ISSN 2385-1376
Testo massima
Il dott. ALESSANDRO PELLEGATTA, responsabile della funzione restructuring di Centrobanca, nominato dall’ABI componente del Gruppo di lavoro sulla “Disciplina della Crisi d’Impresa” ha partecipato al workshop organizzato dall’ABI a Roma del 26 marzo 2013 ove è intervenuto con l’argomento CRISI D’IMPRESA E SOVRAINDEBITAMENTO: LE NOVITÀ DELLA DISCIPLINA E I RIFLESSI PER L’ OPERATIVITÀ BANCARIA
L’incontro ha rappresentato un’importante occasione per analizzare le finalità della nuova disciplina (introdotta dal decreto legge n.83/2012, convertito in legge 134/2012) e le sue principali questioni applicative.
Particolarmente rilevante è stato l’intervento del dott. ALESSANDRO PELLEGATTA, il quale essendo Responsabile del Servizio Credito Anomalo, ha una visione concreta della gestione delle crisi di impresa, occupandosi a pieno titolo della crisi d’impresa.
Di seguito si trascrive l’intervento.
Testo del provvedimento
Workshop dell’ABI a Roma 26/03/2013
Operazioni di restructuring: tra esperienze operative, soluzioni e criticità dell’ordinamento
Intervento: dott. ALESSANDRO PELLEGATTA
Responsabile del Servizio Credito Anomalo – Centrobanca
INDICE
1 Premessa;
2 – Introduzione;
3 Principali criticità, che permangono anche dopo la promulgazione della legge n.134/2012;
4 Art.169-bis l.fall.: contratti in corso di esecuzione e revoche in pendenza di concordato “prenotativo”, con particolare riferimento alle linee autoliquidanti delle banche;
5 Attestazione di “fattibilità” del piano di risanamento e “indicazioni cautelative” circa la probabilità di realizzazione di alcuni eventi (es: dismissioni immobiliari); l’utilizzabilità del trust in funzione liquidatoria;
6 Considerazioni finali
1 PREMESSA
La legge 134/2012 ha avuto il grande merito di “sdoganare” l’utilizzo del concordato preventivo, introducendo inoltre: (i) una maggior tutela dell’impresa in crisi, prima esposta alle azioni esecutive e cautelari; (ii) un miglior trattamento fiscale sia delle sopravvenienze attive in capo all’impresa sia delle perdite dei creditori; (iii) un maggior rigore nella fase (centrale) di attestazione, imponendo agli esperti asseveratori precisi obblighi di verifica dei “dati di partenza” e di “fattibilità” del piano; (iv) il c.d. “dual track”, vale a dire la possibilità di presentare un accordo di ristrutturazione. Pur avendo introdotto rilevanti novità, tale legge sta tuttavia creando problemi operativi e gestionali in capo al ceto bancario, chiamato a sua volta ad affrontare profondi processi di riorganizzazione gestionale interna, a seguito dell’introduzione di strumenti ibridi, quali i concordati “prenotativi” o “in bianco”. Le maggiori difficoltà, allo stato, sono proprio quelle inerenti alle manovre concordatarie in via di definizione, dove al di là degli “obblighi informativi” rimessi alla discrezionalità del giudice – non risultano ancora sussistere gli elementi di trasparenza e di contraddittorio necessari per accompagnare le manovra in fieri. Si stanno inoltre verificando abusi del diritto e distorsioni sul tema, con uno svilimento degli stessi principi ispiratori della legge, che difetta tuttora di una mancanza di coordinamento tra norme preesistenti e nuove norme. Occorre riequilibrare maggiormente le previsioni di legge sul concordato prenotativo, permettendo al creditore bancario di interagire sia col debitore sia con gli organi della procedura, fino all’eventuale proposizione di una “controproposta“, e di poter disporre di adeguate informazioni, proprio per comprendere la natura liquidatoria o in continuità del concordato stesso, anche per finalità di corretta classificazione del credito. Si assiste inoltre a una progressiva frammentazione operativo – gestionale, a sua volta rispecchiamento dei diversi orientamenti che stanno maturando nei Tribunali. Restano inoltre da implementare le norme per favorire la concessione della “nuova finanza” (nelle forme della finanza ponte) e va radicalmente modificato il disposto dell’art.169 bis l.fall., in un uno con una più puntuale revisione dei rimandi normativi contenuti nell’art.169 l.fall. In ambito fiscale, occorrerebbe estendere la neutralità fiscale anche al trust, onde permettere una segregazione / valorizzazione degli asset, sempre nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo, eventualmente con la nomina di un “defensor”. Restano inoltre da definire i principi di “best practice” cui dovrà attenersi l’esperto asseveratore per l’attestazione di “fattibilità” del piano e occorre introdurre nuove norme per la regolamentazione del c.d. “concordato di gruppo”, senza le quali (in presenza di gruppi economici diffusi sul territorio nazionale) il rischio di eccessiva frammentazione operativa può minare l’unitarietà del piano.
2 INTRODUZIONE
Come ho avuto modo di segnalare in precedenti articoli , l’area del restructuring continua a manifestare aspetti di multiforme complessità e appare soggetta a grandi aree di aleatorietà, d’irragionevolezza sopravvenuta e, ahimè, come sta dimostrando la prassi, anche di abusi (più o meno evidenti) da parte degli attori del processo (imprese, banche, e rispettivi advisor tecnici e legali), come è stato di recente riportato in un decreto della Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano , che ha respinto un’istanza di concordato “prenotativo” (o c.d. “in bianco”).
E’ indubbio che la novella introdotta dal decreto legge n.83/2012, convertito in legge 134/2012, si ispiri a sani principi, prendendo peraltro spunto dalle legislazioni straniere (alludo, in particolare, al “Chapter 11”, all’ “automatic stay”, al “dual track” e al “cram down”) e costituisca una grossa “spinta” all’utilizzo del concordato preventivo e “con continuità aziendale”, anche se (a dire il vero) il “percorso” appare alquanto tortuoso e irto di ostacoli. Inter alia, ex art.161, sesto comma, della legge fallimentare (nel testo consolidato), viene reso possibile presentare il semplice ricorso per la domanda di concordato, con riserva di produrre l’ulteriore documentazione, e non è alquanto raro vedere Tribunali che concedono termini che vanno ben oltre i 60 giorni per la presentazione della manovra .
