ISSN 2385-1376
Testo massima
La valutazione condotta dal Giudice del merito sulla scorta della consulenza tecnica d’ufficio circa la sufficienza delle scritture di comparazione utilizzate ai fini della formulazione del giudizio di autenticità del documento costituisce apprezzamento di fatto rimesso alla competenza esclusiva del medesimo, non sindacabile dinanzi al Giudice di legittimità.
Invero, quando il Giudice del merito aderisce alle conclusioni del consulente tecnico, che nella relazione abbia tenuto conto (replicandovi) ai rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del proprio convincimento.
In tal caso non è necessario che il giudice si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili con le conclusioni tratte.
La Corte di cassazione con sentenza n. 23450 ha precisato i limiti del sindacato del Giudice rispetto ad una valutazione di merito effettuata dal Giudice di prime cure, decisione conforme a precedente pronuncia della Corte (sentenza n. 282/2009).
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.C.;
RICORRENTE
contro
S.C.,;
CONTRORICORRENTE – RICORRENTE INCIDENTALE
e S.M. e S.I.;
INTIMATE
avverso la sentenza n. 806 della Corte di appello di Palermo, depositata il 9 giugno 2005;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 1988 F.R., premesso che in data (OMISSIS) era morto A.A., suo parente in quarto grado, e che l’8 giugno dello stesso anno erano stati pubblicati due testamenti olografi datati 25 dicembre 1979 e 20 marzo 1980 con cui il de cuius aveva nominato le sorelle S.M., M., C. e I., convenne queste ultime dinanzi al Tribunale Palermo chiedendo che fosse accertata la nullità dei due testamenti in quanto apocrifi o, in subordine che essi fossero annullati per incapacità naturale del testatore o perchè effetto di captazione nei suoi confronti, con condanna delle convenute alla restituzione dei beni ereditari ed al rimborso dei frutti percepiti.
Le S. si costituirono in giudizio opponendosi alla domanda.
Con sentenza non definitiva del 1993 il Tribunale dichiarò la nullità dei testamenti, rilevando che a seguito del loro disconoscimento ad opera dell’attrice le convenute non ne avevano chiesto la verificazione; condannò pertanto le S. alla restituzione dei beni ereditari e, con separata ordinanza, dispose la prosecuzione del giudizio per l’istruzione della causa relativa alla domanda di rimborso dei frutti.
Con successiva sentenza definitiva del 1997 condannò quindi le convenute al pagamento della somma di lire 539.343.512.
Interposto gravame da parte di S.M., C. e I., in proprio e quali eredi di Sc. Ma., nel frattempo deceduta, con sentenza n. 806 del 9 giugno 2005 la Corte di appello di Palermo riformò integralmente le pronunce di primo grado, rigettando tutte le domande proposte dalla F.. La Corte palermitana motivò la sua decisione affermando:
a) che l’appello era ammissibile, avendo le parti appellanti fatto tempestiva riserva di gravame dinanzi al giudice istruttore e dovendo la sentenza del 1993 considerarsi, diversamente da quanto sostenuto dall’appellata, non definitiva, avendo essa deciso solo alcune delle domande avanzate in giudizio domande e disposto la prosecuzione del processo per l’istruzione e la decisione delle altre domande, senza pronunciare alcuna statuizione sulle spese di lite;
b) che l’istanza di verificazione delle schede testamentarie avanzate dalle appellanti con il proprio atto di appello era risultata fondata alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che aveva accertato l’autenticità dei testamenti impugnati e che era stata correttamente condotta utilizzando scritture di comparazione originali ed autentiche e non semplici fotocopie;
c) che infondata era la domanda di annullamento per incapacità naturale o per dolo subito dal testatore, avendo le dichiarazioni rese da alcuni testi, da ritenere più attendibili rispetto a quelli introdotti dall’attrice, in quanto suoi prossimi congiunti, avevano evidenziato che il de cuius era in grado di occuparsi pienamente dei propri affari e non risultando per contro provato che egli, al momento della redazione dei testamenti, fosse in stato di incapacità di intendere e di volere, mentre del tutto sfornita di allegazione e di prova era rimasta la tesi che tali atti fossero stati determinati per captazione.
