ISSN 2385-1376
Testo massima
Con la sentenza n. 11775, resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione in data 15 Maggio 2013, è stata definita in modo eloquente la controversa questione relativa all’individuazione del momento da cui decorre il termine prescrizionale previsto dal legislatore per l’esperimento dell’azione civile di risarcimento del danno conseguente a fatto illecito.
Gli ermellini, in seduta plenaria, hanno enunciato in proposito il principio di diritto del seguente tenore:
“l’art.2947 terzo comma, cc, il quale, in ipotesi di fatto dannoso considerato dalla legge come reato,stabilisce che, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione, od è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (cinque anni e due anni), con decorso dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, si riferisce alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento. Pertanto, qualora la prescrizione sia uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, resta inoperante la suddetta norma e il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione fissata dai due primi commi dell’art.2947 cc, con decorrenza dal giorno del fatto”.
Era accaduto, nel caso di specie, che P.V., preside di un istituto scolastico, nel 1992 avesse inviato al Provveditorato agli Studi di Roma una relazione, utilizzando espressioni diffamatorie nei confronti di un insegnante di matematica (tale L.C.), che prestava servizio come docente presso lo stesso istituto.
A seguito di querela presentata da quest’ultimo, il P.V. veniva condannato, con sentenza divenuta definitiva il 17 Gennaio 2000, per il reato di cui all’art.595 cp.
L’insegnante, dopo la pronuncia di condanna, nel giugno del 2001 aveva adito il Magistrato civile per ivi sentir accogliere le sue ragioni in merito al presunto spettante risarcimento dei danni da reato.
In primo grado otteneva una sentenza favorevole, ma in appello la Corte territoriale riformava la sentenza, accogliendo l’eccezione di prescrizione dell’azione sollevata dal Preside, secondo cui, essendo identico il termine prescrizionale civile e quello del reato di diffamazione, doveva applicarsi, alla luce del combinato disposto di cui agli articoli 2947 cc, primo comma, e 157, n.4, cp, il termine prescrizionale di cinque anni con decorrenza dal giorno del fatto.
Perdendo in appello, L.C. si rivolgeva alla Suprema Corte, denunciando la falsa applicazione dell’art.2947 cc rispetto all’art.157 cp, essendo intervenuta una modifica legislativa di quest’ultimo articolo (l. 251 del 2005), fornendo così al Giudice della nomofilachia l’occasione di pronunciarsi in merito, chiarendo definitivamente l’interpretazione da dare all’art.2947 cc in relazione sia all’annosa questione del dies a quo del termine prescrizionale, che alla possibile successione di leggi intervenuta.
Da tale arresto deriva, infatti, anche la chiara posizione della Corte in ordine al problema della successione di leggi e della sua portata nell’argomento in esame, chiarendo che sarebbe stato possibile applicare l’art.157 cp, nuova formulazione, alla fattispecie concreta, come invocato dal ricorrente principale, con conseguente innalzamento della prescrizione del reato a 6 anni e conseguentemente il decorso della stessa per l’azione civile a partire dal passaggio in giudicato della sentenza penale, solo se l’innovazione legislativa fosse intervenuta durante il processo penale.
Quest’ultimo invece si era concluso nel 2000, quindi molto prima dell’entrata in vigore della legge 251 del 2005, a nulla comportando la costanza del processo civile in quel momento storico.
Testo del provvedimento
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