimozione degli effetti processuali e sostanziali della sentenza della Corte di Appello di Roma, essendo stata contestata la violazione dell’art. 395 n. 6 cpc e dell’art. 2967 cc.
La ricorrente ha infatti tentato censurare la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Milano attraverso l’eccezione di giudicato formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza della Corte di Appello di Roma a seguito dell’omesso esercizio del rimedio dell’azione di revocazione prevista ai sensi dell’art. 395 cpc.
La ricorrente aveva inoltre contestato il fatto che la Corte di Appello di Milano non aveva considerato che la contestata corruzione del giudice non avrebbe reso la decisione della Corte di Appello di Roma inesistente, avendo avuto la resistente la possibilità di rimuovere la pronuncia passata in giudicato (fase rescindente) in modo da recuperare una decisione imparziale circa la soluzione della situazione giuridica sostanziale (fase rescissoria).
Si trattava per la ricorrente di un rimedio che poteva essere utilizzato nel momento in cui vi fosse stato il passaggio in giudicato della sentenza penale che accertava la paventata corruzione del giudice.
La Suprema Corte di Cassazione non ha tuttavia accolto i motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente, formulando tuttavia alcune precisazioni rispetto a quanto affermato dal giudice dell’appello.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto affermato che il provvedimento pronunciato dalla Corte di Appello di Roma non poteva essere considerato alla stregua di una sentenza inesistente.
Secondo quanto sostenuto dalla Cassazione, non si può infatti invocare la categoria dei provvedimenti tanquam non esset, tutte la volte in cui l’ordinamento giuridico, avendo preventivamente individuato un patologico momento di “conflitto”, appronta per esso un espresso rimedio, quale è, nel caso di specie, la revocazione straordinaria per dolo del giudice ai sensi dell’art. 395 n. 6, cc.
Con riferimento alla situazione in esame, i giudici di legittimità hanno inoltre affermato il principio di diritto dell’inesistenza di una condizione di procedibilità dell’azione risarcitoria costituita dal previo esperimento del rimedio della revocazione ex art. 395 cc,in assenza del quale il giudicato costituito dalla sentenza della Corte di Appello di Roma coprirebbe il dedotto e il deducibile da estendersi dunque anche alla pretesa risarcitoria che da quel giudicato si vorrebbe scaturente.
I giudici di legittimità hanno, in altri termini,escluso la sussistenza di una preclusione da giudicato derivante dall’omessa impugnazione della sentenza della Corte di Appello di Roma attraverso lo strumento processuale dell’azione di revocazione ex art. 395 n. 6, cc.
E’ vero che, in linea generale, il danneggiato da una sentenza sfavorevole emessa in sede civile da un giudice che sia dolosamente venuto meno al proprio dovere di imparzialità accertata con sentenza passata in giudicato avrebbe obbligatoriamente la possibilità di promuovere l’azione di revocazione ex art. 395 n. 6, cpc.
Ed è altresì vero che, in mancanza dell’esercizio dell’azione di revocazione, la sentenza viziata dal dolo del giudice non sarebbe più removibile, continuando a fare stato tra le parti e lasciando la situazione di diritto accertata in via definitiva.
Con precipuo riferimento al caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto tuttavia indispensabile richiamare due imprescindibili elementi di fatto necessari per esaminare più approfonditamente la questione di diritto nella sua dimensione processuale, sostanziale e costituzionale.
Gli elementi di fatto relativi alla fattispecie in esame sui cui si sono soffermati i giudici di legittimità riguardano: a) l’esistenza e la sopravvenienza, sul piano sostanziale, di una transazione definita tra le parti, riferibile ai fatti oggetto del giudizio tenuto avanti alla Corte di Appello di Roma; b) l’inesistenza di un interesse ad agire in revocazione ex art. 395 n. 6 cpc, in capo all’avente diritto, così come disciplinato dall’art. 100 cpc ed interpretato alla luce dei principi costituzionali dell’effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. e del giusto processo ex art. 111, comma 1 e 2, Cost..