C.C., qualificatasi erede di F.R., ricorre per la cassazione di questa decisione con atto notificato il 21 luglio 2006, affidandosi a otto motivi.
S.C. resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale, sulla base di due motivi, a cui la ricorrente in via principale ha replicato con controricorso.
S.M. e S.I. non hanno svolto attività difensiva.
S.C. ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art.335 cpc, in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
Preliminarmente va quindi esaminata l’eccezione sollevata dalla controricorrente di inammissibilità del ricorso principale per difetto di legittimazione processuale della C., per non avere ella provato la propria qualità di erede.
L’eccezione non ha pregio, dovendosi ritenere che i documenti prodotti dalla parte insieme al ricorso – produzione consentita, ai sensi dell’art. 372 cpc, proprio in quanto volta a dimostrare la ammissibilità del ricorso – attestino in maniera sufficiente la dedotta qualità di erede, avendo la parte depositato a tal fine il proprio atto di nascita, attestate il suo rapporto di filiazione con F.R., il certificato di morte di quest’ultima, nonchè una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui si dichiara unica figlia e unica erede della parte defunta.
Passando all’esame del ricorso principale avanzato dalla C., il PRIMO motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 279 e 327 cpc, assumendo che la Corte palermitana ha errato nel ritenere che la sentenza del Tribunale di Palermo del 1993 fosse non definitiva, atteso che essa aveva pronunciato su domande autonome della parte, sia sul piano sostanziale che processuale, con l’effetto che la riserva di appello fatta dalla parte era inefficace e che l’appello contro di essa proposto avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, in quanto avanzato oltre il termine lungo di impugnazione.
Il motivo è infondato.
Nel respingere la relativa eccezione il giudice di merito ha fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui la sentenza che pronuncia su alcune delle domande proposte e rinvia al prosieguo dell’istruttoria per la decisione sulle rimanenti domande delle parti, senza disporre la separazione tra le cause e senza pronunciare sulle spese, ha natura di sentenza non definitiva, suscettibile, come tale, di impugnazione differita (Cass. S.U. n. 9442 del 2011; Cass. n. 22440 del 2010; Cass. n. 4618 del 2007).
Alla medesima conclusione, nel senso dell’ammissibilità dell’appello proposto dalle S., porta inoltre l’applicazione, nel caso di specie, del principio, pure elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte, della c.d. apparenza processuale, in forza del quale l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va fatta in base alla qualificazione data dal giudice, con il provvedimento impugnato, all’azione proposta, alla controversia e alla sua decisione, a prescindere dalla sua esattezza (Cass. n. 3348 del 2005; Cass. n. 3288 del 2006), tenuto conto che la sentenza del Tribunale di Palermo del 1993 era stata qualificata non definitiva dallo stesso giudicante.
Il SECONDO motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt.214, 215, 216 e 217 cpc, e degli artt.342 e 345 cpc, assumendo che la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’istanza di verificazione in quanto avanzata dalla controparte solo con l’atto di appello, in spregio del divieto posto dall’art.345 cpc, che non consente in appello la produzione di nuovi mezzi di prova.
Anche questo mezzo è infondato.
Occorre precisare che la censura muove da una premessa di diritto errata, che vale a dire nel giudizio di secondo grado svoltosi tra le parti trovasse applicazione la disposizione di cui all’art.345 cpc, nella sua attuale formulazione, introdotta dalla L. 26 novembre 1990, n.353, art.52, a decorrere dalla data del 30 aprile 1995, laddove invece, essendo il giudizio stato introdotto nel 1988, era applicabile l’art. 345 nella versione precedente, che ammetteva senza limitazioni la produzione nel giudizio di appello di nuovi mezzi di prova.
Tanto precisato, la soluzione fornita dalla Corte distrettuale in favore dell’ammissibilità dell’istanza di verificazione appare condivisibile, essendo conforme all’orientamento consolidato di questa Corte, da cui non sono state dedotte ragioni per discostarsi, che consentiva, nella vigenza dell’art. 345 ante riforma del 1990, la proposizione dell’istanza di verificazione per la prima volta in appello (Cass. n. 5265 del 1991; Cass. n. 3183 del 1982; Cass. n. 4866 del 1978; Cass. S.U. n. 2112 del 1965), orientamento che, come emerge dalla motivazione adottata dal nuovo indirizzo, è mutato proprio in ragione della citata riforma dell’art. 345 da parte dalla L. n. 353 del 1990 (Cass. n. 2411 del 2005; Cass. n. 19067 del 2006).
