È lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita, cd. put, entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società, pertanto l’accordo così sottoscritto non elude il divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c..
La disciplina del divieto di patto leonino si applica anche alle società di capitali.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Pres. Schirò, Rel. Nazzicone con l’ordinanza n. 17498 del 4 luglio 2018.
LA VICENDA
Nel 2007, nell’ambito della organizzazione di una “cordata” per l’acquisizione di una banca, veniva sottoscritto un accordo parasociale tra una SOCIETÀ poi posta IN CONCORDATO PREVENTIVO ed una SOCIETÀ DI INVESTIMENTI, che prevedeva la concessione in favore della finanziaria dell’opzione put con riguardo alla partecipazione sociale rappresentativa del 14,99% del capitale sociale della banca, da esercitare entro il 31 dicembre 2008 dietro corresponsione del prezzo di acquisto delle azioni, oltre interessi.
Il suddetto accordo veniva modificato nel 2008, prevedendo, in aggiunta al prezzo di acquisto ed agli interessi, la corresponsione degli eventuali ulteriori versamenti eseguiti a patrimonio netto.
La società oblata, successivamente, conveniva in giudizio la società titolare dell’opzione put, al fine di far dichiarare nullo l’accordo, per asserita violazione del divieto del c.d. patto leonino, in quanto l’opzionaria avrebbe potuto votare in assemblea ogni aumento del capitale e versare qualsiasi importo senza rischio di perdite, essendo il proprio investimento destinato ad essere rimborsato interamente dalla società obbligata all’acquisto, con la conseguenza che tale patto parasociale avrebbe trasferito integralmente il rischio d’impresa in capo a quest’ultima.
In primo grado, il Tribunale aveva dichiarato la nullità dell’accordo ed avverso la decisione sfavorevole proponeva appello la società opzionaria.
La Corte territoriale rigettava il gravame, richiamando quella giurisprudenza di legittimità che esige, ai fini del giudizio di nullità, che sia stata pattuita l’esclusione assoluta e costante del socio dalla partecipazione agli utili ed alle perdite, ritenendo tale esclusione sussistente nel caso di specie in cui, tra l’altro, l’opzionaria avrebbe potuto votare in assemblea ogni aumento del capitale e versare qualsiasi importo senza rischio di perdite, essendo il proprio investimento destinato ad essere rimborsato interamente dalla controparte del patto parasociale.
Né, aggiungeva la Corte del merito, poteva dirsi sussistente nell’accordo parasociale un autonomo interesse meritevole di tutela ex art. 1322 cod. civ., restando quindi l’accordo idoneo ad eludere il divieto di patto leonino: “la causa dell’accordo era quella di voler trasferire interamente il rischio d’impresa sulla SOCIETÀ in CONCORDATO, sottraendo così l’altro socio da ogni rischio tipico ed ontologico nello status socii, con il venir meno dell’alea tipica dell’investimento finanziario, tanto da rimuovere ogni interesse alla gestione prudente della società ed al mantenimento del valore della partecipazione sociale, proprio per la certezza di vedersi, in ogni caso, liquidato qualsiasi esborso”.
In tale ottica il Collegio territoriale rilevava che, sebbene la funzione di scambio fosse presente nell’originario patto del 2007, contenente un’opzione put a prezzo fisso perfettamente lecita, altrettanto non poteva dirsi dopo la modificazione apportata con il contratto integrativo del 2008, né poteva essere mantenuta in vita l’opzione nella sua configurazione originaria, giacché la modificazione sopraggiunta era essenziale, posto che, in difetto, la titolare dell’opzione non avrebbe consentito l’aumento del capitale sociale.
