ISSN 2385-1376
Testo massima
In relazione al contratto preliminare ad effetti anticipati (o preliminare improprio), nel quale le parti, nell’assumere l’obbligo della prestazione del consenso al contratto definitivo, convengono l’anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti dal contratto, quale la consegna immediata del bene al promissario acquirente, con o senza corrispettivo, la disponibilità del bene ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo l’altruità della cosa.
Al fine di escludere la natura traslativa della scrittura; lo stabilire se le parti abbiano inteso stipulare un contratto definitivo o dar vita ad un contratto preliminare di compravendita, rimettendo l’effetto traslativo ad una successiva manifestazione di consenso, costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed esente da vizi logici o da errori giuridici, e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale, dettate dall’art. 1362 c.c., e segg.
Questi i principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n.12634 del 09.06.2011.
La pronuncia si pone esattamente nel solco tracciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n.7930 del 27.03.2008, il cui testo integrale e la relativa massima sono stati già pubblicati su questa rivista.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 28354/2005 proposto da:
Q.M. (C.F. (OMISSIS)), M.R. (C.F. (OMISSIS));
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO N. (OMISSIS) ALFA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS));
P.M. (c.f. (OMISSIS));
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 291/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/01/2005;
Svolgimento del processo
Q.M. e M.R. proponevano appello nei confronti del Fallimento della ALFA SRL e del notaio P. M., avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 9/15 maggio 2001, che, in accoglimento della domanda proposta dal Fallimento nei confronti dei convenuti L. Fall., ex art. 67, comma 1, n. 1, aveva revocato il contratto, stipulato con atto notarile del 29/12/1993, di vendita a Q. e M. della proprietà dell’unità immobiliare sita in (OMISSIS), in attuazione del preliminare del 10/10/1978, con cui era stata compromessa in vendita la proprietà per il prezzo di L. 50.500.000, figurante nell’atto definitivo, attesa la notevole sproporzione tra il valore dell’immobile, stimato dal C.T.U. in L. 144 milioni all’epoca del definitivo, ed il prezzo, anche a ritenere quello di L. 81.824.000 indicato dai convenuti, e per l’effetto ordinato ai convenuti l’immediata restituzione dell’immobile al Fallimento, libero da persone e cose, rigettando nel resto la domanda del Fallimento di risarcimento del danno, nonchè la domanda svolta da M. e Q. con l’atto di chiamata in causa nei confronti del notaio P.M., per essere tenuti indenni dall’esito del giudizio revocatorio, e disposto, ex art. 295 c.p.c., la sospensione del processo in relazione alle altre domande dei chiamanti in causa verso il notaio per mancata individuazione dell’iscrizione ipotecaria a favore del comune di (OMISSIS).
La Corte d’appello ha ritenuto non condivisibile la tesi degli appellanti principali, secondo cui la non revocabilità della compravendita deriverebbe dalla considerazione che il contratto di cui alla scrittura privata del 10/10/1978, al di là del nomen iuris di preliminare di compravendita, in realtà costituiva già una vendita perfetta, rispetto a cui il rogito del 29/12/1993 adempiva alla sola funzione di formalizzazione in atto pubblico, essendo stato già corrisposto l’intero prezzo ed essendo avvenuta la consegna dell’immobile precedentemente all’atto notarile, alla stregua dell’esame della scrittura privata, che dimostrava il contenuto obbligatorio del contratto, non incidendo su detta natura il versamento nel corso del tempo del prezzo promesso, nè la consegna detentiva della porzione immobiliare compromessa.
La Corte ha ritenuto parimenti infondata la tesi degli appellanti, secondo cui le circostanze obiettive SN dimostravano la inscientia decoctionis, atteso che la mera sussistenza di ipoteca giudiziale (gravante sul complesso immobiliare per L. 450 milioni a favore del Comune, circostanza non nota per la colpa del notaio rogante) non costituiva di per sè elemento rivelatore dello stato di decozione, atteso che gli acquirenti, che acquistavano pressochè per la metà l’immobile, avrebbero dovuto eseguire un’ indagine concreta sulla reale situazione dell’impresa, che, se effettuata con esito favorevole, avrebbe potuto costituire elemento favorevole, al fine di vincere la presunzione di legge.
La Corte del merito ha rigettato l’appello incidentale del Fallimento, inteso al conseguimento del ristoro per l’uso sine titulo del bene, in quanto la richiesta era stata subordinata alla mancata conferma della sentenza di primo grado, ed ha altresì respinto la domanda di manleva degli appellanti verso il notaio P., dichiarando infine inammissibili le domande del notaio, aventi la valenza di appello incidentale, di declaratoria di esenzione da colpa professionale e di responsabilità, anche in relazione alla domanda risarcitoria, per la quale il primo giudice aveva disposto la sospensione necessaria del processo, e di conseguimento delle spese di lite del primo grado del giudizio, non rifuse neppure in relazione al capo di sentenza definitivo di rigetto della domanda di manleva.