La nuova legge, inoltre, pur prevedendo la possibilità che i giudici impongano “obblighi informativi”, non specifica se tali obblighi siano rivolti anche nei confronti dei creditori bancari, e soprattutto non contempla momenti di confronto e/o di contraddittorio creditore / debitore nella fase di formulazione della manovra . In tale caso, c’è il rischio che i creditori non finanziari e le banche debbano attendere un arco temporale troppo lungo per poter avere la necessaria “disclosure” sulla manovra di risanamento. Tale opzione, come ci segnala la prassi, sta favorendo abusi e tecniche dilatorie, che possono portare al vero e proprio “abuso del diritto”, con la grave conseguenza che gli istituti introdotti nel nostro ordinamento (compreso il concordato “prenotativo”) per gestire e risolvere le crisi d’impresa reversibili finiscano con l’essere “deviati”, determinando:
(i) sacrifici sproporzionati e ingiustificati delle ragioni dei creditori e/o
(ii) abnorme dilatazione della durata dei procedimenti e degli effetti dell’automatic stay.
Purtroppo, molti imprenditori poco avveduti (e/o pressati dalle istanze dei creditori) stanno utilizzando l’arma del concordato “prenotativo” solo per “guadagnare tempo”, come se fosse uno “standstill”, utilizzando i benefici di legge (sospensione dalle azioni esecutive/cautelari altrui e inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni precedenti la presentazione del ricorso), senza avere ben presente come orientare l’azione di risanamento. E’ accaduto addirittura che le società in crisi rinuncino alla precedente domanda di concordato non già allo scopo di modificarla, ma solo per riattivare l’effetto protettivo (attingendo all’automatic stay) e così poter ripartire da zero! Le tipologie di “deviazione abusiva” sono molteplici e sempre multiformi (spesso la realtà supera l’immaginazione), e anche nell’area dell’autonomia negoziale dei piani attestati, nonostante quanto disposto dalla nuova legge n.134/2012 e al “disfavore” fiscale da essa introdotto nei confronti degli stessi, si continua ad assistere a espedienti e tecniche dilatorie che nulla hanno a che vedere con la “best practice” e che rischiano di creare dei veri e propri cortocircuiti finanziari e legali.
Si è detto che la legge 134/2012 si è limitata, in presenza di concordati “prenotativi” a prevedere semplicemente degli obblighi d’informativa periodici, che appaiono tuttavia rimessi alla discrezionalità dei giudici. I Tribunali ben difficilmente saranno comunque in grado di valutare criticamente la documentazione di carattere industriale e finanziario dell’impresa, e pertanto tali obblighi d’informativa potrebbero essere previsti solo in presenza di concordati di grande rilievo (con ipotesi di ricorso da parte dei Tribunali a un consulente tecnico) o quando siano fatte richieste particolari da parte dell’imprenditore (finanziamenti, pagamenti, atti di straordinaria amministrazione ecc.).
Onde favorire un effettivo processo “negoziale” e di condivisione della manovra, occorrerebbe creare proficui momenti di confronto con i creditori anche nella fase di “costruzione” della manovra stessa, per permettere agli stessi creditori di intervenire, se del caso, formulando una propria “controproposta”. L’interazione che ne scaturirebbe, sempre ovviamente nel rispetto dei principi di buona fede e sotto la supervisione del giudice, potrebbe contribuire a migliorare le manovre di risanamento, sia in termini qualitativi sia di tempistica, con notevole risparmio di costi.
Le banche, per parte loro, vengono chiamate a prestare massima attenzione e a intervenire con la massima professionalità per garantire la migliore efficienza / efficacia nella valutazione delle azioni di risanamento, e questo in un momento di continua crescita degli stock di credito deteriorato. Col concordato “prenotativo” e col recente riconoscimento per via legislativa del concordato “con continuità” previsto dal nuovo art. 186 bis l.fall. (ma che, a onor del vero, appare ancora molto raramente nella prassi, rispetto alla numerosissima casistica dei concordati liquidatori) le banche stesse devono affrontare nuove problematiche, anche di tipo organizzativo. Il nuovo istituto del concordato “prenotativo” si pone infatti a cavallo tra il tradizionale approccio liquidatorio, tipico del “vecchio” concordato (e sui cui hanno operato tradizionalmente le strutture bancarie di “recupero crediti / work out”) e la prospettiva di risanamento e di continuità aziendale tipica delle procedure stragiudiziali e negoziali di gestione della crisi d’impresa (piani attestati ex art. 67, 3., lett. (d) L.f. e convenzioni di ristrutturazione ex art. 182 bis L.f.), di norma affrontate delle strutture bancarie di “credito anomalo / ristrutturazione”.
Tale natura “ibrida” richiede che l’efficace gestione di tali procedure veda associate competenze di natura procedurale/giurisdizionale tipiche dell’attività tradizionalmente svolta dagli uffici di “recupero crediti / work out” a quelle di natura economico-finanziaria tipiche degli uffici di credito anomalo / ristrutturazione.
Partendo dalla constatazione di questa esigenza, le banche sono pertanto chiamate ad affrontare (pur nell’urgenza delle incombenze gestionali) anche (i) le ricadute di tipo organizzativo e operativo che impongono il ripensamento delle strutture attualmente preposte alla gestione del credito deteriorato, nonché (ii) l’approntamento di “protocolli” per gestire l’emergenza. Si presenta inoltre sempre più impellente per le banche l’esigenza di formare adeguate professionalità, in un’area sempre più strategica e che ha bisogno di veri e propri professionisti, che devono dotarsi di strumenti multidisciplinari (sul piano legale, creditizio e fiscale) e che sono chiamati a intervenire con grande rapidità e senso di responsabilità nella gestione del credito deteriorato, affrontando adeguatamente tutti gli aspetti relazionali, di riservatezza e confidenzialità che i casi della specie e le norme di legge impongono. Ciò che vale per la banca vale anche per gli Advisor legali, che stanno approntando team di specialisti per affrontare le crisi d’impresa più complesse .
Dovendo esemplificare, in aggiunta al concordato “prenotativo”, uno dei momenti che richiede per la banca una seria rivisitazione organizzativa consiste, inter alia, nella fattispecie del nuovo art.178 l.fall.: i creditori che non hanno esercitato il diritto di voto possono infatti, allo stato, comunicare per corrispondenza (lettera o telefax) il dissenso sulla proposta concordataria entro 20 gg. dalla chiusura del verbale di adunanza dei creditori. Senza questa comunicazione vigerà il silenzio-assenso, e ciò al fine del calcolo delle maggioranze per l’approvazione. Questo inciderà in modo significativo nell’iter di approvazione del concordato. Per votare i creditori bancari dovranno essere in grado di leggere la manovra con urgenza, esaminando e valutando tutti i documenti della procedura e i documenti economico-finanziari presentati a corredo della manovra, e ciò a sua volta richiederà una stretta interconnessione tra i citati uffici, il tutto per permettere alla banca di poter votare nel termine dei 20 giorni, laddove la banca stessa ritenga necessario formalizzare il proprio dissenso.
