Il giudice di merito, per stabilire se sussista il nesso di causalità materiale – richiesto dall’art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale tra un’azione o un’omissione ed un evento deve applicare il principio della “conditio sine qua non”, temperato da quello della regolarità causale, sottesi agli artt. 40 e 41 del c.p.”, sicchè, “quando l’evento dannoso o pericoloso è stato cagionato da una pluralità di azioni o di omissioni, coeve o succedutesi nel tempo, tutte hanno uguale valore causale, senza distinzione tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive, dovendo a ciascuna di esse riconoscersi un’efficienza causale del danno se nella concatenazione degli avvenimenti abbiano determinato una situazione tale che l’evento, sebbene prodotto direttamente dalla causa avvenuta per ultima, non si sarebbe verificato”, fermo restando che, nell’ipotesi, invece, in cui “la causa sopravvenuta sia da sola sufficiente a provocare l’evento perchè autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni perchè quella successiva ha interrotto il legame causale tra esse e l’evento.
In caso di comportamento colposo di un soggetto idoneo a cagionare un danno, la condotta dolosa di altro soggetto che non si ponga come autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, non è idonea ad interrompere il nesso causale con l’evento dannoso, ma potrà, al più, assumere rilievo solo sul piano della selezione delle conseguenze dannose risarcibili.
Questi i principi espressi dalla Cassazione Civile, Sez. III, Pres. Travaglino – Rel. Guizzi con la sentenza n. 4662 del 22.02.2021.
La vicenda trae origine dall’azione risarcitoria promossa da un’impresa nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri innanzi al Tribunale di Ancona per far valere la responsabilità dei due magistrati intervenuti nell’ambito di un di opposizione a decreto ingiuntivo in cui la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, inizialmente negata in difetto del fumus boni iurus, era stata successivamente concessa subordinatamente al deposito di una cauzione, la quale veniva pagata da un terzo garante.
L’impresa pagò il credito indicato nel provvedimento monitorio, ormai provvisoriamente esecutivo, ma all’esito del giudizio di opposizione, sebbene il decreto ingiuntivo fosse stato revocato, la stessa non poté recuperare quanto indebitamente pagato, a causa del fallimento sia della società opposta, sia della società che, nella veste di garante, aveva rilasciato la cauzione.
Il Tribunale adito dichiarò inammissibile la domanda sul rilievo che quello di concessione o diniego della clausola di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto è da considerarsi un “provvedimento privo di autentico contenuto decisorio, non idoneo ad interferire sulla definizione della causa”.
Tale provvedimento venne reclamato innanzi alla Corte marchigiana, la quale si pronunciò per il rigetto dell’impugnazione.
Proposto ricorso per cassazione, il provvedimento veniva cassato dalla Suprema Corte la quale aveva ravvisato una condotta gravemente colposa del magistrato nell’avere concesso la provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo nel giudizio di opposizione, con un provvedimento nel quale da un lato si negava l’esistenza del fumus boni iuris, e dall’altro si accoglieva comunque l’istanza di provvisoria esecutorietà, imponendo una cauzione.
Tale condotta, pertanto, veniva ritenuta “violativa di un principio processuale fondamentale, stabilito da una pronuncia altrettanto fondamentale del giudice delle leggi: quello secondo cui l’art. 648 c.p.c., in tutti e due i suoi commi, esige per la concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto il fumus boni iuris“.
Anche il giudice del rinvio respingeva la domanda dell’impresa, con decisione confermata dal giudice di appello, che rigettava il gravame dalla stessa esperito sul rilievo che, sebbene la concessione della provvisoria esecuzione fosse da qualificarsi come certamente colposa, il comportamento scorretto del creditore ingiungente – consistito nel produrre una fideiussione non valida – avrebbe integrato un contegno addirittura doloso, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta del magistrato e l’evento dannoso.
Avverso tale pronuncia della Corte marchigiana ricorreva per cassazione l’impresa lamentando in primis la violazione dell’art 41 c.p. dovuta all’erronea esclusione dell’esistenza del nesso di causalità tra azione, evento e danno, in conseguenza del comportamento della convenuta nel giudizio di opposizione ed in secundis l’erronea valutazione circa la condotta del Presidente del Tribunale il quale con l’atto con cui egli ha “mandato” al cancelliere per l’apposizione della formula esecutiva (atto non espressamente disciplinato dal codice di rito) avrebbe dovuto effettuare un controllo sulla prestata cauzione.
Resisteva la Presidenza del Consiglio dei ministri chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
La Suprema Corte ha rilevato che l’affermazione secondo cui il carattere “doloso” della condotta dello stesso creditore ingiungente avrebbe interrotto il nesso causale tra il contegno del giudice istruttore e l’evento dannoso integrava, difatti, una violazione dell’art. 41 c.p.
Tanto in quanto la ricostruzione della problematica causale, con riferimento alla causalità materiale o di fatto, “presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p.”, giacchè “il danno rileva solo come evento lesivo” e, dunque, anche nel contesto di un sistema – qual è quello della responsabilità civile – che risulta “retto”, quanto al riscontro della sussistenza del nesso causale, dal principio del “più probabile che non“, resta inteso che “il giudice di merito, per stabilire se sussista il nesso di causalità materiale – richiesto dall’art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale tra un’azione o un’omissione ed un evento deve applicare il principio della “conditio sine qua non”, temperato da quello della regolarità causale, sottesi agli artt. 40 e 41 del c.p.”, sicchè, “quando l’evento dannoso o pericoloso è stato cagionato da una pluralità di azioni o di omissioni, coeve o succedutesi nel tempo, tutte hanno uguale valore causale, senza distinzione tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive, dovendo a ciascuna di esse riconoscersi un’efficienza causale del danno se nella concatenazione degli avvenimenti abbiano determinato una situazione tale che l’evento, sebbene prodotto direttamente dalla causa avvenuta per ultima, non si sarebbe verificato”, fermo restando che, nell’ipotesi, invece, in cui “la causa sopravvenuta sia da sola sufficiente a provocare l’evento perchè autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni perchè quella successiva ha interrotto il legame causale tra esse e l’evento“, con la conseguenza che, nella specie, ravvisare nella mancata prestazione di idonea cauzione una circostanza “autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto” è errato.
Tale evento, chiarisce la Corte, non è in grado di neutralizzare la condotta antecedente del giudice istruttore, consistita nella colposa concessione della provvisoria esecutività del decreto, essendosi tale condotta tradotta in un provvedimento con cui si negava l’esistenza del “fumus boni iuris“, e dunque in aperto contrasto con l’interpretazione costituzionalmente orientata secondo cui la concessione della provvisoria esecuzione deve essere sempre preceduta dalla verifica della “corrispondenza dell’offerta cauzione all’entità degli oggetti indicati dell’art. 648 c.p.c., comma 2“.
In conclusione il Collegio ha rilevato che la condotta dolosa del creditore ingiungente non era, nella specie, idonea ad interrompere a monte il nesso causale, potendo assumere rilievo soltanto a valle, per delimitare l’entità del danno risarcibile.
Sulla base di tali rilievi la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio, per la decisione nel merito, alla competente Corte territoriale.
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