Il principio di retroattività della legge penale più favorevole, consacrato nell’art. 2 c.p., non si applica nel caso in cui il fenomeno successorio abbia ad oggetto norme extrapenali integratrici del precetto penale le quali, lungi dall’incidere sulla struttura del reato, si limitino a comportare esclusivamente una variazione del contenuto del precetto, così provvedendo esclusivamente a delimitare la portata del comando.
Da tanto deriva che la modifica della normativa secondaria, avvenuta con D.l n. 70/2011, poi convertito in legge 106/11, non trova applicazione retroattiva ex art. 2 co. 2 c.p., considerato. che essa non ha inteso sminuire il disvalore sociale della condotta posta in essere nella vigenza della normativa precedente, e quindi l’illiceità penale della stessa, essendosi limitata, al contrario, a modificare, solo per il futuro, i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice.
IL CASO
La sentenza della Suprema Corte ha ribadito i principi di diritto già espressi dalle precedenti sentenze 12028 e 28743 del 2010, quanto alla configurabilità della fattispecie oggettiva del reato di usura, per accertato superamento del tasso soglia, in seguito all’inclusione della cms nel Teg ai sensi del co. 4 art. 644 cp., e quanto all’esclusione della fattispecie soggettiva per accertata carenza del dolo usurario in capo ai vertici apicali delle banche convenute.
Il profilo di novità di detta sentenza si individua nella negazione dell’applicabilità in via retroattiva, ex art. 2 cp., della disciplina di cui al Dl 70/2011, conv. in L.106/11.
La sentenza, infatti, ha ritenuto di aderire all’orientamento contrario all’applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole nel caso in cui il fenomeno successorio abbia ad oggetto norme extrapenali le quali, lungi dall’incidere sulla struttura del reato, si limitino a comportare esclusivamente una variazione del contenuto del precetto, così provvedendo esclusivamente a delimitare la portata del comando.
La Corte, infatti, ha ritenuto che la nuova disciplina di cui al D.l 70/2011 non abbia inteso sminuire il disvalore sociale della condotta posta in essere nella vigenza della normativa precedente, e quindi l’illiceità penale della stessa, essendosi limitata, al contrario, a modificare, solo per il futuro, i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice.
Essa ha, quindi, ritenuto che la modifica della normativa secondaria, avvenuta con D.l n. 70/2011, poi convertito in legge, non trovi applicazione retroattiva ex art. 2 co. 2 c.p., non modificandosi la norma incriminatrice, essendo il tasso soglia variabile anche con riferimento a valutazioni di carattere economico che hanno valore, ai fini dell’individuazione del tasso usurario, per l’arco temporale di applicazione della relativa normativa e non vengono meno a seguito della successiva modifica di tali limiti che hanno validità solo per il periodo successivo.
Alla luce di quanto esposto la Suprema Corte ha concluso nel senso che “la portata dell’intervento innovativo sulla determinazione del tasso soglia e la mancanza di norme transitorie, certamente non dovuta a disattenzione, denotano che si è voluto dare alla normativa ( che ha introdotto un regime maggiormente favorevole agli istituti bancari in relazione al reato di usura) operatività con esclusivo riferimento a condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore, senza produrre effetti su preesistenti situazioni, regolate dalla normativa precedente”.
Non può non essere evidenziato come anche quest’ultimo arresto della Corte di Cassazione presti il fianco a molteplici obiezioni critiche.
Appaiono infatti non esenti da censure le conclusioni cui sono pervenuti i Supremi Giudici in ordine alla pretesa inapplicabilità ai fatti di causa del principio previsto dall’art. 2 c.p. co.3, considerato che le stesse trovano il loro esclusivo fondamento in una distinzione assai opinabile effettuata dalla Corte di Legittimità fra norme extrapenali integratrici o non integratrici del precetto penale.
È infatti nota a tutti l’esistenza in dottrina e giurisprudenza di una querelle interpretativa in ordine all’esatta individuazione delle condizioni necessarie e sufficienti affinchè anche le cd. modifiche mediate risultino soggette alla disciplina dell’art. 2 cp.
Per ragioni di completezza espositiva si precisa che per modifica mediata si intende la modifica legislativa avente ad oggetto non già la norma incriminatrice di una determinata fattispecie astratta, bensì una norma richiamata da quella incriminatrice, che concorre indirettamente ad individuare e selezionare il fatto penalmente rilevante sulla base delle caratteristiche storico-concrete del fatto realizzato.
Con la recentissima sentenza 46669/11 la Corte di Cassazione ha aderito all’orientamento, minoritario, secondo il quale l’applicabilità o meno dell’art. 2 cp. dipenderebbe dalla verifica della concreta incidenza della modifica legislativa “mediata” sul contenuto di disvalore del fatto che costituisce l’oggetto dell’incriminazione penale.
Qualora, cioè, il fenomeno successorio avente ad oggetto la norma extrapenale abbia lasciato comunque immutata la carica di aggressività e di disvalore insita nel fatto di reato, l’art. 2 cp. non avrebbe alcuna operatività e la disciplina applicabile sarebbe quella vigente al momento della commissione del fatto: l’innovazione legislativa, infatti, anche nell’eventualità in cui preveda un trattamento più favorevole, come nel caso di specie, opererebbe solo pro futuro.
Detta opzione ermeneutica, per quanto autorevole, si espone però ad insuperabili critiche.
Non può, infatti, essere taciuto come il criterio della persistenza o meno del disvalore penale del fatto sia intrinsecamente connotato da incertezza applicativa, considerato che la sua natura valutativa e non formale si presta agevolmente ad inevitabili soggettivismi, con concreto rischio di discriminazioni di trattamento giuridico-penale e violazione del principio di uguaglianza.
Appare, pertanto, più coerente con le esigenze di garanzia e di certezza del diritto che presidiano il fenomeno della successione di leggi penali la soluzione ermeneutica secondo la quale anche le cd. modifiche mediate sarebbero da ricondurre alla disciplina di cui all’art. 2 cp. e ai principi costituzionali ad essa sovraordinati, senza distinzioni di sorta.
Al di là, infatti, della persistenza o meno nel fatto di reato dello stesso contenuto di disvalore penale, non può essere negato che ogniqualvolta interviene una modifica legislativa, seppure mediata, in relazione a una determinata fattispecie incriminatrice, si realizza un mutamento del trattamento giuridico-penale riservato dalla legge a quel segmento dell’attività umana.
Da tanto non può che discendere che, a fronte di una diversità di disciplina giuridica fra quella vigente al momento dei fatti di causa e quella in vigore al momento del giudizio, il principio generale di favor rei, sovraordinato all’intera materia, esige che trovi applicazione quella normativa da cui discende il trattamento più favorevole.
In questo senso, si sono pronunciate, oltre alla dottrina più autorevole( in tal senso, per tutti, Palazzo, Corso di diritto Penale, Cedam, Firenze, 2010) pure le Sezioni Unite della Cassazione( sent. 23/5/1987, Tuzet, confermata successivamente da Sez III, 29/1/1998, Sciacchitano).
Alla luce di tutto quanto esposto, dunque, non può che esprimersi un giudizio negativo sulla soluzione ermeneutica proposta dalla Suprema Corte, in quanto la stessa appare, a torto, poco in linea con quelle preminenti istanze di uguaglianza e di garanzia che informano il nostro sistema penale.
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