Prima della riforma i voti favorevoli dovevano essere necessariamente espressi, mentre ora gli astenuti verranno considerati come “consenzienti”, e questo per evitare che il “ritardato disinteresse” dei creditori alle operazioni di voto possa impedire il “buon esito” della procedura. In ogni caso, anche in caso di efficace “proattività” della banca, non vanno comunque dimenticate le nuove disposizioni sul “cram down” di cui all’art.180 l.fall., secondo le quali il Tribunale potrà comunque varare l’omologa anche in presenza di opposizioni, quando il concordato rappresenta la migliore alternativa praticabile per i creditori stessi, purché le contestazioni sulla convenienza della proposta siano rappresentate da creditori dissenzienti rappresentativi, al massimo, del 20% dei crediti ammessi al voto. Ciò favorirà il citato “cram down” , che potrà essere attuato nell’ambito di ogni concordato, anche per le proposte che non prevedono la suddivisione dei creditori in classi, vanificando l’intervento delle banche dissenzienti.
Come vedremo in seguito, un’ulteriore insidia del concordato “prenotativo” per il ceto bancario è rappresentata anche dall’art.169-bis l.fall., che consente all’impresa in crisi, in sede di presentazione del ricorso del concordato “prenotativo” stesso, di chiedere al Tribunale l’autorizzazione a sciogliersi, ex art.169 bis l.fall., dai contratti in corso di esecuzione con gli istituti bancari, e in particolare dai contratti di anticipo fatture, anticipo import e anticipo ricevute bancarie salvo buon fine, dai contratti di conto corrente e, specificamente, dal mandato all’incasso e dal patto di compensazione negli stessi contenuti. Il tema (alquanto spinoso) vede una giurisprudenza ancora ondivaga, e sta creando allarme tra le banche stesse, che in attesa di maggior disclosure sulle manovre concordatarie stanno sospendendo l’operatività delle linee autoliquidanti.
Anche le modifiche introdotte all’art.67, comma terzo, lettera d), l.fall. sui compiti dell’esperto asseveratore, e in particolare l’eliminazione del richiamo alla “ragionevolezza” sostituito con quello della “fattibilità” del piano di risanamento non possono essere sottaciute. Su tale punto, al di là delle sanzioni penali previste dal nuovo articolo 236-bis l.fall., occorre fare un’attenta riflessione sulle modalità e sui contenuti delle nuove attestazioni rilasciate dopo l’11 settembre 2012 (data di entrata in vigore della legge n.134/2012), specie quando i piani attestati o gli accordi di ristrutturazione contemplano dismissioni di asset immobiliari. Su questo punto verrà fatto anche un cenno sul possibile utilizzo di uno strumento, il trust liquidatorio di garanzia, che potrebbe essere ben impiegato, nell’ambito del concordato o di un accordo di ristrutturazione, in modo virtuoso (e non per aggirare le norme sull’insolvency disposte dalla Convenzione dell’Aja) per risolvere situazioni altrimenti destinate all’insolvenza, il tutto ovviamente nel pieno rispetto delle norme interne e internazionali e nell’ambito di un percorso che potrebbe, in aggiunta, vedere la nomina di un “defensor” da parte del Tribunale.
Infine, non può essere sottaciuto che, dal punto di vista fiscale, la perdita subita dal creditore per la falcidia cui sono sottoposti i crediti, in presenza di piani attestati ex art.67 l.fall., non godrà delle stesse norme sulla deducibilità delle perdite prevista per gli accordi di ristrutturazione e concordati (nel senso che per le perdite a valere sui piani attestati continueranno ad essere applicate le disposizioni dell’art.101, comma 5, del TUIR, secondo cui le perdite stesse saranno deducibili solo se risultano da “elementi certi e precisi”). E questo potrebbe incidere sulla minor attrattività dell’uso dei piani attestati. Sui piani attestati ex art.67 l.fall. continua comunque ad aleggiare il rischio del controllo giudiziale ex post , e la novella del decreto impone indubbiamente nuove e attente riflessioni anche su tale punto alquanto delicato. Sarà anche qui la giurisprudenza dei prossimi anni a dirci quali saranno i poteri d’intervento e di verifica dei giudici sui piani attestati, ma già fin d’ora sarebbero auspicabili comportamenti di maggior rigore (e il nuovo art.236 bis l.fall. ne è una comprova evidente). Paradossalmente, nonostante il “disfavore” fiscale di cui sopra, i rischi (sempre latenti) di verifiche giudiziali ex post, e la non applicabilità dell’art. 182-sexies l.fall. (di cui si parlerà in seguito), il piano attestato continua a essere uno strumento molto utilizzato, anche per le crisi d’impresa più gravi, sia per questioni di snellezza operativa sia perché garantisce riservatezza, consentendo abusi negoziali e l’avvio di ri-attestazioni “aperte” anche quando la manovra di risanamento non appare “fattibile”, e peraltro costringendo le banche a essere assoggettate agli “elementi certi e precisi” ex art.101, comma quinto, del TUIR, per la deducibilità delle perdite. E’ proprio in quest’area che si verificano i maggiori eccessi, e dove il ruolo dei consulenti porta il più delle volte alla semplice re-ingegnerizzazione finanziaria, senza aver né risolto né minimamente affrontato i problemi strutturali che hanno portato all’insorgenza della crisi aziendale.
La crisi d’impresa si manifesta spesso, inoltre, come una complessa combinazione di cause interne ed esterne che interagiscono tra loro e hanno origini svariate (finanziarie, di mancanza d’innovazione o programmazione, d’inefficienza, di decadimento produttivo, di squilibrio finanziario e patrimoniale, d’incapacità manageriale ecc.) e gli indicatori sintomatici della stessa non si prestano mai né ad una lettura standard né a una chiara definizione legislativa. Non esistono ancora strumenti o meccanismi istituzionali di alert e/o di prevenzione, e la scelta dei correttivi rimane generalmente (e per troppo tempo) nelle mani di chi gestisce l’impresa. Anche qui le aree d’intervento e di potenziamento manageriale appaiono generalmente alquanto limitate per le banche, le quali possono, pur operando nella massima buona fede, chiedere al massimo la nomina di consiglieri indipendenti, di CFO o CRO , ma non possono mai sostituirsi nella gestione, non potendo né dovendo rivestire il ruolo di amministratori (di fatto o di diritto). In realtà, la complessità delle manovre di risanamento porta spesso le banche (attraverso complesse operazioni di ricapitalizzazione attuate mediante il rilascio di strumenti finanziari partecipativi o di altri strumenti “ibridi”) ad esercitare ruoli diversi e altri rispetto al semplice esercizio del proprio diritto di credito.
