ISSN 2385-1376
Testo massima
In materia di onere della prova relativo alla violazione del trattamento dei dati personali di cui all’art. 15 Codice sulla privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), “spetta ai correntisti provare il fatto generatore del possesso altrui”.
Così si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, Pres. Rel. Bernabai, con la sentenza n. 2306 del 5 febbraio 2016.
I clienti di un istituto di credito agivano in giudizio in danno della banca per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, da illegittima comunicazione, da parte della stessa di dati riservati, riguardanti il conto corrente bancario cointestato, la cui documentazione era stata prodotta nel processo promosso da un terzo nei confronti dei propri genitori (uno dei quali correntista) per ottenere un assegno alimentare.
In particolare i ricorrenti hanno sostenuto che, una volta accertato che la documentazione riservata proveniva dall’istituto di credito, sarebbe stata raggiunta la prova, in re ipsa, dell’elemento soggettivo della sua responsabilità, ritenendo erroneamente che fosse sufficiente il possesso del documento da parte di un terzo per esonerarli da qualsiasi altro onere probatorio.
La Corte di Cassazione, nel ritenere infondato l’assunto attoreo, ha chiarito che, al fine di dimostrare l’illegittima diffusione dei dati personali da parte della Banca, spetta ai correntisti provare il fatto generatore del danno, per cui occorreva la positiva dimostrazione che la documentazione personale fosse stata consegnata a persone diverse dagli aventi diritto: con esclusione, quindi, della possibilità che l’acquisizione illegittima, da parte di terzi, non fosse avvenuta, invece, in una fase temporale successiva e al di fuori della sfera di controllo della banca.
Al riguardo, l’art. 15 del Codice della privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196) prescrive: “Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile”.
A nulla rileva, quindi, la richiesta d’ufficio ex art. 213 c.p.c. svolta dai ricorrenti, atteso che su di loro grava l’onere di dimostrare l’evento dannoso ed il nesso di causalità tra fatto illecito ed evento; mentre l’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 2050 c.c. (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose), richiamato dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, a carico della BANCA, si fonda esclusivamente sulla dimostrazione positiva di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Dunque, la presunzione iuris tantum riguarda l’elemento psicologico della colpa; non certo, del fatto illecito, né del nesso eziologico tra fatto ed evento.
Ne consegue che, in base a quanto prescritto dal citato art. 15, chi ritiene di essere stato leso a seguito dell’attività di trattamento dei dati personali che lo riguardano può ottenere il risarcimento dei danni senza dover provare la “colpa” del titolare che ha trattato i suoi dati. Resta però sempre a carico dell’interessato l’onere di provare eventuali danni derivanti dal trattamento dei dati secondo le regole ordinarie.
La ratio è quella di evitare il rischio che vengano attivati giudizi per qualunque tipologia di mancato rispetto della normativa in oggetto indipendentemente dal verificarsi di un concreto pregiudizio.
Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso confermando la decisione di primo grado solo con una riduzione delle spese legali.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 118/2016