I giudici di legittimità hanno infatti evidenziato che la sentenza della Corte di Appello di Roma avrebbe erroneamente potuto essere idonea a formare un giudicato da un punto di vista formale, ma non poteva tuttavia ritenersi funzionale a costituire giudicato sostanziale ai sensi dell’art. 2909 cc, con conseguente inutilità del ricorso al rimedio della revocazione ex art. 395 n. 6 cc.
La Suprema Corte di Cassazione ha invero ritenuto che la sentenza della Corte di Appello di Roma appariva inidonea a far stato ad ogni effetto nei rapporti e nei giudizi futuri tra le parti, quale effetto tipico del giudicato sostanziale ai sensi del 2909 c.c..
Ciò in ragione del fatto che quello che è destinato “a far stato ad ogni effetto tra le parti” non è il decisum del giudice in sè considerato, bensì l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato.
Per avvalorare tale posizione i giudici di legittimità hanno richiamato il contenuto della transazione conclusa in pendenza della decisione poi emessa dalla Corte di Appello di Roma.
Sulla base di quanto previsto dall’accordo transattivo, le parti avevano infatti dichiarato di nulla avere più reciprocamente a pretendere in relazione a tutte le vicende oggetto delle varie procedure, contenziose ed arbitrali, in atto, nonché in relazione a tutti i contratti, accordi, impegni fra esse stipulate.
I giudici di legittimità hanno visto nella riferita convenzione negoziale la struttura del factumsuperveniens definito alla luce dell’esercizio di una libertà contrattuale riconosciuta ai privati e legittimamente dispositiva degli stessi contenuti e degli stessi assetti di interessi scaturenti dalla sentenza della Corte di Appello di Roma.
La transazione svolgeva inoltre la funzione di fatto preclusivo rispetto ai diritti ed ai rapporti oggetto dei precedenti accertamenti pronunciati in sede arbitrale e giudiziaria perché era sopravvenuta ad essi tanto da avere la forza di escluderne l’idoneità ad acquistare autorità di cosa giudicata non soltanto sotto il profilo sostanziale (la transazione era stata infatti stipulata quando la sentenza della Corte di Appello di Roma non era ancora divenuta res giudicata neppure in senso formale).
La Suprema Corte di Cassazione ha inoltre rilevato che la resistente aveva manifestato la propria volontà di rinunciare a promuovere qualsiasi azione giudiziaria (atto dovuto a carattere non negoziale) in un momento successivo alla data di stipulazione della transazione ed in esecuzione degli accordi intercorsi tra le parti.
I giudici di legittimità hanno dunque constatato che, prima del passaggio in giudicato (anche soltanto formale) della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma, si era pertanto verificato un effetto preclusivo e non estintivo scaturente dalla stipulazione della transazione.
L’efficacia preclusiva opererebbe, secondo quanto affermato dai giudici di legittimità, soltanto con riferimento al piano meramente processuale su cui si colloca difatti la sentenza della Corte di Appello di Roma (ciò a prescindere dal fatto che la sentenza della Corte di Appello di Roma appariva ingiusta e frutto di dolo del giudice, dal momento che il suoi effetti erano stati preclusi dall’intervenuta definizione transazione conclusa tra le parti).
Facendo ricorso a propri precedenti orientamenti giurisprudenziali e disattendendo le eccezioni sollevate sul punto dalla società ricorrente, la Suprema Corte di Cassazione ha inoltre negato la necessità di un previo esperimento della revocazione ex art. 395 cpc quale condizione di procedibilità dell’azione finalizzata al riconoscimento del risarcimento del danno.
I giudici di legittimità hanno infatti sottolineato come il giudice civile avrebbe dovuto dichiarare, nel caso di specie, inammissibile l’eventuale domanda di revocazione proposta ai sensi dell’art. 395 cpc per difetto di interesse.