3 PRINCIPALI CRITICITÀ, CHE PERMANGONO ANCHE DOPO LA PROMULGAZIONE DELLA LEGGE N.134/2012;
Nonostante le novità introdotte dalla legge 134/2012 stiano favorendo un maggior rigore nelle azioni di risanamento, e si palesi un crescente utilizzo sia degli istituti dell’accordo di ristrutturazione e del concordato preventivo, permangono tuttora svariati elementi di criticità “strutturali” che condizionano negativamente tali azioni, tra cui si possono (a titolo esemplificativo e non esaustivo) individuare i seguenti:
a) ritardi nella segnalazione dello stato di crisi. Le indicazioni della Commissione Trevisanato sull’introduzione di meccanismi di alert, come noto, non sono state recepite nemmeno nell’ultima riforma legislativa. Su tale punto, duole rimarcare il ruolo spesso passivo (o addirittura totalmente inerte) dei sindaci, che non dovrebbero limitarsi al mero controllo contabile, ma dovrebbero vigilare anche sul contenuto della gestione, considerate anche le disposizioni del codice civile che regolano i loro diritti/poteri (cfr. artt.2403-2409 c.c.). Spesso i “segnali di allarme” non vengono percepiti da costoro, e se anche percepiti, i sindaci non si attivano comunque (o si attivano tardivamente). Anche i revisori possono rilevare elementi di criticità emergenti da conti annuali e consolidati, e possono altresì richiedere documenti e notizie agli amministratori utili all’attività di revisione; ma pur spingendosi anche verso un’attestazione no clean non possono orientare l’azienda verso l’utilizzo degli strumenti di risanamento, e anche quando rilevano elementi critici che si possono riverberare negativamente sulla continuità aziendale devono sempre sottoporre il tema all’organo di gestione e informare il collegio sindacale. Va da ultimo rilevato che oggi le nuove norme dell’art.182-sexies l.fall. dovrebbero incentivare il ricorso all’accordo di ristrutturazione e al concordato preventivo proprio per consentire la non applicazione delle norme civilistiche sulla riduzione o la perdita del capitale sociale delle società in crisi, norme che, come ben noto, non possono essere applicate anche ai piani attestati; nella prassi, tuttavia, spesso avviene l’esatto contrario, posto che l’approvazione dei conti annuali viene “strategicamente” rinviata fino alla conversione in strumenti finanziari partecipativi del credito bancario, mantenendo sempre l’utilizzo del piano attestato!
b) ritardi nell’esibizione dei dati contabili necessari per consentire l’avvio del processo di restructuring e l’asseverazione del piano da parte dell’esperto. E’ forse l’insidia peggiore, che porta anche a un’abnorme dilatazione dei tempi, anche dell’intervento dell’esperto asseveratore. Sul punto, occorre inoltre segnalare che sono rari i casi in cui viene elaborato il rendiconto finanziario , documento molto importante per comprendere i flussi finanziari aziendali e per verificare la sussistenza o meno di squilibri finanziari nel breve e nel medio periodo (verifica molto importante viste anche le lunghe durate di rilascio delle manovre di risanamento) ma che, ahimè, è obbligatorio solo per le imprese che adottano i principi contabili internazionali; inoltre spesso mancano anche adeguati piani di cassa/tesoreria per il periodo della moratoria (stand still) eventualmente concessa, e che vanno richiesti proprio per verificare la tenuta finanziaria della società in crisi durante il periodo (che può durare anche molti mesi) necessario per la presentazione e l’asseverazione della manovra di risanamento. La durata di tale periodo è, a sua volta, influenzata dalla numerosità delle parti in causa e dalla complessità della società e della crisi d’impresa (e che portano spesso le banche a richiedere accurate Indipendet Business Review o a ricorrere ad Advisor industriali), nonché dal settore di riferimento ;
c) ritardi e manchevolezze nella ricomposizione dei gap patrimoniali. Le situazioni ex art.2446 e 2447 c.c si trascinano spesso per mesi senza che né gli amministratori né i sindaci intervengano con la tempestività dovuta, con rinvio sine die dell’adozione delle necessarie delibere assembleari (spesso solo convocate e aggiornate in continuazione
). Su questo tema, come già accennato non va dimenticato che il citato nuovo art.182-sexies l.fall. non opera per tutte quelle situazioni di crisi d’impresa (che sono ancora numerose, anche quando, probabilmente, bisognerebbe operare altrimenti) in cui ci si avvale dei piani attestati; spesso si esce dall’empasse solo grazie al ricorso agli strumenti finanziari partecipativi da parte delle banche. Il tema è sempre più delicato e diffuso, e richiede a sua volta particolari approfondimenti (anche sul fronte fiscale). Di norma, purtroppo, quando la posizione finanziaria netta di una società supera l’enterprise value gli azionisti si rendono indisponibili ad apportare ulteriori capitali di rischio. Talvolta, lo strumento finanziario partecipativo in realtà altro non è che un “write off” mascherato, non emergendo concrete prospettive di recuperabilità: del resto, essendo appostato in un’apposita riserva del patrimonio, concorre in primis alle perdite d’esercizio. Pertanto, quando le banche aderiscono ai piani attestati in presenza di tali strumenti, per la deducibilità fiscale della perdita dovranno dotarsi di fairness opinion che attesti il fair value di tali strumenti rispetto ai valori contabili di conversione, nonché richiedere appositi regolamenti che disciplinino i diritti amministrativi e patrimoniali inerenti alla conversione in tali strumenti;
d) mancanza di prudenza nella valutazione degli asset immateriali da parte delle imprese in crisi. Le procedure di impairment test sulle immobilizzazioni immateriali (e in special modo dei goodwill generati da operazioni di corporate finance e di levereged buy out effettuate con multipli irragionevoli e/o utilizzando un’elevata leva finanziaria) continuano ad essere gestite con grande discrezionalità dalle imprese in crisi, con valutazioni di tenuta del valore prospettico dei goodwill stessi spesso molto discutibili e comunque non in linea coi principi contabili IAS. Anche su questo punto rilevante, va segnalata la pubblicazione sul sito dell’Organismo Italiano di Valutazione (OIV) di un discussion paper in merito alle linee guida per l’impairment test dell’avviamento in contesti di crisi. Le linee guida di tale documento affrontano la problematica della stima del valore recuperabile perseguendo due principali obiettivi: la ragionevolezza dei risultati e la completezza dell’analisi. Nella verifica dell’impairment test, dovrebbero pertanto essere prese in considerazione le indicazioni fornite dalle predette linee giuda OIV .
e) ruolo e qualità della relazione dell’esperto asseveratore. Il tema della correttezza contabile dei dati consuntivi aziendali “di partenza”, fino all’entrata in vigore del decreto legge n.83/2012 convertito in legge 134/2012, continuava a rimanere uno degli elementi di potenziale minaccia per la “ragionevolezza” dei piani di risanamento, posto comunque che l’esperto asseveratore, con la normativa pregressa, era tenuto alla verifica della “veridicità” di tali dati contabili solo nell’ambito del piano di risanamento realizzato nell’ambito del concordato preventivo. Inoltre, non era per nulla raro assistere a esperti asseveratori che utilizzavano, nell’ambito dei piani attestati ex art.67, terzo comma, lettera d), l.fall. “dati di partenza” non aggiornati. Anche sui dati di proiezione e di forecast, spesso le analisi degli esperti asseveratori non venivano condotte con l’adeguata accuratezza/sensibilità, astraendosi spesso dal quadro congiunturale o settoriale di riferimento, e senza condurre i necessari approfondimenti sulla tenuta del fabbisogno del capitale circolante netto.
