LA MASSIMA
L’art. 5 del d.lgs 28/2010 sulla mediazione, coordinato con le modifiche del “decreto del fare” del 2013, testualmente prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione: in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello.
Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.
L’esercizio della facoltà descritta nella norma in esame è demandato alla discrezionalità del giudice, anche in fase di appello, a prescindere dalla obbligatorietà o meno della mediazione ante causam o dalla vigenza o meno della norma prima dell’introduzione della controversia, ed è collegato a una preliminare considerazione della qualità delle parti e della particolarità della lite sottoposta al vaglio del giudice.
Questi i principi espressi dalla Corte d’Appello di Milano, sez. prima, Pres. Boiti – Rel. Fiecconi, nell’ambito di un procedimento d’appello proposto da una banca per lamentare l’opponibilità alla controparte fallita di una cessione di credito nascente da prestazioni di trasporto merci.
IL CASO
Nel caso di specie, precisamente, una società proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal Tribunale di Lodi in favore del fallimento di un’impresa, con cui veniva ingiunto alla stessa il pagamento della somma dovuta per prestazioni di trasporto merce.
La società attrice, in particolare, deduceva la carenza di legittimazione attiva del fallimento, con riguardo a determinate fatture, poichè le stesse avrebbero formato oggetto di cessione ad un istituto bancario, regolarmente notificata alla debitrice esecutata anteriormente al fallimento, nonché la sussistenza di errori di conteggio in relazione alle predette fatture.
La Banca, pure chiamata in causa, si costituiva in giudizio assumendo di essere creditrice dell’attrice in forza di atto di cessione di credito regolarmente notificato al debitore ceduto. Tale cessione sarebbe stata notificata alla società prima della sentenza del Tribunale di Lodi dichiarativa dell’insolvenza, cui poi seguiva la sentenza dichiarativa del fallimento della società.
Si costituiva anche il Fallimento che, di contro, contestava quanto addotto dall’opponente e chiedeva la reiezione delle domande in quanto infondate in fatto e diritto.
Il giudice adito confermava il decreto ingiuntivo opposto per difetto di prova dell’anteriorità della notifica di cessione del credito del debitore ceduto rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento.
Avverso tale sentenza la Banca proponeva appello, contestando quanto addotto dal giudice di primo grado e affermandosi cessionaria del credito in virtù di atto anteriore all’apertura della procedura concorsuale e, pertanto, a questa opponibile.
La Corte adita richiama innanzitutto l’art. 5 del d.lgs 28/2010 sulla mediazione, coordinato con le modifiche del “decreto del fare” del 2013, che testualmente prevede che:
“Il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione: in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello.
Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.
La norma in esame, prosegue la Corte, intende incentivare strumenti di risoluzione delle controversie preposti a facilitare l’accesso alla giustizia con l’assistenza di un mediatore qualificato al fine di promuovere una stabile composizione amichevole delle controversie e di ridurre i costi del contenzioso civile, senza peraltro costituire un’alternativa deteriore alla giurisdizione o all’arbitrato, in attuazione dell’art. 5 della direttiva 2008/CE.
L’esercizio della facoltà descritta nella norma in esame è, ad avviso del collegio, demandato alla discrezionalità del giudice, anche in fase di appello, a prescindere dalla obbligatorietà o meno della mediazione ante causam o dalla vigenza o meno della norma prima dell’introduzione della controversia, ed è collegato a una preliminare considerazione della qualità delle parti e della particolarità della lite sottoposta al vaglio del giudice.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che, nel caso in questione, non sussistessero ostacoli all’esercizio di detto potere giudiziale, finalizzato a promuovere una stabile composizione bonaria della controversia, inerente a una vicenda commerciale relativa alla cessione di crediti, non apparendo sussistere significativi squilibri d’interesse tra le parti o particolari esigenze di ottenere un’interpretazione autorevole della legge o un precedente vincolante.
Ha, pertanto, assegnato alle parti il termine di quindici giorni per promuovere il procedimento di mediazione, con termine di tre mesi per l’espletamento del procedimento, fissando la data per l’eventuale prosecuzione del giudizio innanzi alla corte d’appello.
IL COMMENTO
La pronuncia in esame offre lo spunto per una riflessione in ordine all’uso degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, non tralasciando di sollevare delle perplessità quanto al loro abuso da parte della magistratura.
Infatti, un provvedimento con cui si dispone una mediazione delegata, in sede di impugnazione, sembra tutt’altro che uno strumento per ridurre i costi del contenzioso, dal momento che non solo il processo è già stato definito in sede giurisdizionale in primo grado, ma le parti saranno comunque tenute a compensare i propri difensori per questa attività aggiuntiva ed imprevista.
L’ordinanza milanese, inoltre, rileva che l’esercizio della facoltà descritta è demandato alla discrezionalità del giudice, anche in fase di appello, a prescindere dall’obbligatorietà o meno della mediazione ante causam e sarebbe collegato a una preliminare considerazione della qualità delle parti e della particolarità della lite sottoposta al vaglio del giudice.
Nel caso di specie il Collegio si limita ad una succinta motivazione : «…Nel caso in questione, come sopra esposto, non appaiono sussistere ostacoli all’esercizio di detto potere giudiziale, finalizzato a promuovere una stabile composizione bonaria della controversia, inerente a una vicenda commerciale relativa alla cessione di crediti, non apparendo sussistere significativi squilibri d’interesse tra le parti o particolari esigenze di ottenere un’interpretazione autorevole della legge o un precedente vincolante».
L’ordinanza in commento costituisce soltanto l’ultima manifestazione di una ben più diffusa tendenza, condivisa anche dal legislatore, a respingere la domanda di giustizia, con qualunque mezzo, incluso quello di sospingere le parti verso i procedimenti di risoluzione alternativa delle controversie, tra cui il procedimento di mediazione, ma tali strumenti non possono e non devono costituire un surrogato della tutela giurisdizionale.
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