ISSN 2385-1376
Testo massima
Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile “ad usucapionem”, salvo la dimostrazione di un’intervenuta “interversio possessionis” nei modi previsti dall’art. 1141 cc.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
ALFA S.P.A;
– ricorrente –
contro
O.E.;
– intimato –
e sul 2^ ricorso n. 13911/03 proposto da:
O.E.;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
ALFA S.P.A.;
– intimata –
e sul 3^ ricorso n. 10431/03 proposto da:
O.E.;
– ricorrente –
contro
ALFA S.P.A.;
– intimata –
e sul 4^ ricorso n. 13686/03 proposto da:
ALFA S.P.A.;
– controricorrente e ricorrente incidentale contro
O.E.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 285/03 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 2701/03;
Svolgimento del processo
O.E., con citazione del 27.4.95, conviene la ALFA SPA innanzi al Tribunale di Napoli e, sulla premessa del possesso esclusivo ed ininterrotto dal 5.1.68 d’un appartamento e pertinente box nell’edificio alla traversa 2 della via (OMISSIS) in (OMISSIS), catastalmente intestato alla convenuta, chiede dichiararsi l’intervenuto suo acquisto della proprietà dell’immobile per usucapione.
Costituendosi, la convenuta ALFA SPA si oppone alla domanda, deducendo che l’attore aveva avuto la mera detenzione dell’immobile, consegnatogli in esecuzione d’un preliminare di vendita inter partes, appunto del 5.1.68, e chiede, in via riconvenzionale, dichiararsi la risoluzione del detto preliminare per grave inadempimento della controparte, questa avendo corrisposto sul prezzo di vendita soltanto un anticipo di L. 42.815, e, quindi, condannarsi la stessa controparte alla restituzione del bene ed al risarcimento dei danni.
Decidendo delle contrapposte domande con sentenza del 2.3.00, il tribunale adito, in accoglimento della principale, dichiara acquisita dall’attore la proprietà dell’immobile.
Tale decisione, impugnata dalla ALFA SPA, viene riformata con sentenza del 27.1.03 dalla Corte di Appello di Napoli, che rigetta sia la domanda principale sia quelle riconvenzionali sulla considerazione: da un lato, che l’ O., a seguito del preliminare di vendita, avesse acquisito la sola detenzione dell’immobile e che i successivi comportamenti tenuti dallo stesso non fossero stati idonei a mutare detta detenzione in un possesso utile all’usucapione; dall’altro, che non avendo la ALFA SPA rivolto l’invito a stipulare l’atto definitivo di trasferimento a termini di contratto alla controparte, a quest’ultima non fosse addebitabile un inadempimento al preliminare neppure in relazione al mancato pagamento del prezzo convenuto.
Avverso la sentenza di secondo grado la ALFA SPA propone ricorso per cassazione, con atto notificato il 5.4.03, affidato a due motivi; l’ O., a sua volta, propone ricorso per Cassazione, con atto notificato il 7.4.03, affidato anch’esso a due motivi; al primo ricorso l’ O. resiste con controricorso del 14.5.03, contestualmente proponendo ricorso incidentale nel quale si riporta al proprio precedente ricorso; la ALFA SPA, a sua volta, con atto del 16.5.03, propone controricorso e contestuale ricorso incidentale, nel quale anch’essa si riporta al già proposto ricorso.
Entrambe le parti fanno seguire memoria.
La Seconda Sezione, disposta ex art. 335 c.p.c. all’udienza 13.6.06 la riunione dei ricorsi proposti in via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza, con ordinanza 19.7.06 evidenzia come la questione relativa alla qualificazione, in termini di possesso piuttosto che di detenzione, della disponibilità del bene conseguita dal promissario d’una vendita immobiliare in forza di clausola del contratto preliminare questione ritenuta propedeutica anche rispetto a quella, sollevata dal medesimo ricorrente con il secondo motivo, relativa al difetto d’integrità del contraddittorio quanto alla domanda di risoluzione del contratto, proposta in via riconvenzionale dalla controparte ed oggetto del ricorso per cassazione di quest’ultima abbia avuto soluzioni difformi nella giurisprudenza di legittimità, anche all’interno della stessa Sezione, e rimette, quindi, la causa al Primo presidente, dal quale è disposta la trattazione della questione stessa da parte di queste Sezioni Unite per la composizione del contrasto.
Motivi della decisione
Preliminarmente, devesi confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/ ALFA SPA) e R.G. 13686/03 (ALFA SPA c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e con i quali, tra l’altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da considerare inammissibili.
E’, infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell’ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest’ultimo possa suggerire un’estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l’ordinamento non consente il reiterarsi o frazionarsi dell’iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo il principio della cosiddetta consumazione dell’impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle disposizioni di cui all’art. 334 c.p.c., le quali operano soltanto in favore della parte che, prima dell’iniziativa dell’altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata (da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976).