Propongono ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi Q. e M.; resistono con controricorso il Fallimento ed il notaio P..
Il Fallimento ed il notaio P. hanno depositato le memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1.1- Con il primo motivo, i ricorrenti prospettano la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 2, convertito in L. n. 80 del 2005, che ha novellato L. Fall., art. 67, comma 3, nonchè del D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 10, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui escludono dall’applicazione della norma i giudizi di revoca pendenti alla data della loro entrata in vigore.
Sostengono i ricorrenti che con l’applicazione della L. n. 35 del 2005, convertito nella L. n. 80 del 2005, ed ancor di più del D.Lgs. n. 122 del 2005, il quadro normativo di riferimento della fattispecie di cui è causa è oggi radicalmente mutato, con la conseguenza che l’atto di vendita di cui si discute oggi non sarebbe più revocabile, sicché, posta la natura penal-pubblicistica degli istituti fallimentari, deve chiedersi se la nuova disciplina non debba applicarsi estensivamente anche ai giudizi in corso. Le nuove disposizioni non tutelano solo l’acquirente in buona fede ma in ipotesi anche l’acquirente a conoscenza dello stato di insolvenza del venditore, purchè l’acquisto sia avvenuto al giusto prezzo, posto che il prezzo incassato dal fallito in luogo dell’immobile ben difficilmente sarà rinvenuto nell’attivo fallimentare; quanto al generico riferimento al “giusto prezzo”, lo stesso andrebbe riferito alla disciplina dell’accertamento delle imposte indirette, che esclude un accertamento di valore quando il prezzo dichiarato nell’atto di vendita sia pari o superiore al valore catastale (rendita rivalutata), ovvero anche, così come poi di fatto avvenuto con il D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 10, in riferimento all’epoca di conclusione del contratto preliminare. Secondo i ricorrenti, pertanto, la conseguente disparità di trattamento normativo rispetto al contenzioso tuttora pendente, al quale non trova applicazione la nuova normativa, è palese ed ingiustificata, di talché non manifestamente infondata e rilevante per la decisione appare la questione di legittimità costituzionale, posta con riferimento all’art. 3 Cost..
Secondo i ricorrenti, la disposizione di cui al D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 10, che appresta una tutela se possibile ancora più intensa per l’acquirente di immobili da costruire e che precisa il concetto di giusto prezzo introdotto dalla L. n. 35 del 2005 nel testo novellato dalla L. Fall., art. 67, rapportandolo alla data del preliminare, deve trovare applicazione anche nei giudizi in corso, pena un’ingiustificata diversità di trattamento di situazioni identiche, per cui, ove ritenuta l’applicabilità solo per gli atti aventi ad oggetto immobili ancora da costruire, dovrebbe concludersi per l’illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 3 Cost..
1.2.- Con il secondo motivo, i ricorrenti fanno valere la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., nonchè l’assoluta carenza di motivazione su punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in riferimento alla qualifica di c.d.
“contratto preliminare di vendita improprio” della scrittura privata solo in data 10 ottobre 1978.
Secondo i ricorrenti, il Tribunale ha assunto la data del rogito notarile quale parametro temporale di riferimento per valutare la congruità del prezzo riportato nell’atto di vendita, omettendo di considerare che nella fattispecie in esame la vendita era intervenuta nel 1978; la natura preliminare o definitiva di un contratto non dipende dal nomen iuris ovvero dall’espressione letterale utilizzata dai contraenti, ma dalla loro effettiva volontà e deve essere ricercata dall’interprete; nel caso si è davanti ad un c.d. contratto preliminare improprio, sussistevano tutti gli effetti essenziali principali della vendita, dalla consegna al pagamento del prezzo prima del rogito notarile, ed in tale contesto, la riproduzione in forma pubblica della già intervenuta vendita costituiva una mera prestazione accessoria, ininfluente ai fini della già intervenuta integrale esecuzione del contratto.
I ricorrenti, quali circostanze sintomatiche della natura definitiva della vendita del 1978 e della natura meramente riproduttiva ai fini della trascrizione del rogito del 1993, richiamano e fanno valere l’allegazione a quest’ultimo del medesimo preliminare, e quindi l’indicazione nell’atto pubblico dello stesso prezzo pagato di L. 50.500.000, nonchè il tenore delle clausole sub 11) e 12) del preliminare, alla cui stregua l’eventuale ritardo nella consegna, fissata per il 13 ottobre 1978, non avrebbe implicato la risoluzione del contratto, che era dunque definitivo tra le parti, nè proprio per questo alcun risarcimento (art. 11, commi 1 e 2), ed altresì gli oneri o le rendite dell’immobile sarebbero state rispettivamente a carico ed a vantaggio dell’acquirente dal giorno stesso della consegna.