Sui livelli di responsabilità del tecnico “consapevole” dello stato di dissesto, la giurisprudenza penale appariva ancora troppo garantista. Sul ruolo e sul profilo dell’esperto asseveratore, e sulle sue responsabilità, vorrei in questa sede solo rammentare che ancor prima della novella legislativa introdotta dal decreto legge n.83/2012 convertito in legge 134/2012, già la sentenza del Tribunale di Milano sul c.d. “caso Risanamento” disponeva che <>, facendo leva sui principi d’idoneità/credibilità ex ante del piano di risanamento basati, a loro volta, su ragionevoli e documentate prospettive di risanamento secondo criteri di diligenza e normale prevedibilità.
Con l’entrata in vigore del decreto legge n.83/2012 convertito in legge 134/2012 sono state contemplate sanzioni severe (cfr. nuovo art.236-bis l.fall.) per gli esperti asseveratori in caso di mancato assolvimento dei propri compiti. E ciò potrà sicuramente contribuire a un maggior rigore nella conduzione delle azioni di risanamento. Resta tuttavia il fatto che non basta introdurre una norma generale e astratta per cambiare da un giorno all’altro consolidate prassi operative. Accanirsi contro l’esperto potrebbe comportare inoltre effetti paradossali (es: maggiori spese per l’attività di attestazione, necessità di ricorrere a business unit strutturate in luogo dei singoli esperti contabili, che a loro volta incrementerebbero ulteriormente i costi ecc.). In realtà, per condurre le sue attività l’esperto asseveratore dovrebbe fare ricorso a vere e proprie squadre di tecnici, dovendo svolgere svariate e multiformi funzioni, non ultima quella relativa all’analisi di sensitività e di tenuta del piano. Le variabili che interagiscono, all’atto della redazione dell’attestazione e anche in seguito, sono tuttavia moltissime, e aleggia sempre l’incumbent di repentini cambiamenti negativi negli scenari congiunturali di riferimento. Va detto, pertanto, che anche col maggior rigore possibile, e pur adottando la migliore diligenza professionale, un’area anche significativa di aleatorietà sarà sempre inevitabile e ineliminabile, posto che i forecast spesso dipendono da stime.
Inoltre, la nuova fattispecie penale delineata dall’art.236-bis l.fall. meriterebbe a sua volta ulteriori revisioni. Secondo l’ufficio studi della Corte di Cassazione (relazione III/7/2012): (i) relativamente all’elemento oggettivo, mentre qualsiasi falsità commissiva sembrerebbe idonea a configurare la condotta del reato, la fattispecie omissiva riguarderebbe solo informazioni “rilevanti”. Non è da escludersi, sempre stando al citato ufficio studi, che tale “distonia” potrebbe essere mitigata da interpretazioni tese a estendere il requisito della “rilevanza” anche alla condotta commissiva; (ii) relativamente all’elemento soggettivo, le fattispecie sono dolose secondo l’accezione generica. Ne conseguirebbe che il reato è integrato sotto il profilo soggettivo dalla consapevolezza in capo al professionista della falsità dei dati esposti o della reticente rappresentazione della realtà. Rimarrebbe pertanto esclusa dalla fattispecie la condotta colposa, anche se grave.
Tra gli elementi di maggiore criticità nelle asseverazioni permane comunque la diffusa mancanza d’indicazione degli standard di riferimento per la verifica delle informazioni prospettiche finanziarie. Nell’eseguire il proprio compito, l’esperto dovrebbe, infatti, anche fare riferimento ai principi di revisione internazionale in materia di verifica dei dati prospettici, e in particolare al documento ISAE 3400 (cosa che avviene molto raramente). E’ opportuno ricordare che l’applicazione degli International Standards on Auditing è divenuta obbligatoria dal 2008 come previsto dalla direttiva 2006/43/CE del 17 maggio 2006. Tra i documenti emanati e raccomandati dall’IAASB (International Auditing and Assurance Standard Board) vi sono, appunto, gli ISAE (International Standards on Assurance Engagements) che costituiscono i principi di revisione applicabili negli incarichi di assurance, ossia di “attestazione”, tra cui spicca in particolare il citato ISAE 3400 che stabilisce gli standard di riferimento per il processo di verifica delle informazioni prospettiche finanziarie. Il tema è tutt’altro che ozioso, posto che spesso i piani utilizzano dati di forecast poco realistici, o addirittura irrealistici, oppure ipotetical assumptions non supportate da adeguati track records. Oppure, i valori delle revenues non vengono accompagnati dall’incremento proporziale dei costi operativi e strutturali, falsando i dati di cash flow.
Altro elemento negativo è spesso rappresentato dall’eccessiva durata dei piani. La durata esorbitante degli stessi (ipotesi che di per sè, come noto, indebolisce la qualità delle manovre), risulta inoltre accompagnata dai seguenti ulteriori gap:
– l’assenza di adeguate motivazioni circa le scelte /ipotesi /stime previsionali utilizzate;
– l’assenza di cautele / misure di salvaguardia aggiuntive tali da compensare / attenuare i possibili effetti negativi di eventi originariamente non previsti;
– la non chiara indicazione di tempistiche (max 3/5 anni) sulla fattibilità delle misure straordinarie, quali cessione di cespiti, dismissione o razionalizzazione di linee produttive ecc.
– l’assenza di obiettivi intermedi di generazione di cash flow oggettivamente misurabili e temporalmente collocati (c.d. “milestone”), anche di carattere infrannuale, e da monitorare nella fase di esecuzione del piano;
– l’assenza o l’inadeguatezza di efficaci sistemi di monitoraggio idonei a valutare la perdurante fattibilità del piano e la sua perdurante idoneità a consentire il risanamento dell’impresa (su tale punto, va detto che i covenants individuati spesso non solo non sono efficaci ma diventano addirittura controproducenti).
f) perimetro e tenuta dell’attuale art.217-bis l.fall. Altra area di potenziale criticità, e in cui, parimenti, non operano le esimenti dell’art.217 bis l.fall., continua a essere rappresentata dal ricorso abusivo al credito.