Si può, quindi procedere all’esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto (R.G. n. 10084/03 ALFA SPA c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O. c/ ALFA SPA) incidentale.
1. – RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente, denunziando violazione del principio della domanda con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dell’onere della prova con riferimento all’art. 2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo non abbia tenuto conto della domanda di risoluzione del preliminare, siccome formulata per inadempimento della controparte non all’obbligazione di stipulare il definitivo, unica presa in considerazione nell’impugnata sentenza pur senza domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo, posta con l’art. 4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente previsto che il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento anche di una sola rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di risolvere il contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto alcun conto;
che il giudice a quo abbia escluso l’inadempimento della controparte in relazione al pagamento del prezzo convenuto nonostante questa non avesse fornito dimostrazione alcuna di tale pagamento.
Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di motivazione sulle questioni sollevate con il motivo precedente.
Le riportate censure – che, per connessione, possono essere trattate congiuntamente – non meritano accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili d’omessa pronunzia e d’extrapetizione.
Quanto al primo profilo, per inammissibilità: dacché, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, l’omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev’essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 e non già in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Ciò che la ricorrente non ha fatto.
Può aggiungersi che, onde possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l’una o l’altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 c.p.c., ciò che configura un’ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità d’esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere d’indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781 SS.UU., 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).
Anche rispetto a tali oneri la ricorrente risulta inadempiente, donde un’ulteriore ragione d’inammissibilità della censura.
Quanto al secondo profilo, per infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate, le censure d’extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano rispondenza all’esame della sentenza impugnata.
Con la quale la causa petendi della riconvenzionale in risoluzione proposta dall’odierna ricorrente è stata correttamente individuata, nel fatto che ” O.E. con detto preliminare si era impegnato al pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non aveva provveduto al pagamento delle rate in cui era stato dilazionato il prezzo né al pagamento delle rate del mutuo accollato”, ma ne è stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando contrattualmente pattuita la stipulazione del definitivo nei dieci giorni dall’invito rivolto per lettera raccomandata dalla promittente venditrice al promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo, nessun inadempimento fosse imputabile al secondo “neanche in relazione al pagamento del prezzo convenuto”.
In siffatto se pur sintetico iter logico-argomentativo – evidentemente ispirato al principio per cui un inadempimento del promissario acquirente all’obbligazione di pagamento del prezzo non può ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori alla stipulazione del definitivo – sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori d’interpretazione del contratto preliminare e/o d’inappropriata applicazione del richiamato principio al caso di specie, peraltro neppure accennati con i motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti vizi d’extrapetizione e di connesso difetto di motivazione.
D’altra parte, la censura neppure presenta il requisito dell’autosufficienza, ed è pertanto inammissibile, dacchè non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità, cui non è consentito l’esame diretto dell’incarto processuale se non nelle ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in condizione di valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio.
2. – RICORSO INCIDENTALE. L’ O. – denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell’art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione – oltre a dolersi dell’inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso l’interversione della sua detenzione sull’immobile de quo in un possesso utile all’usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l’effetto dell’immissione nel possesso e non nella detenzione dell’immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d’interversione perchè ne avesse luogo l’usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva dall’immissione nel godimento dello stesso.
In tal senso svolgendo le proprie tesi, l’ O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo – che, come ricordato nell’ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente – la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte.
La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l’iter logico dell’adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, nè è subordinato all’esistenza della correlativa situazione giuridica, dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell’esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l’atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l’intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della signoria altrui).
Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto che assume d’essere possessore abbia ricevuto il godimento dell’immobile per effetto d’una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2.
Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale “per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all’elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l’animus possidendi (sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)”; che, tuttavia, proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l’applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto accessorio d’immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.
Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione, caratterizzando coerentemente la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un’anticipazione dell’effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso faccia seguito, conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza dell’immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale.
Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il prevedervi anche l’immediata consegna del bene verso la contestuale corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare “l’effetto traslativo del diritto” proprio del definitivo.
Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l’aspetto possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l’esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono.
In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l’appunto gli effetti reali traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa convenzione.
La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d’una prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per l’una e del denaro per l’altra ma ulteriori se ne possono agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch’esse nella loro molteplicità, in ragione delle quali – tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive – le parti stesse non hanno voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.
Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari – che è quella più interessata dal fenomeno – le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell’edificio od opere di completamento dell’edificio stesso o delle infrastrutture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l’interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l’acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest’ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita.