Inoltre, gli acquirenti si erano trasferiti nell’immobile, stabilendo ivi la residenza familiare dal 1978 ed avevano effettuato numerose opere di manutenzione, miglioria e ristrutturazione.
Ne consegue, in tesi dei ricorrenti, che si deve rapportare la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti dell’azione revocatoria alla data della scrittura del 1978: il prezzo del bene pagato dagli acquirenti, lievitato oltretutto per effetto degli interessi compensativi sulla dilazione rateale sino al complessivo importo di L. 71.324.000 al netto delle migliorie eseguite, era assolutamente congruo rispetto al valore di mercato dell’epoca, anche perchè il ritardo nella stipula dell’atto pubblico non è in alcun modo imputabile agli acquirenti, che l’avevano reiteratamente sollecitata nei confronti della società venditrice.
1.3.- Con il terzo motivo, i ricorrenti fanno valere violazione e/o falsa applicazione della L. Fall., art. 67, nonchè assoluta carenza di motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento alla inscientia decoctionis.
La prova di detta inscientia, secondo i ricorrenti, consiste essenzialmente nella mancanza di trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, trattasi di accertamento di esclusiva competenza del notaio richiesto della stipula di un contratto di compravendita immobiliare,quale attività accessoria e successiva necessaria per il conseguimento del risultato voluto dalla parte, allo scopo di individuare esattamente il bene, verificarne la libertà, la cui inosservanza è fonte di responsabilità del professionista.
Le parti inoltre riponevano nel notaio ogni affidamento del buon esito dell’atto.
1.4.- Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., nonchè assoluta carenza di motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento alla responsabilità del notaio, chiamato in garanzia per il danno conseguente alla revoca.
Secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata è priva di ogni motivazione con riguardo al profilo della responsabilità professionale; il notaio è tenuto alla preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene ed all’informativa al cliente sul suo esito, nell’ipotesi di constatazione di iscrizioni pregiudizievoli, deve dissuadere il cliente della stipula dell’atto, nè può invocare la limitazione di responsabilità prevista per il professionista dall’art. 2236 c.c., con riferimento al caso di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, in quanto tale inosservanza non è riconducibile ad imperizia, ma a negligenza o imprudenza, cioè alla violazione del dovere di media diligenza esigibile, ex art. 1176 c.c., comma 2, rispetto a cui rileva anche la colpa lieve; non rilevano le contrarie obiezioni del notaio, in relazione alla pretesa nullità ed inefficacia della iscrizione di ipoteca, nè sul momento di produzione dell’evento dannoso.
2.1.- Quanto al primo motivo, respinta rapidamente la prospettazione di applicazione “estensiva” delle disposizioni indicate, per il rilievo che non si tratterebbe di interpretazione, ma, ancor prima, di applicazione in violazione del principio di irretroattività delle leggi di cui all’art. 11 preleggi, trattandosi di disposizione di legge sostanziale e non processuale, avuto riguardo all’eccezione sollevata in riferimento al D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 2, convertito con modificazioni, nella L. n. 80 del 2005, vale il riferimento alla sentenza di questa Corte, n. 5962 del 2008, che, pronunciandosi sulle disposizioni di cui ai nn. a) e b) dell’art. 67, ha riscontrato la manifesta infondatezza dell’eccezione di costituzionalità, atteso che la disciplina diversa non riguarda situazioni identiche, perchè l’identità va considerata non solo in relazione alla contemporaneità degli atti revocandi, ma anche in base alle diverse regole vigenti all’atto di ciascuna dichiarazione, ciò giustificando la disciplina della procedura concorsuale successiva sulla base di una mutata normativa in coerenza con la successione delle leggi e la conseguente irretroattività della nuova norma; vedi anche le pronunce n. 20834 del 2010 e n. 6192 del 2008.
L’eccezione di costituzionalità, a tacere da ogni ulteriore rilievo, è palesemente irrilevante in relazione al D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 10, per riferirsi tale normativa ad immobili da costruire, mentre, nel caso in oggetto, l’immobile era già edificato alla data della compravendita.
2.2.- Il secondo motivo, oltre che a prestare il fianco al rilievo della carenza di autosufficienza, per la mancata riproposizione delle clausole sub nn. 11 e 12 del preliminare, a cui la parte fa riferimento alle pagine 18 e 19 del ricorso, è comunque infondato.