Si tratta di una soluzione quella formulata dai giudici di legittimità che trova la sua esplicitazione dall’analisi dei rapporti tra l’azione di revocazione di una sentenza viziata da dolo del giudice e l’azione risarcitoria da valutarsi, caso per caso, sul concreto interesse ad agire dell’attore desumibile dall’utilità giuridica che, dall’eventuale accoglimento del gravame, possa derivare alla parte che lo propone.
Per i giudici di legittimità deve pertanto ritenersi inammissibile un’impugnazione il cui scopo non sia quello rappresentato dalla rimozione di un danno effettivo conseguente alla sentenza, ma sia invece diretta al soddisfacimento di esigenze di mera correttezza formale della decisione, ovvero, come nella caso di specie, all’eliminazione dalla sfera del rilevante giuridico di una sentenza frutto di corruzione senza altro possibile utile esito pratico per la parte che ha proposto la domanda.
Nell’enunciare tale principio, i giudici di legittimità hanno evidenziato, in via preliminare, l’esistenza di un obbligo in capo alla parte di attivare il rimedio demolitorio nel caso sia necessario ripristinare la legittima conformazione, cioè la conformazione “incorrotta”, dei rapporti giuridici scaturenti dalla sentenza assoggettabile all’azione di revocazione per dolo del giudice.
Con l’esercizio dell’azione di revocazione ex art. 395 n. 6 cpc in ordine al quale il giudice della domanda è investito, ai sensi dell’art. 398 cpc, di una competenza funzionale e inderogabile, la parte potrà infatti acquisire in sede rescissoria, una pronuncia “incorrotta” secondo diritto, poiché diretta al ripristino della situazione quale sarebbe stata in presenza di una giudice non corrotto.
La parte potrà altresì ottenere, in sede rescindente, le restituzioni previste dall’art. 402 cpc, dal momento che con la sentenza che pronuncia la revocazione, il giudice decide il merito della causa e dispone l’eventuale restituzione di ciò che siasi conseguito con la sentenza revocata.
Nell’affrontare la questione, la Suprema Corte di Cassazione parte dunque dalla considerazione dell’esistenza di una precisa, specifica ed eccezionale norma di legge che consente alla parte di azionare uno strumento processuale, quello della revocazione previsto dall’ art. 395 n. 6 cc, in grado di sostituire una sentenza potenzialmente “ingiusta” perché frutto di dolo del giudice con una sentenza di merito “giusta” perché incorrotta.
L’esistenza di tale norma di legge costituirebbe pertanto, secondo quanto affermato dai giudici di legittimità, un irredimibile impedimento all’incondizionata applicazione del principio della autonomia del rimedio risarcitorio rispetto a quello demolitorio rappresentato dall’azione di revocazione a prescindere dalle intenzioni della parte danneggiata.
Il danneggiato potrebbe infatti avere l’intenzione di chiedere la pronuncia di una sentenza non affetta dal dolo del giudice con il conseguente ottenimento dell’effetto scaturente da una sentenza incorrotta e la sua specifica attuazione oppure il risarcimento del danno, in forma specifica o per equivalente.
Per i giudici di legittimità infatti il momento fondamentale in cui avviene la cristallizzazione dell’interesse ad agire della parte va ricondotto al momento dell’instaurazione del giudizio originario e non al momento dell’instaurazione del nuovo giudizio.
È infatti necessario che l’esame della sentenza colpita dal dolo del giudice sia funzionalmente devoluto al giudice competente per la revocazione, ma ciò appare utile almeno fino a quando una pronuncia di merito in quel processo risulti possibile ed efficace, non essendo consentita la sostituzione, all’originario petitum, processuale e sostanziale a cui la parte è vincolata, con una nuova azione di risarcimento del danno.
La Suprema Corte di Cassazione evidenzia che l’affermazione di tale principio non può peraltro ritenersi contraddetta da quanto disposto dall’art. 2058 cc. nel momento in cui si voglia sostenere un’interpretazione in forza della quale la norma consentirebbe al danneggiato la possibilità di scegliere tra rimedi restitutori e rimedi risarcitori.