Avverso tale decisione l’opzionaria ha proposto ricorso per cassazione, articolando vari motivi di doglianza, tra cui:
- violazione e falsa applicazione dell’art. 2265 c.c. , per aver ritenuto la Corte norma applicabile ai patti parasociali;
- violazione e falsa applicazione degli artt. 1353, 1355 e 1362 ss. c.c., per avere la corte territoriale ritenuto che l’accordo inter partes escludesse la SOCIETÀ DI INVESTIMENTI da ogni partecipazione alle perdite;
- violazione e falsa applicazione degli artt. 1322 e 2265 c.c. per avere la corte territoriale ravvisato, in forza del patto, una situazione di disinteresse della SOCIETÀ DI INVESTIMENTI alla valorizzazione della partecipazione sociale e per non aver valutato la meritevolezza dell’interesse perseguito.
Questa, in estrema sintesi, è la questione posta all’attenzione della Suprema Corte: stabilire se sia valido ed efficace l’accordo interno tra due soci, uno dei quali si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento eseguito in società, tramite l’attribuzione del diritto di vendita, ovvero opzione put, entro un dato termine ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, comprensivo anche di somme versate nelle more alla società.
La Corte di Cassazione ha fornito una articolata disamina delle questioni giuridiche sottese al caso di specie, scandendo le motivazioni nei seguenti punti:
1.LA QUESTIONE.
2.LA RATIO DEL DIVIETO DI PATTO LEONINO.
3.VALUTAZIONE DI LICEITÀ E DI MERITEVOLEZZA E GIUDIZIO DI DIRITTO.
4.NECESSITÀ DI RICERCARE LA CAUSA CONCRETA.
5.LA CAUSA DELL’OPERAZIONE DI ACQUISTO DELLE AZIONI CON OPZIONE PUT.
6.IL FAVOR DEL DIRITTO POSITIVO PER LE TECNICHE ANCHE ATIPICHE DI APPORTO ALL’IMPRESA.
7.IL NESSO “POTERE-RISCHIO“.
8.LA FUNZIONE DI GARANZIA IN SENSO LATO E IL PERDURANTE INTERESSE ALLE BUONE SORTI DELLA SOCIETÀ.
9.L’OBIEZIONE DEL DIRITTO DI RECESSO OCCULTO.
10.CONCLUSIONI.
Provando a trarre le fila del corposo iter argomentativo, è opportuno premettere che gli Ermellini hanno preso le mosse dalla individuazione della ratio del divieto di patto “leonino“, la quale tradizionalmente risiede nel preservare la purezza della causa societatis, cui vanno ricondotte tutte quelle diffuse opinioni secondo cui una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non “prodigarsi” per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attività «avventate» o «non corrette» (cfr. Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927; v. pure Cass. 22 giugno 1963, n. 1686).
Tutto ciò, tuttavia, presuppone che il patto diverso alteri questa causa e sia con esso incompatibile, e non invece che si ponga, in quanto esterno al contratto sociale, quale fondamento autonomo e distinto della decisione di conferimento di un socio in società, che tuttavia non incida sulla causa predetta.
L’esclusione dalle perdite o dagli utili, quale «situazione assoluta e costante», deve cioè riverberarsi sullo status del socio.
Infatti, per consolidato orientamento della stessa Suprema Corte, «perché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 cod. civ. sussista è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante perché riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società».
La Corte di legittimità ha poi ricordato che, quando l’accordo oggetto di contestazione sia contenuto in un c.d. patto parasociale, occorre procedere all’«analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell’affare», dovendosi valutare l’«utilità del contratto», la sua «idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale» (Cass., sez. un., 6 marzo 2015, n. 4628, sul contratto preliminare di preliminare).
Occorre cioè valutare se il patto in sé possa avere una propria autonoma giustificazione “causale”.
Proprio a tal uopo – prosegue la Suprema Corte – l’indagine va condotta nella prospettiva della c.d. causa concreta, che attiene “agli interessi perseguiti considerati nella loro oggettività”, categoria diffusamente esposta e condivisa sin da Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, e poi ripresa dalla giurisprudenza di legittimità successiva.
Posta tale premessa, la questione di specie è stata ricondotta dal Supremo Collegio nei seguenti termini: in ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se esista, sia lecita e meritevole di tutela: onde il patto non potrà ricadere nel divieto ex art. 2265 cod. civ. e supererà positivamente il vaglio ex art. 1322 cod. civ., laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, nel senso sopra precisato, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Si viene, quindi, al punto cruciale della decisione.
