Lo jus superveniens applicabile ai contratti di mutuo non mira ad una migliore protezione del contraente debole nei rapporti di mutuo, ma intende riequilibrare gli effetti distorsivi derivanti dall’applicazione ai rapporti in corso della nuova legge sull’usura (legge 108/96).
La “veste pubblica” rivestita da un contraente nell’ambito della stipula di un contratto di mutuo non implica che ogni contratto di finanziamento si sottragga alla disciplina di riduzione dei tassi di interesse di cui al D.L. n. 394 del 2000, posto che non tutti i contratti conclusi da enti pubblici sono soggetti a uno statuto speciale, diverso da quello di diritto comune, e tantomeno a una disciplina specificamente diretta al contenimento del disavanzo pubblico.
Le disposizioni introdotte con il cit. D.L. n. 394 del 2000 non si estendono ai contratti di mutuo di cui è parte una pubblica amministrazione, essendo tale soluzione interpretativa non solo divergente dalla lettera della norma ma, altresì, manifestamente esorbitante rispetto all’intentio legis, si esclude che in tal senso la P.A. perda la sua veste pubblica ed agisca come un privato.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Pres. Dogliotti – Rel. Dolmetta con l’ordinanza n. 21461 del 15/09/2017.
Nella fattispecie processuale esaminata una SOCIETÀ evocava in giudizio un Amministrazione provinciale al fine di far accertare che gli interessi dovuti da quest’ultima, quale mutuataria di una determinata somma, erano quelli pattuiti col contratto concluso dalle parti.
Si costituiva in giudizio l’amministrazione convenuta chiedendo al Giudice di prime cure l’accertamento della legittimità della riduzione dei tassi di interesse praticati in base alla legge usura (108/96).
Sul punto, tanto il Tribunale di primo grado quanto la Corte d’Appello rigettavano la domanda formulata dall’Amministrazione ed in particolare il collegio asseriva che benché non potesse ipotizzarsi la nullità sopravvenuta del contratto di mutuo, al rapporto era tuttavia applicabile lo jus superveniens, e, segnatamente, l’art. 1 del D.L. n. 394 del 2000, così come convertito in L. n. 24 del 2001, quale disciplina tendente non già ad una migliore protezione del contraente debole nei rapporti di mutuo, bensì a riequilibrare gli effetti distorsivi derivanti dall’applicazione ai rapporti in corso della nuova legge sull’usura.
Peraltro, nel merito, la Corte riteneva che non era possibile affermare che le disposizioni introdotte con il cit. D.L. si estendessero a tutti i contratti di mutuo di cui fosse parte una pubblica amministrazione, posto che tale soluzione interpretativa non solo divergeva dalla lettera della norma ma si poneva altresì al di fuori dell’intentio legis; ritenendo quindi che D.L. n. 394 del 2000 trovasse applicazione anche con riguardo ai contratti di mutuo stipulati da una pubblica amministrazione che agisse con la capacità di diritto privato.
Avverso la suddetta pronuncia promuoveva ricorso per cassazione l’Amministrazione denunciando in primo luogo l’erroneità della pronuncia per aver i Giudicanti ritenuto che il DL. 2000 n. 394 si applicherebbe soltanto ai contratti di mutuo stipulati dietro prestazione di una garanzia reale, ed in secondo luogo che la violazione dell’art. 104 del TUE evidenziando che il tasso d’interesse applicato al mutuo non era stato liberamente negoziato tra le parti, ma imposto con decreto ministeriale, e che l’esclusione del beneficio dell’applicazione dei tassi sostitutivi per i mutui stipulati da soggetti non bisognosi di particolare tutela, come le pubbliche amministrazioni, rientrava nello schema della norma.
La Suprema Corte ha ritenuto privi di pregio entrambi i motivi di doglianza.
In riferimento al PRIMO MOTIVO di ricorso, la Corte ha precisato l’ambito il comma 2, dell’art. 1 del D.L. n. 394 del 2000 racchiude una previsione ulteriore rispetto a quella contenuta nella norma di interpretazione autentica di cui al comma 1 dello stesso articolo, precisando, nel merito che la sfera applicativa della norma stessa risulta delimitata dai mutui a tasso fisso.
Sul punto, gli Ermellini, ripercorrendo la ratio legis della disposizione in esame, hanno spiegato che in base all’univoco tenore letterale del cit. art. 1, comma 2, la sfera applicativa della norma stessa risulta delimitata dai mutui a tasso fisso, la cui individuazione è operata, secondo le indicazioni del legislatore, avendo riguardo alla classificazione delle operazioni per categorie omogenee effettuata annualmente con decreto del Ministro del tesoro, ma non prevendendo il DM 20 settembre 2000, emesso poco prima dell’emanazione del decreto legge in esame alcuna distinzione tra mutui assistiti e non assistiti da garanzia reale, deve conseguentemente ritenersi che tutti i mutui, come rientranti nel modello delineato dall’art. 1813 c.c. fossero soggetti, se connotati dalla previsione di un piano di rimborso rateale a tasso fisso, alla disciplina introdotta col D.L. n. 394 del 2000, art. 1 cit., comma 2.
In riferimento al SECONDO MOTIVO di censura, la Corte ha ritenuto – in riferimento a quanto asserito dalla ricorrente secondo la quale la ricorrente il tasso d’interesse applicato al mutuo non era stato liberamente negoziato tra le parti, ma imposto con decreto ministeriale – che le disposizioni legislative in materia di limiti di tassi di interesse non si applichino ai finanziamenti ed ai prestiti, in essere alla data di entrata in vigore del decreto, concessi o ricevuti in applicazione di leggi speciali in materia di debito pubblico di cui all’art. 104 del TUE norma posta al fine di evitare disavanzi pubblici eccessivi.
In tal senso i Giudicanti hanno chiarito che la “veste pubblica” rivestita da un contraente nell’ambito della stipula di un contratto di mutuo non implica che ogni contratto di finanziamento si sottragga alla disciplina di riduzione dei tassi di interesse di cui al D.L. n. 394 del 2000, posto che non tutti i contratti conclusi da enti pubblici sono soggetti a uno statuto speciale, diverso da quello di diritto comune, e tantomeno a una disciplina specificamente diretta al contenimento del disavanzo pubblico.
Alla luce delle suesposte argomentazioni la Suprema Corte di Cassazione rigettava il ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.
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