Tale soluzione appare condivisibile alla luce della disciplina processuale precedente, che, come detto, riconosceva alle parti la possibilità di introdurre in appello nuovi mezzi di prova, una volta considerato che, come riconosciuto dallo stesso ricorso, il procedimento di verificazione proposto in via incidentale si risolve in un mero incidente istruttorio volto a rendere il documento utilizzabile come prova e quindi non costituisce esercizio di un autonomo potere d’azione, ma si inquadra nell’ambito dell’attività istruttoria delle parti e più precisamente del potere processuale di produrre documenti, rispetto al quale ha carattere e finalità strumentali.
Il TERZO motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt.214, 215, 216 e 217 cpc, e artt.2701 e 2719 cc, assumendo che il giudice di appello non avrebbe potuto fondare la sua decisione sulla consulenza tecnica d’ufficio grafologica, atteso che essa aveva utilizzato come scritture di comparazione i documenti prodotti dalle appellanti che erano la fotocopia di scritture private e che erano state contestate dall’appellata circa la loro conformità all’originale.
Tale inutilizzabilità, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto essere estesa anche agli atti pubblici originali che contenevano la firma del de cuius (patente di guida, licenza di porto d’armi, richiesta di autorizzazione all’autorità di pubblica sicurezza, verbale di polizia giudiziaria, procura alle liti) di cui non vi era alcuna prova della loro effettiva autenticità. Risulta pertanto violata la regola posta dall’art. 217 c.p.c., comma 2, che impone al giudice, nel determinare le scritture che debbono servire per la comparazione, di ammettere solo quelle la cui provenienza, in mancanza di accordo delle parti, sia riconosciuta oppure accertata per sentenza o per atto pubblico.
La Corte non ha inoltre preso in considerazione la circostanza che solo al momento delle operazione peritali alcune copie erano state sostituite con gli originali.
Il mezzo è infondato.
Occorre premettere che la sentenza impugnata, nel considerare l’utilizzabilità delle scritture di comparazione valutate dal consulente tecnico d’ufficio, ha espressamente precisato che ” delle scritture di comparazione prodotte dagli appellanti ben otto sono in originale ed autenticate (pag. 8 della relazione) – più che sufficienti quindi per un giudizio scrupoloso”.
Tanto precisato, le argomentazioni del ricorso per addurre a sospetto gli atti pubblici utilizzati ai fini dell’accertamento dell’autenticità dei testamenti impugnati appaiono non solo confuse ma anche infondate, tenuto conto dell’efficacia fidefacente che la legge riconosce agli atti pubblici (art. 2700 cc). Deve inoltre considerarsi non sindacabile, in quanto apprezzamento di fatto rimesso alla competenza esclusiva del giudice di merito, la valutazione condotta dal giudicante sulla scorta della consulenza tecnica d’ufficio circa la sufficienza delle scritture di comparazione utilizzate ai fini della formulazione del giudizio sull’autenticità del documento.
Infondata appare infine anche la doglianza relativa alla nullità della consulenza tecnica d’ufficio per avere il consulente utilizzato atti pubblici prodotti dalla controparte solo in sede di operazioni peritali in sostituzione delle copie in precedenza prodotte, non risultando il fatto dedotto di per sè causa di nullità dell’elaborato peritale, in mancanza di deduzione circa gli effetti che esso avrebbe prodotto sul principio del contraddittorio.
Il QUARTO motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 132, 157, 214, 215, 216 e 217 cpc, e artt.2701 e 2719 cc, censurando la sentenza impugnata per non avere dichiarato nulla o inammissibile la consulenza tecnica in ragione del fatto che le appellanti non avevano prodotto le scritture di comparazione in originale, e per avere affidato al consulente accertamenti e valutazioni giuridiche o di merito.
Il mezzo è in parte inammissibile, per la genericità delle censure formulate, ed in parte infondato, trovando la deduzione della ricorrente diretta smentita nell’affermazione della sentenza impugnata laddove ha precisato che il consulente si era avvalso, ai fini dei suoi accertamenti e valutazioni, di originali di atti pubblici.