Dottrina e giurisprudenza, quando – sulla considerazione per cui la terminologia “promette di vendere o di acquistare” non è automaticamente indicativa d’una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell’intento di porre in essere un contratto definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto – affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l’identificazione del comune intento delle parti – diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell’art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all’insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un’ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l’adempimento dell’obbligazione del pagamento del prezzo – onde il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell’un senso piuttosto che nell’altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che, evidentemente, più non si porrebbe ove l’accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.
Viceversa, se l’accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un’indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo.
Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l’esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di per se stessi, incompatibili con l’intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente l’intento d’anticipare non gli effetti del contratto di compravendita – l’impegno alla cui futura stipulazione costituisce l’oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire – ma solo quelle prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l’oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250).
Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita – nel qual caso, d’altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d’un definitivo e non d’un preliminare – devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il possesso della res.
In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d’evidenziare – richiamando anche accreditata dottrina, per la quale “ciò che si trasferisce è solo l’oggetto del possesso, il quale, invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l’effetto di un negozio”, e, perciò, “l’acquisto a titolo derivativo del possesso è un’espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato” – dalla stessa nozione del possesso, definito dall’art. 1140 cod. civ. come “il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”, si evince ch’esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca l’esercizio, considerato che un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l’intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l’attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall’animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).
Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l’acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivativo possa parlarsi “soltanto per sottolineare che l’acquisto del possesso ha luogo con l’assenso e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell’apprensione”.
L’unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un’eccezione espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell’elaborata fictio legis, ha consentito la continuazione nell’erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall’apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto singolare ed eccezionale, l’istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.
Nè, a sostegno della tesi della possibilità d’una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi l’art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l’accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile, l’esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all’altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.
Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s’intende definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto dell’autonomia contrattuale che l’ordinamento riconosce ai privati, in ragione della sua liceità e della sua meritevolezza.
Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un’unica convenzione, degli elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni, non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti.
Pertanto, considerato che le parti, nell’esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell’ambito d’una delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell’esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti collegati.
I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne differenziano per non essere intesi alla realizzazione d’una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali tipici utilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d’essi autonomo e distinto caratterizzato dall’unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l’inserimento di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell’unico negozio risultantene.
Nell’una ipotesi come nell’altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto, nell’unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria dell’assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente confluiti nell’unica convenzione, cui, all’esame della volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità perseguita (teoria della prevalenza).
Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell’ipotesi del contratto complesso, i vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza dalla teoria della prevalenza, un’adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati.
La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto di stipulazioni coordinate, nell’intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall’agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell’un d’essi.
Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi.
Ond’è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali – quali l’unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) – ma nell’elemento sostanziale dell’unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il “contratto collegato” non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all’altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.
Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla categoria dei contratti collegati.
In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano altresì – e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo richiedano – dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico- sociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.
Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo un’autorevole opinione dottrinaria meritevole d’esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell’utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito.
Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti dall’art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un’intervenuta interversio possessionis.
Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta dev’essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l’intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell’opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un’ordinaria ipotesi d’inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti d’esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
Al qual riguardo l’ O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di motivazione, di non aver desunto dalle emergenze istruttorie quegli evidenti elementi costitutivi della fattispecie ch’egli ritiene vi fossero adeguatamente rappresentati.
La censura non merita accoglimento.
Per costante insegnamento di questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev’essere inteso a far valere, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli e-lementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quello di cui trattasi – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Nè, com’è del pari da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, rientrando nel suo potere discrezionale, a norma dell’art. 116 c.p.c., individuare le fonti del proprio convincimento, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che questo, una volta raggiunto, risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.
Nella specie, non solo il motivo, già non inteso a censurare la rado decidendi ma a prospettare una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni consentite al giudice di legittimità, è per ciò solo inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all’assunta decisione risulta logica e sufficiente, basata com’è su argomentazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio presi in considerazione e su razionali valutazioni di essi;
un giudizio operato, pertanto, nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.
Con il secondo motivo, il ricorrente – denunziando violazione dell’art. 102 c.p.c. – si duole che il giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del preliminare si sia svolto a contraddittorio non integro, in quanto il contratto in discussione era stato stipulato anche da suo fratello Ettore, rimasto estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d’ufficio dal giudice a quo.
La doglianza va disattesa, in quanto l’ O., totalmente vittorioso sul punto essendo stata respinta l’avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in appello, difetta d’interesse ad impugnare per cassazione al riguardo se non condizionatamente all’accoglimento del ricorso di controparte, condizione che, come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata.
3. – CONCLUSIONI. Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi vanno, dunque, respinti.
Tale esito del giudizio di legittimità giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio stesso.
PQM
LA CORTE Decidendo a Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscritti al R.G. con i numeri 13911/03 e 13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 maggio 2007.
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Numero Protocolo Interno : 710/2008