L’art.218 l.fall., come noto, sanziona la condotta dell’imprenditore che dissimula il proprio stato di dissesto o lo stato d’insolvenza ricorrendo nuovamente, o continuando a ricorrere, al credito bancario (e, specialmente, di quello a breve termine).Come a tutti altrettanto noto, in applicazione ai principi generali del nostro ordinamento penale inerenti il concorso di persone nel reato (art.110 c.p.) un terzo extraneus (ad esempio, la banca) può ben incorrere in reati fallimentari propri, sempre che ovviamente: a) vi sia almeno un soggetto che rivesta la qualità prevista per il compimento del reato proprio; b) il terzo extraneus dia o perlomeno offra un contributo causale rispetto alla realizzazione dell’illecito penale; c) sussista nel terzo il c.d. “dolo di concorso” (Cassazione penale, Sez.V, 1° dicembre 1998 n.2501).
In breve, la norma dell’art.218 l.fall. sul ricorso abusivo del credito si colloca in una sorta di “waste land” dove finisce con lo spingersi spesso anche l’imprenditore in buona fede (o poco avveduto), e magari anche col contributo valutativo dei suoi consulenti (spesso molto ben remunerati), confidando di poter salvare la propria azienda in crisi (e che, forse , solo in crisi più non è, essendo già diventata insolvente
) con l’aiuto delle banche. In questa “terra desolata” spesso i principi deontologici e di “best practice” rischiano di diventare molto labili o vengono addirittura platealmente sconfessati, col risultato che corporativismi, opportunismi, convenienze e miopia gestionale diventano un micidiale cocktail che porta all’utilizzo di quei “commutatori cartacei” (come li chiamava Luigi Einaudi
) che finiscono col negare l’evidenza e portano ad un utilizzo irragionevole e distorto degli strumenti di composizione della crisi d’impresa.
E’ davvero doloroso costatare che in questi ultimi mesi molti piani disattesi continuino a rimanere in un’irragionevole situazione open, con accordi di ristrutturazione che subentrano a piani attestati falliti (e viceversa) e con continui tentativi di “ri-attestazione”. E’ ormai sotto gli occhi di tutti l’accanimento terapeutico nell’utilizzo degli strumenti stragiudiziali di composizione della crisi d’impresa, anche in situazioni gravi, che portano a veri e propri “abusi del diritto” nell’utilizzo (deviato) degli strumenti di composizione della crisi d’impresa reversibile, e in particolare dei piani attestati, che continuano ad essere utilizzati in massima parte (e ri-attestati a più riprese), e ciò nonostante il “disfavore” fiscale previsto dalla legge n.134/2012 e i rischi legali sopra evidenziati. Il grande limite dell’autonomia negoziale, in questi casi, è quello di aggravare la situazione di dissesto, portando a risultati imprevedibili anche sul fronte delle responsabilità penali. Sui piani attestati ex art.67 l.fall. continua comunque ad aleggiare il rischio del controllo giudiziale ex post , e la novella del decreto impone indubbiamente nuove e attente riflessioni anche su tale punto alquanto delicato. Sarà anche qui la giurisprudenza dei prossimi anni a dirci quali saranno i poteri d’intervento e di verifica dei giudici sui piani attestati, ma già fin d’ora sarebbero auspicabili comportamenti di maggior rigore (e il nuovo art.236 bis l.fall. ne è una comprova evidente).
Su tale punto rilevante, va rimarcata la necessità per tutti gli operatori del restructuring di dare il dovuto spazio applicativo al concordato preventivo (e non solo per finalità di tipo liquidatorio, visto che l’art.186-bis prevede finalmente anche nuove norme sul concordato “in continuità”!). Il nuovo istituto del concordato preventivo ha infatti sovvertito le vecchie regole e sono state create prospettive che ci consentono, finalmente, di inquadrare il nuovo istituto tra gli strumenti di prevenzione e di cura della crisi d’impresa. Il concordato preventivo non era già, ancora prima dell’entrata in vigore del decreto legge n.83/2012 convertito in legge 134/2012, l’anticamera del fallimento, Lo strumento del concordato preventivo oggi può riguardare sia lo stato di “crisi” sia lo stato di “insolvenza”, e la revoca di un concordato caratterizzato dallo stato di “crisi” non determina più automaticamente la dichiarazione di fallimento, mentre la consecuzione tra concordato e fallimento opera solo se nella prima fase concorsuale sussiste l’insolvenza.
La procedura del concordato preventivo dovrebbe pertanto con costi più contenuti, agevolare rapidamente una precoce emersione della crisi d’impresa, o una rapida liquidazione dei suoi asset. Su questo punto, come ha segnalato recentemente Assonime , sarebbe inoltre auspicabile una modifica dell’art.162 l.fall. che enfatizzi che anche il concordato preventivo è uno strumento di composizione della crisi fondato sulla contrattazione privata. Occorre, peraltro, che la dialettica creditore debitore nel concordato non sia limitata alla fase del voto, ma cominci prima con disclosure della proposta, proprio per favorire massima rapidità ed efficacia dell’azione concordataria.
Rimane poi, sullo sfondo, sempre il tema del capitale di rischio, che continua a condizionare negativamente il mondo delle PMI e le azioni di risanamento. Occorrerebbe favorire un’effettiva ricapitalizzazione delle aziende in crisi, anche attraverso l’utilizzo della leva fiscale (es: detassazione degli utili). Il tutto anche per contenere il continuo riscorso al capitale di credito, che oltre ad alimentare gli eccessi di leva finanziaria rischia di favorire un uso distorto della “nuova finanza” nelle manovre di risanamento e, specialmente, nei piani attestati , con impatti sempre più pesanti per il ceto bancario, che a sua volta sta attraversando un’importante crisi di liquidità ed è chiamato, sul fronte EBA, a interventi di ricapitalizzazione molto ingenti. Nuove norme per favorire la deducibilità fiscale delle perdite su crediti delle banche favorirebbero indubbiamente anche comportamenti maggiormente virtuosi del ceto bancario in ordine alle corrette classificazioni e agli impairment delle posizioni problematiche.
g) “finanziamenti ponte”. Per quanto riguarda i finanziamenti ponte il debitore potrà essere autorizzato dal Tribunale a contrarre finanziamenti, che godranno della prededucibilità ex art.111bis, secondo comma, l.fall., se un professionista designato attesterà che tali finanziamenti sono “
funzionali alla miglior soddisfazione dei creditori” (cfr. art.182-quinquies, comma secondo, l.fall.). Si osserva, sul punto, che la terminologia utilizzata in ordine ai “finanziamenti ponte” non è delle più felici, e inoltre rimane una rilevante incognita. Senza adeguate clausole di “salvaguardia” il ceto creditorio ben difficilmente potrà concedere tali finanziamenti prima dell’omologa degli accordi di ristrutturazione o dei piani concordatari (che, infatti, potrebbero non giungere mai). Peraltro, l’inserimento nell’art.217-bis l.fall. dei pagamenti e delle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma dell’art.182-quinqies l.fall. opera solo sul fronte dell’esenzione penale dai reati di bancarotta. Il citato beneficio della prededucibilità, inoltre, spesso appare più illusorio che effettivo, posto che essa riguarda stricto jure la fase fallimentare e non opera in via antergata rispetto ai creditori ipotecari e pignoratizi, come disposto dal secondo comma dell’art.111bis l.fall.
