ISSN 2385-1376
Testo massima
“Mentre ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo a norma dell’art. 636 c.p.c.. la prova dell’espletamento dell’opera e dell’entità delle prestazioni può essere utilmente fornita con la produzione della parcella e del relativo parere della competente associazione professionale, tale documentazione non è più sufficiente nel giudizio di opposizione, il quale si svolge secondo le regole ordinarie della cognizione e impone, quindi, al professionista, nella sua qualità di attore, di fornire gli elementi dimostrativi della pretesa, con la conseguenza che il giudice di merito non può assumere come base di calcolo per la determinazione del compenso le esposizioni di detta parcella contestate dal debitore.”
Con la pronuncia in commento la Corte d’Appello di Campobasso torna a ribadire un principio di diritto largamente condiviso in dottrina in materia di procedimento monitorio e che viene specificato anche nel caso in cui a procedere per ottenere il pagamento delle proprie spettanze sia un avvocato: il ruolo rivestito dalle parti processuali nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e le conseguenti incombenze in punto di prova.
Infatti, l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione nel quale il giudice non deve limitarsi a stabilire se l’ingiunzione sia stata emessa legittimamente, in relazione alle condizioni previste dalla legge per l’emanazione del provvedimento monitorio, ma deve accertare il fondamento della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione, valutando l’an ed il quantum della pretesa del creditore entrando così nel merito della controversia.
Ontologicamente quindi si verifica una vera e propria inversione del ruolo delle parti processuali, per cui, è l’opposto che riveste il ruolo dell’attore, poiché quest’ultimo ha instaurato il procedimento mediante la richiesta di emissione di un provvedimento monitorio e l’opponente, in qualità di destinatario del provvedimento di natura sommaria, si trova nella posizione sostanziale di convenuto.
Da tale distinzione consegue che l’onere di provare i fatti, ovvero del credito, incomberà in capo all’opposto e non all’opponente.
Nel caso che occupa era accaduto che un legale avesse adito il Tribunale di Campobasso per conseguire il pagamento dalla Regione Molise del proprio compenso professionale per l’attività svolta per l’ente in occasione di giudizi amministrativi, presentando la parcella con il saldo delle proprie competenze con visto del Consiglio dell’Ordine e ottenendo l’emissione di un decreto ingiuntivo, contro il quale la Regione proponeva formale opposizione.
La Regione si difendeva sostenendo che nulla doveva al legale perché aveva saldato completamente gli importi dovuti. Il legale, invece, riteneva di aver ricevuto soltanto un acconto di quanto spettante per tutte le prestazioni rese.
Chiamato in qualità di attore sostanziale a provare il proprio credito però, il legale si limitava a produrre la parcella vistata dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza sulla scorta della quale era stato emesso il decreto ingiuntivo opposto e delle note, così lasciando nel merito la pretesa creditoria sfornita di prova. Il Tribunale adito accoglieva l’opposizione, disponendo la revoca del decreto ingiuntivo opposto e condannando l’avvocato alla rifusione, in favore di controparte, delle spese di lite.
Avverso detta sentenza proponeva appello la parte soccombente, ma la Corte d’Appello di Campobasso rigettava l’impugnativa.
Infatti, spiega la Corte territoriale, che nella documentazione relativa alla richiesta di saldo delle competenze professionali maturate in ordine al giudizio in contestazione tra le parti, il legale avrebbe dovuto indicare specificamente: a) la tariffa o le tariffe da applicarsi; b) le ragioni per cui diritti ed onorari a suo tempo richiesti erano al di sotto dei minimi tariffari; c) le eventuali voci pretermesse nella prima specifica e dovute in base alla tariffa ritenuta applicabile. Avrebbe dovuto poi provare tutte le attività legali presumibilmente svolte e non solo allegarle, poiché, come dimostra il testo dell’art. 342 c.p.c. (che impone al specificità dei motivi di gravame), tale individuazione non può essere rimessa al giudice di appello, che non può, attraverso una non consentita attività suppletiva, sostituirsi alla parte appellante.
Ne deriva un importante monito per tutti gli avvocati che si troveranno di qui a venire nella spiacevole situazione di dover adire le vie legali per ottenere il pagamento dei propri compensi.
Testo del provvedimento
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