In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, il giudizio di negligenza deve essere condotto attraverso una valutazione prognostica ex ante, tenendo conto delle circostanze esistenti al momento dell’azione o dell’omissione, e non ex post, alla luce dei successivi sviluppi giurisprudenziali. Non si può considerare colpa professionale quella determinata da un orientamento giurisprudenziale successivamente smentito, se al tempo dei fatti era oggetto di vivace contrasto tra le corti.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Scrima – Rel. Cirillo con la sentenza n. 29194 del 12 novembre 2024.
Accadeva che la vittima di un incidente stradale conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Latina, col patrocinio di due avvocati, il conducente dell’autovettura in cui si trovava al momento del sinistro e la società di assicurazioni, chiedendo il risarcimento dei danni da lei subiti. A quel giudizio venne poi riunito un separato giudizio, promosso dalla società assicurativa in via autonoma nei confronti della conducente e della proprietaria di una diversa vettura coinvolta nel medesimo incidente.
Il giudizio si concludeva con provvedimento di estinzione, a seguito della non regolare riassunzione da parte dei difensori dell’attrice.
A seguito di passaggio in giudicato della sentenza, la vittima conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, gli avvocati, chiedendo che fossero condannati, a titolo di responsabilità professionale, al risarcimento dei danni subiti a causa del loro comportamento negligente.
Il Tribunale accoglieva la domanda; dichiarò la sussistenza della responsabilità professionale degli avvocati e li condannò al risarcimento dei danni, in favore della parte attrice.
La decisione era impugnata da uno degli avvocati e dall’erede dell’altro, nel frattempo deceduto.
La Corte d’Appello di Napoli accoglieva il gravame e, riformando integralmente la decisione del Tribunale, rigettava la domanda proposta dalla vittima dell’incidente nei confronti dei due difensori suindicati, compensando sia le spese del giudizio di primo grado che quelle del giudizio di appello.
In particolare, la Corte territoriale affermava che i difensori avevano tempestivamente depositato il ricorso in riassunzione e che la declaratoria di estinzione pronunciata dal Tribunale di Latina e poi passata in giudicato si fondava, però, su un certo orientamento della giurisprudenza che era oggetto di un vivace contrasto, risolto poi con la sentenza 28 giugno 2006, n. 14854, delle Sezioni Unite, le quali hanno affermato che il termine perentorio di sei mesi previsto dall’art. 305 cod. proc. civ. è riferibile solo al deposito del ricorso in riassunzione nella cancelleria del giudice, ma non anche alla successiva notifica del relativo decreto. Ne consegue che, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non riveste più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius.
Alla luce di questa giurisprudenza, pertanto, il tempestivo deposito del ricorso, secondo il Collegio, avrebbe impedito l’estinzione del processo.
Avverso il provvedimento del Giudice del gravame, la vittima dell’incidente proponeva ricorso in Cassazione, lamentando, nel primo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. e delle regole sul giudicato esterno.
Infatti, la ricorrente sosteneva che, essendo passata in giudicato la sentenza del Tribunale di Latina che aveva dichiarato l’estinzione del pregresso giudizio, la Corte napoletana avrebbe violato i principi sul giudicato, “avendo illegittimamente riesaminato la pronuncia di estinzione” suindicata, mettendone in discussione i presupposti logico-giuridici.
La sentenza impugnata, in altri termini, affermando che solo il termine per la riassunzione ha natura perentoria, mentre quello per la notifica del decreto ha natura ordinatoria, avrebbe illegittimamente riesaminato una decisione ormai irrevocabile.
Con il secondo motivo di ricorso si lamentava, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per ultrapetizione e dell’art. 101 cod. proc. civ. per violazione del principio del contraddittorio.
La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, avrebbe posto a fondamento della propria decisione questioni estranee ai motivi di appello articolati dall’appellante, neppure preventivamente sottoposte al contraddittorio delle parti.
La Suprema Corte ha ritenuto entrambi i motivi, esaminati congiuntamente, del tutto inconferenti rispetto alla motivazione della sentenza impugnata.
La Corte d’Appello, infatti, era chiamata a valutare, nel caso specifico, se la tardiva notifica del ricorso in riassunzione fosse o meno fonte di responsabilità a carico degli avvocati e, per fare questo, doveva necessariamente ripercorrere l’iter del giudizio concluso con la sentenza di estinzione emessa dal Tribunale di Latina e passata in giudicato. Invocare, come fa la ricorrente, la violazione del giudicato o del contraddittorio ovvero l’ultrapetizione significa non aver colto il punto fondamentale del giudizio di responsabilità, che impone, come detto, una sorta di valutazione controfattuale sull’attività compiuta o omessa, affermando che, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato la giurisprudenza della Suprema Corte che ha in più occasioni ribadito, con un orientamento ormai consolidato, che la valutazione sull’esistenza di una colpa professionale deve essere compiuta, con un giudizio ex ante, sulla base di una valutazione prognostica della possibile utilità dell’iniziativa intrapresa o omessa, non potendo comunque l’avvocato garantirne l’esito favorevole (viene di frequente richiamata, al riguardo, l’antica e ormai superata distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato).
Questo principio è stato affermato per lo più in relazione alla responsabilità omissiva, cioè quando si deve valutare la conseguenza dannosa, per il cliente, derivante da un’attività processuale che poteva essere compiuta e non è stata compiuta.
Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
Per ulteriori approfondimenti in materia si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
SUL CLIENTE L’ONERE DELLA PROVA DEL NESSO EZIOLOGICO TRA LA CONDOTTA COMMISSIVA OD OMISSIVA DEL LEGALE E IL DANNO DERIVATONE
Sentenza | Tribunale di Novara, Giudice Lorena Casiraghi | 16.11.2023 | n.742
IL CASO DELL’APPELLO PROPOSTO TARDIVAMENTE
Sentenza | Tribunale di Ferrara, Giudice Mauro Martinelli | 21.04.2020 |
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