h) assenza di norme sul c.d. “concordato di gruppo”. In molti casi le procedure concordatarie sono molto articolate e complesse, riguardando numerose società appartenenti allo stesso gruppo economico, e spesso vi sono svariati Tribunali competenti territorialmente, e tutto ciò renderà tutt’altro che agevole l’operatività bancaria in presenza di gruppi d’impresa. La gestione unitaria della crisi di gruppo economico verrà messa a dura prova dalla pluralità dei Tribunali coinvolti, i quali a loro volta potrebbero esprimersi in modo distonico circa la concessione dei “timing” e delle modalità per la presentazione della necessaria documentazione e per l’assolvimento degli obblighi informativi. Nonostante la legge delega per la riforma del diritto societario (art.2, comma primo, lettera h, della legge 366/2001) abbia indicato la necessità di “
disciplinare i gruppi secondo i principi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti”, il legislatore non ha ancora dato una definizione del “gruppo di imprese”. L’unico richiamo è contenuto in sede di Amministrazione straordinaria delle grandi imprese, mentre in sede fallimentare è solo previsto un accenno al quarto comma dell’art.127 l.fall. Non è cosa da poco, posto che spesso la continuazione dell’attività d’impresa presuppone le sinergie e le opportunità che provengono dal gruppo economico
Spesso inoltre la crisi di gruppo è “on cross border”, essendo ormai tutt’altro che infrequente vedere società dello stesso gruppo economico appartenere a più Stati (UE e non), e occorrerebbe favorire uno studio a livello UE per cercare di armonizzare le svariate discipline sulla crisi d’impresa attualmente operanti nei vari Stati membri.
4 ART.169-BIS L.FALL.: CONTRATTI IN CORSO DI ESECUZIONE E REVOCHE IN PENDENZA DI CONCORDATO “PRENOTATIVO”, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE LINEE AUTOLIQUIDANTI DELLE BANCHE
In ordine alla mole crescente di istanze di concordato “prenotativo“, cominciano a delinearsi alcune allarmanti decisioni dei Tribunali (fortunatamente minoritarie) in ordine alla possibilità, sancita dal novello art. 169-bis, che il debitore richieda (e ottenga) al Tribunale (prima dell’ammissione) o al Giudice Delegato l’autorizzazione a sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione alla data della presentazione del ricorso (e senza che sia stata ancora documentata la manovra!). Il ricorso delle imprese in crisi potrebbe nel prossimo futuro moltiplicarsi a dismisura, impattando in maniera decisiva sull’operatività concreta delle filiali delle banche commerciali sia con riguardo alle linee di credito (nella specie aperture di credito per cassa, anticipo fatture, salvo buon fine) in essere sulle società oggetto di istanza di concordato, sia, soprattutto, sulle società “in odore” di possibile prossimo ricorso a tale procedura.
Alcuni Tribunali hanno disposto l’autorizzazione allo scioglimento dei rapporti bancari continuativi aventi per oggetto linee autoliquidanti sulla base della semplice richiesta “in bianco” del debitore, permettendo a quest’ultimo di decanalizzare e trattenere gli incassi afferenti a linee auto liquidanti. In aggiunta, si pone il tema della restituzione (non si capisce a chi?) anche degli accrediti eventualmente pervenuti sul c/c della banca affidante dopo la presentazione dell’istanza di concordato “prenotativo” .
Un diffuso orientamento di questo genere dei Tribunali porterebbe, a parere dello scrivente, a un risultato incoerente con lo spirito della novella, che dovrebbe guardare con favore il sostegno all’impresa in crisi. Quale banca finanzierebbe più il circolante di una società in crisi (ancorchè in bonis) se incombe la possibilità che, una volta saturato il castelletto, con la semplice presentazione di una domanda in bianco, l’imprenditore potrebbe essere autorizzato a trattenere gli incassi che chiudono gli anticipi?
Il tema della “cristallizzazione dei crediti” è ancora molto sofferto in dottrina e in giurisprudenza. Va tuttavia detto che una recente decisione della Corte di Cassazione (Sezione I, 1° settembre 2011 n. 1799) permette la compensazione (laddove sia previsto uno specifico patto), evitando la restituzione delle somme al curatore. La compensazione sulle somme riscosse può così utilmente operare in luogo della “cristallizzazione dei crediti“, nel senso che in presenza di un preesistente “patto di compensazione” né l’impresa in crisi né il curatore hanno diritto a che la banca riversi in loro favore le somme riscosse.
5 ATTESTAZIONE DI “FATTIBILITÀ” DEL PIANO DI RISANAMENTO E “INDICAZIONI CAUTELATIVE” CIRCA LA PROBABILITÀ DI REALIZZAZIONE DI ALCUNI EVENTI (ES: DISMISSIONI IMMOBILIARI); L’UTILIZZABILITÀ DEL TRUST IN FUNZIONE LIQUIDATORIA
Nell’ambito delle nuove “Linee guida per il finanziamento delle imprese in crisi” dell’Università di Firenze – CNDCEC – Assonime (in corso di elaborazione e diffuse in anteprima in occasione di un recente “Corso di perfezionamento” della menzionata Facoltà), a conferma di quanto già emergeva nelle precedenti versioni delle stesse e in successivi lavori di aggiornamento, nonché in alcune pronunce giurisprudenziali (Torino 15 febbraio 2011) e nella dottrina più attente, è emerso, tra l’altro, il tema dell’attestazione di legge sottoposta a “indicazioni cautelative” ovvero a vere e proprie condizioni, con particolare riferimento ad “eventi” quali l’adesione del ceto bancario alla manovra finanziaria, l’erogazione di finanza e, in termini forse più problematici, la dismissione di asset (nella stragrande maggioranza dei casi beni immobili) a servizio del debito.
Il tema dell’attestazione, centrale in ogni azione di risanamento, non può infatti che rimarcare il nuovo richiamo alla “fattibilità” del piano (in luogo della “ragionevolezza”) espressamente evidenziato nel nuovo art.67, comma terzo, lettera d), l.fall.
A quest’ultimo proposito, in estrema sintesi, viene ribadita nelle Raccomandazioni 13 e 14, tuttora in fase di esame, la necessità che il professionista “attestatore” non si limiti a prendere atto della volontà del debitore di vendere un proprio bene ad un determinato valore entro un certo lasso di tempo, ma che dichiari altresì che tale vendita è altamente probabile.