Il quinto motivo denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che la Corte di appello abbia disatteso senza adeguata motivazione l’eccezione dell’appellata che contestava l’utilizzabilità delle scritture di comparazione prodotte dalla controparte, facendo richiamo a quanto riferito dal consulente circa la presenza tra le predette scritture di atti pubblici originali, senza formulare una propria valutazione al riguardo.
Sotto altro profilo si assume che l’adesione della Corte ai risultati della consulenza tecnica d’ufficio non appare adeguatamente motivata, non avendo il giudicante preso in considerazione i rilievi critico svolti dal consulente di parte, che aveva rilevato numerose difformità grafiche delle schede testamentarie rispetto alla grafia delle scritture di comparazione, nonchè differenze concettuali di contenuto rispetto al livello culturale del de cuius.
Il sesto motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 132 e 217 c.p.c., assumendo che la Corte si è basata su una consulenza nulla, atteso che il compito di stabilire se una tale scrittura possa essere usata come comparazione ai fini della procedura di verificazione compete al giudice e non al suo ausiliario.
I quinto e sesto motivo, che per la loro connessione obiettiva possono essere trattati insieme, sono infondati.
Costituisce principio consolidato che il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, ai rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del proprio convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili con le conclusioni tratte. In tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass. n. 282 del 2009; 8355 del 2007).
A tale rilievo merita aggiungere che gli argomenti addotti dal motivo non appaiono decisivi, rappresentando non elementi obiettivi, ma mere valutazioni soggettive della parte, la cui persuasività non appare dimostrata da elementi e dati concreti, sicchè essi tendono in realtà ad introdurre un sindacato non consentito in sede di giudizio di legittimità, in quanto volto non già ad evidenziare lacune o vizi di illogicità nella motivazione che il giudice ha dato del proprio convincimento, bensì a provocare una nuova valutazione dei fatti. Generica ed infondata è, infine, la censura che contesta un difetto di valutazione del giudicante in ordine alla scritture utilizzabili come comparazione, avendo la Corte di appello, nell’aderire alle risultanze della consulenza tecnica, formulato sia pure implicitamente un giudizio proprio ed autonomo circa l’utilizzabilità delle predette scritture.
Il settimo motivo, nel denunziare il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatare, trascurando di esaminare una serie di documenti e di prove testimoniali da cui emergeva con chiarezza lo stato di incapacità di intendere e di volere del de cuius.
In particolare, la Corte ha omesso di valutare il rapporto e il fascicolo dei Carabinieri di Palermo San Lorenzo del febbraio e marzo 1977, che rappresentavano lo stato confusionale in cui versava l’ A., la relazione clinica della Casa di cura (OMISSIS) del maggio 1977, che gli aveva diagnosticato una sindrome depressiva, la cartella clinica dell’aprile 1977 in occasione del suo ricovero per intossicazione ed avvelenamento, la relazione medica del neuropsichiatria Dott. St. del 2000, che concludeva per la sua incapacità di intendere e di volere, la relazione grafologica del Dott. G. del 2000, secondo cui la persistenza dei disturbi mentali a carico del de cuius rendevano “impossibile una redazione grafica, strutturale e concettuale dei documenti testamentari”, nonchè le dichiarazioni rese dai testimoni introdotti dall’attrice, che avevano riferito delle stranezze comportamentali dell’ A. e di come egli vivesse in miseria pur avendo somme di denaro e beni immobili, trascurate in ragione di un ingiustificato ed immotivato giudizio di inattendibilità, laddove per contro il giudice a quo ha fondato il proprio convincimento sulle contraddittore dichiarazioni rese da altri testi.
Il motivo va respinto perchè inammissibile.
Da un lato le censure sollevate difettano dei necessari requisiti di autosufficienza e di specificità, dal momento che i documenti di cui si lamenta l’omesso esame da parte del giudice di merito non sono stati trascritti, ma il loro contenuto appare filtrato dalle valutazioni soggettive della ricorrente. E’ noto per contro che il ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie, ha l’onere di riprodurre esattamente il contenuto dei documenti e delle prove che assume non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004).