I giudici di legittimità infatti appaiono contrari ad un’interpretazione estensiva del disposto ex art. 2058 cc finalizzata a riconoscere alla disposizione una struttura e funzione di norma “aperta” destinata a fondare tout court la legittimità di una inibitoria atipica.
L’art. 2058 cc è infatti connotato da una essenza ed un carattere risarcitorio cui deve essere ricondotto anche il rimedio della reintegrazione in forma specifica che appare collocabile in un’ottica diversa rispetto a quello della specifica esecuzione della prestazione dovuta o del ripristino in natura del diritto violato.
I giudici di legittimità pongono dunque l’accento sulla distinzione tra tutele inibitorie e restitutorie in idem finalizzate cioè alla reintegrazione del diritto violato grazie all’imposizione di una prestazione forzata (restituzione del bene, cessazione del comportamento illecito, inibizione di una condotta) e tecniche risarcitorie in integrum o per equivalente dirette a riparare il danno che ormai si è irrimediabilmente prodotto nella sfera del danneggiato.
Per la Suprema Corte di Cassazione è dunque necessario compiere una differenziazione tra rimedi che hanno ad oggetto la condotta illecita che richiedono la cessazione “ripristinatoria” a prescindere dall’accertamento di un danno e rimedi che hanno ad oggetto il danno, non dunque la sua fonte, destinati a risarcirlo, anche in forma specifica, senza incidere sui fatti generatori dello stesso.
Nell’ambito del rimedio risarcitorio, il danneggiato ha dunque la possibilità di effettuare una scelta tra restitutio in integrum od equivalente pecuniario, rimanendo escluso il differente rimedio restitutorio.
Nel caso di revocazione ex art. 395 n. 6 cpc per dolo del giudice, i giudici di legittimità ritengono pertanto che il danneggiato debba seguire, in linea di principio, la via ordinaria tracciata dal legislatore che impone alla parte di perseguire il risultato di “una sentenza di merito” con le relative “restituzioni”, e non anche di radicare alternativamente ed autonomamente un’azione risarcitoria (in detto contesto l’azione risarcitoria potrebbe essere radicata per ottenere il risarcimento del danno conseguente al tempo ingiustamente trascorso tra l’emanazione di una sentenza ingiusta e quello della sentenza pronunciata secondo diritto).
Lo strumento processuale della revocazione deve dunque essere necessariamente utilizzato in detto contesto a meno che non sia sopravvenuta l’inutilità del rimedio demolitorio e sia pertanto sopraggiunto uno stato di carenza di effettività di tutela giurisdizionale, in violazione dell’art. 24 Cost. da assumersi in ragione del principio di effettività.
Il principio di effettività sancito dall’art. 24 Cost. esterna il diritto ad una tutela effettiva cioè il diritto ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella specifica, unica, talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato (da intendersi come facoltà di beneficiare di strumenti idonei a garantire la piena soddisfazione dell’interesse azionato).
I Giudici di legittimità ritengono pertanto che la questione dei rapporti tra tutela specifica e per equivalente dovrebbe essere risolta “con l’affermazione dell’atipicità del rimedio che mira al raggiungimento dell’interesse protetto e della necessità, all’opposto, di una previsione espressa per la misura che, in sostituzione, offra l’equivalente della prestazione, salva la constatata impossibilità che quella tutela specifica non risponda (più) al principio dell’effettività dell’interesse della parte”.
Nel caso pertanto in cui lo svolgimento della vicenda sostanziale non consenta oggettivamente più di poter ripristinare la situazione che si sarebbe concretizzata in presenza di una sentenza non affetta da dolo del giudice, i giudici di legittimità non ammettono pertanto che la parte danneggiata debba accollarsi l’onere di instaurare il giudizio di revocazione ex art. 395 n. 6 cpc, perché sostanzialmente “inutile” ed inutilmente defatigante.