Tale necessità è legata al fatto che ove l’attestatore non si assuma la suddetta responsabilità, il giudizio da questi reso risulterebbe non efficace (e, quindi, non in grado di stendere gli effetti di legge) sino al perfezionamento della vendita, in quanto la fattibilità del piano sarebbe a quest’ultima (evento futuro ed incerto) condizionato. Solo con tale assunzione di responsabilità l’attestazione” darebbe invece copertura sin da subito al piano e ai relativi atti da eseguire, ponendo al contempo un obiettivo intermedio da conseguire (milestone) che il professionista, in tal modo, ritiene verrà raggiunto; diversamente il piano diverrebbe non più eseguibile.
Alla luce di quanto precede, è fondamentale che nell’analisi dei piani di risanamento (che si basino su dismissioni) e delle relative “attestazioni” si valutino, chiedendo se del caso opportune integrazioni ai consulenti del debitore (nonché all'”attestatore”, pur nel rispetto dei requisiti di terzietà ed indipendenza di tale soggetto):
– le modalità e, soprattutto, l’arco temporale entro il quale sono previste le dismissioni;
– la “solidità” delle perizie effettuate (anche con riguardo al soggetto valutatore);
– la previsione ex ante di margini di scostamento dei valori di realizzo (senza, ovviamente, che la fattibilità del piano ne sia inficiata);
– la previsione ex ante di meccanismi di decremento dei valori di vendita al trascorrere del tempo (sulla base degli headroom di cui all’alinea che precede);
– la sostenibilità del servizio del debito diverso da quello bancario ove si dia luogo a vendite a valori “depressi” rispetto a quelli originariamente ipotizzati.
Sempre in tema di dismissioni, vanno segnalati recenti e interessanti studi aventi per oggetto l’utilizzabilità del trust liquidatorio per favorire la composizione delle crisi aziendali, specie nelle ipotesi in cui si debba attuare un piano dimissorio immobiliare a servizio del deleverage. Non è questa ovviamente la sede per affrontare il campo d’indagine, le complesse questioni legali e operative inerenti l’utilizzo del trust. Quello che qui rileva è segnalare come un uso “virtuoso” di tale strumento (nonostante il trust sia un istituto da maneggiare con grande cautela) potrebbe favorire, attraverso un’efficace segregazione degli asset immobiliari, un’adeguata valorizzazione degli stessi, nel pieno rispetto dei principi internazionali e dell’ordinamento interno, a condizione che s’introduca anche per questo istituto un regime di effettiva neutralità fiscale .
Attente considerazioni / valutazioni dovrebbero essere condotte anche per i dossier dello shipping, area che in questo momento presenta grandi incertezze congiunturali e che richiede particolari attenzioni e analisi di sensitività (e che, a loro volta, presuppongono il rispetto delle best practice esplicitate nella Raccomandazione N.7 delle citate “Linee guida”, e che dovrebbero indurre Confitarma a redigere un “protocollo” per le società armatoriali ad essa associate).
6 CONSIDERAZIONI FINALI
Chi scrive è convinto che l’area del restructuring abbia necessità di nuovi assessment, e probabilmente le “tre gambe” delle azioni di risanamento sono destinate a diventare due. Altri istituti (il trust liquidatorio) potrebbero essere utilmente utilizzati per favorire azioni di risanamento virtuose.
La riforma introdotta dalla legge n.134/2012 è carica di buoni propositi e buone intenzioni, ma risulta allo stato anche molto complicata e frammentata, con forti rischi di essere travisata ed è attualmente oggetto di abusi e tecniche dilatorie. I debitori sono sicuramente (e irresistibilmente) attratti dalla circostanza che, con la semplice presentazione di un ricorso (senza documenti di manovra), possano accedere all’immediata protezione del proprio patrimonio. Ma spesso tali debitori non appaiono consapevoli che ciò si può tradurre in un vero e proprio boomerang, posto che alla scadenza del termine assegnato dal Tribunale senza la presentazione dei documenti di manovra il Tribunale stesso può anche dichiarare il fallimento, su richiesta dei creditori o del PM.
Anche su questo punto, estremamente rilevante e delicato, non ci sono automatismi (né, probabilmente, ce ne devono essere, posto che il decorso di un termine è cosa assai diversa dalla verifica dello stato d’insolvenza
) e potrebbe anche accadere che i dossier rimangano nel “limbo“, o peggio in una “waste land” incomprensibile e pericolosa, scaduti i termini fissati dal tribunale per la presentazione della manovra.
Occorre sicuramente maggiore disclosure durante il concordato “prenotativo“; gli obblighi informativi verso il Tribunale non bastano, ma occorre, oltre alla trasparenza, anche creare momenti di effettivo e sano contraddittorio debitore-creditore e creditore-Tribunale, il tutto per contribuire alla condivisione (eventuale) della manovra con la massima tempestività ed efficacia, anticipando se del caso le valutazioni che poi verranno formalmente assunte nel corso dell’adunanza dei creditori e permettendo maggior linearità alla manovra stessa, col massimo risparmio di tempi e di costi.
Vanno inoltre delineandosi con sempre maggiore frequenza casi di “twilight zone“, ossia situazioni “crepuscolari” intermedie tra l’esercizio ordinario dell’impresa e situazioni di crisi conclamata, in cui la causa societaria s’interseca e s’intreccia indissolubilmente con la causa di risanamento, con conseguente necessità di ri-orientare l’azione manageriale verso la massimizzazione del valore aziendale e della conservazione del patrimonio, anche in funzione della massima tutela dei creditori. Anche per tale ragione occorrerebbe evitare, nei casi più gravi di crisi aziendale, di ricorrere ai piani attestati.
Il tema della “finanza ponte” va risolto anche sul piano della tutela civilistica, proteggendo al meglio le banche anche qualora non subentri l’omologa dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo. E sull’art.169bis l.fall. va fatta un’attenta riflessione, permettendo l’interruzione solo in casi espressamente disciplinati e in presenza di una manovra definita, salvo restando la facoltà della società di richiedere una sospensiva di tali rapporti nella fase del concordato “prenotativo”.
I casi di miopia si manifestano cross border. Anche le banche spesso appaiono irresistibilmente attratte dalle “scorciatoie” per salvare i conti economici, e per evitare di maturare nell’immediato perdite di credito si affidano a piani irragionevoli o di scarsa fattibilità, rimandando al domani i problemi nella convinzione (spesso fallace o illusoria) che l’impresa possa in qualche modo ritrovare un suo equilibrio economico e finanziario. La speranza è che prevalga sempre il buon senso e il senso di responsabilità, rispetto ai “commutatori cartacei” che stanno inondando i tavoli.
Ne va delle sorti dell’intero Paese.
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