La Corte d’appello ha valutato che la scrittura privata del 1978, alla stregua delle pattuizioni ivi previste, aveva contenuto meramente obbligatorio e non reale, e quindi mancava la volontà delle parti di trasferire la proprietà dell’immobile, al di là del pagamento del prezzo, avvenuto peraltro con accollo di mutuo e non per contanti, e quindi avvenuto nel corso del tempo, e della consegna detentiva del bene.
Tale accertamento deve ritenersi sufficiente, al fine di escludere la natura traslativa della scrittura; com’è noto, lo stabilire se le parti abbiano inteso stipulare un contratto definitivo o dar vita ad un contratto preliminare di compravendita, rimettendo l’effetto traslativo ad una successiva manifestazione di consenso, costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed esente da vizi logici o da errori giuridici, e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale, dettate dall’art. 1362 c.c., e segg. (vedi Cass. 564/2001); nel caso, la Corte territoriale ha dato congrua motivazione della valutazione effettuata.
Quanto al profilo della violazione di legge, prospettato con riferimento all’art. 1362 c.c., nella determinazione della comune intenzione delle parti e nella valutazione anche del comportamento complessivo posteriore al contratto, va rilevato altresì che i ricorrenti intendono prospettare l’effetto traslativo ex se del c.d. contratto preliminare improprio: tale premessa non trova il conforto della giurisprudenza del S.C., che, in relazione al contratto preliminare ad effetti anticipati (o preliminare improprio), nel quale le parti, nell’assumere l’obbligo della prestazione del consenso al contratto definitivo, convengono l’anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti dal contratto, quale la consegna immediata del bene al promissario acquirente, con o senza corrispettivo, ritiene che la disponibilità del bene ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo l’altruità della cosa (così Cass. 8796/2000, 10469/2001, 13368/2005, 24290/2006, S.U. 7930/2008, 1296/2010).
Da ciò consegue che neppure in tesi, dalla prospettazione dei ricorrenti della sussistenza nel caso di contratto ad effetti anticipati (c.d. preliminare improprio), potrebbe derivare la valutazione della congruità del prezzo alla data della scrittura del 1978, in quanto comunque non avente effetto traslativo, secondo l’orientamento dominante della giurisprudenza.
2.3.- Anche il terzo motivo è infondato.
Ed invero, non è riscontrabile la carenza di motivazione, di cui si dolgono i ricorrenti, avendo la Corte del merito non soltanto escluso che potesse costituire elemento rivelatore dello stato di decozione la mera sussistenza di ipoteca giudiziale, ma altresì argomentato in relazione all’onere probatorio gravante sugli acquirenti, al fine di vincere la presunzione relativa di conoscenza dello stato di insolvenza della società venditrice.
Nè potrebbe sostenersi che nel caso di vendita immobiliare tale prova debba consistere anzitutto nella mancanza di trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, spettando al Giudice del merito l’apprezzamento degli elementi presuntivi idonei (sul principio, vedi Cass. 18998/2004 e 6864/2004), ed inoltre, è stato affermato che l’onere della prova del convenuto in revocatoria ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1, non ha contenuto meramente negativo, e non può essere assolto con la mera dimostrazione dell’assenza di circostanze idonee ad evidenziare lo stato di insolvenza, essendo necessaria la positiva dimostrazione della sussistenza, alla data dell’atto revocabile, di circostanze tali da far ritenere ad una persona di ordinaria prudenza, che l’imprenditore si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (così Cass. 12560/04 e 6864/04).
2.4.- Il quarto motivo, inteso a censurare la sentenza della Corte territoriale perchè resa in violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., e perchè priva di motivazione sul punto della responsabilità del notaio, va disatteso.
A riguardo, a prescindere dalla valutazione della preclusione da giudicato in forza della sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 3812/2010, in data 28/9/2010, prodotta dalla difesa del P. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c. (e secondo la recentissima sentenza di questa Corte, n. 26041 del 2010, la produzione del documento attestante la formazione del giudicato va ricondotta alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso, ex art. 372 c.p.c.), sentenza peraltro priva dell’attestazione del passaggio in giudicato, le argomentazioni addotte non colgono nel segno il proprium della decisione della Corte del merito, che ha eliso il nesso causale tra il comportamento del notaio e la fattispecie della revocatoria, così rimanendo assorbita ogni questione sulla prospettazione della responsabilità del professionista.
3.1.- Conclusivamente, il ricorso va respinto. Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rifondere al Fallimento ALFA s.r.l. in liquidazione ed al notaio P. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1800,00, oltre Euro 200,00 per spese, oltre spese generali, ed accessori di legge, a favore di ciascuna di dette parti.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 711/2011