Secondo la Corte, la “ragione pratica” del meccanismo in discorso, palesatasi nel mondo degli affari, è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci.
Nel momento della costituzione della società, o quando si intenda operarne il rilancio mediante una particolare operazione economica, il contributo di ulteriori capitali, rispetto a quelli disponibili per i soci che il progetto abbiano concepito, può divenire essenziale, anche quale condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato.
In questi casi, accanto alle molteplici forme di finanziamento dell’impresa che il legislatore e la pratica prospettano – a titolo di partecipazione al capitale di rischio (azioni privilegiate, postergate, a voto plurimo, riscattande, ecc.), di debito (mediante obbligazioni strutturate, subordinate, irredimibili ex art. 2411) o con i numerosi strumenti finanziari che possono essere emessi dalla società (cfr. artt. 2346, comma 6; 2447-ter, comma 1, lett. e) – non è precluso alle parti di addivenire pure a simili accordi, in cui la causa concreta è mista, in quanto associativa e di finanziamento, con la connessa funzione di garanzia assolta dalla titolarità azionaria e dalla facoltà di uscita dalla società senza la necessità di pervenire, a tal fine, alla liquidazione dell’ente.
Ebbene, nell’attuale contesto normativo, pur senza superare del tutto il tradizionale binomio “potere-rischio”, al quale è ispirata la ratio del divieto di “patto leonino”, “appare difficile […] sostenere l’assoluta uguaglianza fra gli azionisti, ormai tralasciata dal diritto positivo a favore del favor per la ricerca di fonti alternative di finanziamento”.
D’altronde, sotto il (diverso e connesso) profilo dell’interesse del socio titolare dell’opzione put alla buona gestione della attività sociale, gli Ermellini hanno evidenziato che “come il creditore pignoratizio, sebbene non socio, ha comunque interesse a votare per la valorizzazione della partecipazione sociale, la quale costituisce garanzia reale (stavolta in senso tecnico) del suo diritto di credito, così il finanziatore divenuto socio con clausola put ha un sicuro interesse a favorire le buone sorti della società e, con esse, del suo investimento: sia perché ha eseguito il conferimento, avendo investito pur sempre nell’intento di moltiplicare il valore del proprio denaro e non soltanto di recuperarlo dopo un dato periodo di tempo, sia soprattutto perché il suo debitore proprio grazie al successo dell’impresa economica potrà, con assai maggiore probabilità, restituire l’importo pattuito: onde quel successo il socio finanziatore sarà portato, per definizione, a propiziare”.
In altre parole, “il diritto di avere in restituzione il credito non azzera l’interesse alla conservazione ed all’incremento del valore della partecipazione sociale, che, tornata nel patrimonio del dante causa (o del debitore), a sua volta costituisce garanzia patrimoniale generica dell’adempimento dell’obbligazione: né il creditore è indifferente alla composizione e all’entità del patrimonio del suo debitore, nell’osservazione della realtà pratica e nel sistema delle tutele concesse dall’ordinamento, con il riconoscimento e la conservazione di quella garanzia (artt. 2900 ss. cod. civ.)”.
E, d’altra parte, nel caso di specie il patto parasociale si inscriveva nell’ambito di un preciso e più ampio progetto imprenditoriale volto alla quotazione della società, che avrebbe mutato – in caso di esito positivo – radicalmente le prospettive di tutti i soci, ivi compreso quello c.d. finanziatore e di minoranza, in quanto le azioni avrebbero potuto essere vendute con offerta pubblica ed evidenti profitti per l’investitore che aveva creduto nell’iniziativa.
LE CONCLUSIONI DELLA CORTE
Sulla scorta del ricostruito percorso argomentativo, la Suprema Corte è pervenuta alla conclusione che, rispetto all’alterazione della causa societaria, paventata dalla società oblata nell’opzione put, “altro è, in definitiva, il caso del descritto accordo concluso fra le parti”.