Dall’altro i documenti indicati, laddove appaiono rappresentare elementi di fatto scevri da apprezzamenti personali, non sembrano comunque decisivi al fine di determinare una diversa ricostruzione dei fatti, a fronte dell’esatta ed incontestata affermazione del giudice di appello che lo stato di incapacità del de cuius avrebbe dovuto essere provato al momento della redazione del testamento, laddove i fatti esposti hanno una collocazione cronologica di qualche anno anteriore. Nemmeno contestato appare poi il puntuale rilievo della decisione impugnata che, in relazione all’episodio di ricovero subito dall’ A. nel 1977, ha osservato come la permanenza dei disturbi allora manifestati non appare conciliabile nè con le sue pronte dimissioni nè con fatto che egli, negli anni successivi, ottenne il rinnovo della patente, stipulò e disdettò contratti e non subì alcuna revoca del porto d’armi.
Il mezzo, per come formulato, è inoltre inammissibile laddove mira ad introdurre un sindacato sulla valutazione delle prove non consentito, chiedendo in definitiva a questa Corte un nuovo e diverso apprezzamento del materiale probatorio versato in giudizio. Ciò, in particolare, appare evidente laddove il ricorso critica la valutazione delle testimonianze sotto il profilo della loro attendibilità, aspetto non sindacabile in sede di legittimità nell’ambito di un ordinamento processuale ispirato al principio del libero convincimento del giudice. Costituisce diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte il principio che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione, che, se dedotto, conferisce alla Corte di legittimità il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale, l’esame e la valutazione dei fatti compiuta dal giudice del merito posti a base del proprio convincimento, ma non già quello di effettuare un nuovo esame ed una nuova valutazione degli stessi (Cass. n. 14972 del 2006; Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002).
L’ottavo motivo denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che la Corte di appello non abbia motivato il rigetto dell’istanza della appellata di dar corso ad una consulenza tecnica d’ufficio per accertare le condizioni di salute del de cuius al momento della redazione dei testamenti.
Il motivo è infondato, risultando la motivazione del rigetto dell’istanza per implicito dalla convinzione espressa dal giudicante circa la sufficienza delle prove in atti a dimostrare che il de cuius non versava in stato di incapacità naturale, con particolare riferimento alle dichiarazioni dei testi richiamate dalla decisione, in conformità con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la decisione di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, che non è un mezzo di prova, rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed il diniego della relativa istanza della parte può trovare giustificazione anche per implicito nel giudizio di sufficienza delle prove acquisite ai fini della decisione della controversa (Cass. n. 4660 del 2006; Cass. n. 6479 del 2002).
Il ricorso principale va pertanto respinto.
Il primo motivo del ricorso incidentale proposto da S. C., che denunzia violazione degli artt.112, 214, 100 cpc, dell’art. 2697 c.c., e degli artt.132 disp. att. cpc, n.4, e art. 118 disp. att. cpc, ed omessa motivazione, si dichiara assorbito, in quanto proposto espressamente in via condizionata all’accoglimento del ricorso principale.
Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia violazione dell’art. 96 c.p.c., e motivazione omessa o insufficiente, lamentando che il giudice di appello abbia respinto la domanda avanzata dalla convenuta di risarcimento del danno per responsabilità aggravata dell’attrice, senza considerare gli effetti pregiudizievoli derivanti a suo carico dalla durata del processo ed a causa del sequestro del patrimonio ereditario chiesto ed ottenuto dalla attrice.
Il mezzora respinto, trovando il rigetto dell’istanza la sua implicita motivazione nell’alterno esito del processo, conclusosi in primo grado con l’accoglimento della domanda dell’attrice, e per genericità della censura, non avendo la parte, che invoca l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c., comma 1, esposto le ragioni per cui l’iniziativa giudiziale della controparte sarebbe stata posta in essere con dolo o colpa grave.
Anche il ricorso incidentale va quindi rigettato.
Le spese di giudizio sono poste a carico della ricorrente principale, la cui soccombenza risulta nettamente prevalente, e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
riunisce i ricorsi, rigetta quello principale ed il secondo motivo di quello incidentale, dichiara assorbito il primo; condanna C. C. al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 4.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 52/2012