Ciò avverrebbe quando l’accertamento del giudice della revocazione non potrebbe che arrestare il proprio accertamento nella fase introduttiva del giudizio, peraltro ineseguibile, in quanto non potrebbe essere susseguentemente investito di qualsivoglia istanza risarcitoria.
I Giudici di legittimità rammentano infatti che, in sede rescissoria, le parti non potrebbero modificare le conclusioni rassegnate nel giudizio conclusosi con la sentenza poi revocata né trasformare il contenuto dell’originaria domanda in una autonoma richiesta di risarcimento.
Laddove quindi il risultato dell’azione di revocazione (nel caso di specie il ripristino delle posizioni delle parti secondo quanto disposto dal lodo arbitrale) sia divenuto oggettivamente impossibile (per effetto della sopravvenuta impossibilità giuridica dell’oggetto della controversia, essendo divenuti inesistenti i titoli che costituivano la materia della vertenza), la Suprema Corte di Cassazione ritiene che non vi siano impedimenti processuali per la parte danneggiata di azionare un autonomo giudizio risarcitorio con conseguente facoltà per il giudice di avere legittima cognizione incidenter tantum dell’ingiustizia della sentenza affetta da dolo del giudice.
La Suprema Corte di Cassazione sostiene infatti che, in detto contesto, non è necessario acquisire preventivamente un provvedimento demolitorio della sentenza corrotta pronunciata al termine di un giudizio di revocazione, in quanto il provvedimento ingiusto costituirebbe un mero fatto storico, la cui esistenza od inesistenza non rileva se non ai fini del nuovo giudizio risarcitorio, quale elemento fattuale della più complessa fattispecie aquiliana di risarcimento del danno.
I giudici di legittimità affermano, in definitiva, che il danneggiato da una sentenza ingiusta perché frutto del dolo di un giudice ha la possibilità di agire in via autonoma con l’azione di risarcimento del danno quando sussista una situazione oggettivamente impeditiva all’ottenimento di effettivo ripristino dello status quo ante e senza che sia di ostacolo il mancato preventivo esperimento della revocazione della sentenza ex art. 395, n. 6 da cui è scaturito il danno, ciò in forza di quanto previsto dall’art. 100 cpc e dai principi costituzionali dell’effettività della tutela in giudizio ex art. 24 Cost e del giusto processo ex art. 111 Cost.
È tuttavia onere della parte che agisce per ottenere il risarcimento del danno offrire al giudice chiamato a statuire incidenter tantum sulla revocabilità per dolo ex corrupto della sentenza tutti gli elementi idonei a dimostrare l’oggettiva impossibilità di conseguire l’oggetto originario del processo.
Tale decisione è stata sicuramente innovativa rispetto alla precedente giurisprudenza, motivo per il quale la sentenza risulta inserita sul sito della Corte di Cassazione tra le decisioni rilevanti della terza sezione ove è stato emanato il seguente principio:
“La Corte ha stabilito che, nel caso di pronuncia di una sentenza viziata dalla corruzione del giudice, la parte che intenda dolersi di tale statuizione ha l’obbligo, e non la facoltà, di chiederne la revocazione ex art. 395 cpc; ha soggiunto tuttavia la Corte che a tale regola generale si deve fare eccezione allorché la vittima del dolo del giudice non possa trarre alcun vantaggio giuridico dalla rimozione della sentenza frutto di corruzione, per essere divenuta nel frattempo impossibile la ricostituzione dello stato di cose anteriore. In tal caso, pertanto, è consentito alla vittima del reato domandare il risarcimento del danno al corruttore del giudice, senza previamente esperire il giudizio di revocazione. Per la stessa ragione, ha poi soggiunto la Corte, qualora la sentenza frutto di corruzione abbia indotto le parti, prima della scoperta del dolo, a transigere la lite, la vittima del reato di corruzione può domandare il risarcimento del danno senza previamente chiedere l’annullamento del contratto di transazione, invocando quale fatto illecito fonte di responsabilità aquiliana anche la sola violazione della regola di buona fede“.
Testo del provvedimento
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