Secondo il Collegio, nell’opzione put a prezzo preconcordato si assiste all’assoluta indifferenza della società alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell’esercizio di essa, le quali restano neutrali ai fini della realizzazione della causa societaria, già per la presenza di elementi negoziali idonei a condizionare il potere di ritrasferimento a circostanze varie, capaci di orientare la scelta dell’oblato nel senso della vendita, ma anche della permanenza in società; onde non ne viene integrata l’esclusione da ogni partecipazione assoluta e costante dalle perdite.
Lo schema causale dell’operazione complessiva non reca dunque neppure insiti in sé i rischi che sono tradizionalmente ricondotti al divieto di patto leonino.
Il socio finanziatore assume tutti i diritti e gli obblighi del suo status, ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite.
L’interesse meritevole di tutela, poi, ai sensi dell’art. 1322 cc, ben può essere individuato nel finanziamento dell’intrapresa societaria, ove la meritevolezza è dimostrata dall’essere il finanziamento partecipativo correlato ad un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario. Interesse che, si noti, potrebbe addirittura reputarsi latamente generale, in quanto operazione coerente con i fini d’incentivazione economica perseguiti dal legislatore, quale strumento efficiente della finanza d’impresa.
L’atipicità, dunque, attiene non alla causa del contratto di società, che resta intatta, ma al cd. finanziamento in forma partecipativa, il quale si pone a rafforzamento di un’impresa societaria con modalità atipiche, al fine del raggiungimento di un reciproco vantaggio, ovvero:
- da una parte, la partecipazione all’impresa con la remunerazione del conferimento e la fruizione di una garanzia dell’esborso, mediante il controllo sulla vita sociale e la possibilità di dismissione, attribuite al socio di minoranza;
- dall’altra, il reperimento di un finanziamento a condizioni più favorevoli, grazie alla contrazione del rischio per il creditore, dunque a tassi di regola inferiori e pure quando il sistema bancario non lo concederebbe, senza necessità di sottoporre i beni del patrimonio del finanziato a vincoli reali o di ricercare onerose garanzie personali.
Alla luce di tutte le considerazioni appena riportate, la Corte è pervenuta all’accoglimento del ricorso, rinviando ad altra composizione della Corte di Appello per la liquidazione delle spese di lite e statuendo il principio di diritto riportato in apertura.
*****
SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 2265 CC ALLE SOCIETÀ DI CAPITALI
A margine, è opportuno segnalare che i giudici di legittimità, nel ritenere infondato il primo dei motivi di ricorso, hanno chiarito che il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 cc non può ritenersi confinato – ritenendo tale disposizione eccezionale – alle sole società personali, ma ben va esteso ad ogni forma societaria, ivi compresa la società per azioni.
Il Collegio, infatti, ha condiviso l’orientamento maggioritario, il quale reputa l’art. 2265 cc una norma transtipica.
In tale ottica, se la societas è l’unione di più patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell’intrapresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la totale esclusione di uno o più soci – quali soggetti titolari di una quota del capitale sociale – da quei risultati.
Il conferimento di capitale non collegato allo scopo di cooperare all’attività economica cui è volta l’impresa societaria condividendone gli esiti, pur se avente eventualmente altri fini, è dunque stigmatizzato dal legislatore con la comminatoria della nullità per l patto che abbia un simile risultato, in via diretta (art. 1418 cod. civ.) o indiretta (art. 1344 cod. civ.).
La divisione delle perdite deriva implicitamente dalla situazione implicita e simmetrica in cui la società incorra in quella situazione contabile.
Ciò equivale a sostenere che il legislatore ha ammesso unicamente il contratto tipico di società – pur nei differenti schemi formali integrati da ciascun tipo sociale predisposto dalla legge – al cui modello causale i soci non possono apportare deroghe idonee a snaturarne la funzione di contratto associativo.
Per tale ragione, qualunque sia la forma societaria prescelta, risulterà comunque applicabile il divieto ex art. 2265 cc.
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