ISSN 2385-1376
Testo massima
Il professionista deve dimostrare la riconducibilità degli elementi passivi alle imposte acquisite come sostituto.
Nel caso in cui un professionista venga imputato ai sensi dell’art. 4 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, del reato di dichiarazione infedele, il contribuente deve fornire la prova della precisa riconducibilità delle spese, ritenute sproporzionate dall’Amministrazione finanziaria, così come annotate nelle dichiarazioni alle imposte acquisite quale sostituto da riversare immediatamente all’Erario.
Sono questi i principi sanciti dalla Suprema Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza n. 19416 depositata il 12 maggio 2014.
Il caso ha vista la Corte di Appello di Campobasso confermare la colpevolezza di un professionista per il reato di dichiarazione infedele a norma dell’art. 4 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Il Giudice d’appello aveva infatti rilevato che gli elementi attivi di reddito da lavoro autonomo derivanti dalle fatture emesse dal professionista erano indicative di somme dal medesimo incassate a fronte delle prestazioni professionali prestate nell’interesse dei clienti, donde l’eventuale erroneità della fatturazione non solo avrebbe dovuto comportare rettifiche nella contabilità, ma avrebbe dovuto essere dimostrata dal contribuente.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione evidenziando l’insussistenza dei presupposti del reato di dichiarazione infedele.
Si rammenta che, fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta, l’art. 4 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 punisce con la pena della reclusione da 1 a 3 anni il reato di dichiarazione infedele. Tale fattispecie incriminatrice può essere consumata da chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi. Ne discende pertanto che la condotta rilevante ai fini della configurazione del reato è rappresentata dalla formulazione di una dichiarazione non veritiera cioè infedele. Il reato può tuttavia essere contestato a condizione che vengano superate determinate soglie di punibilità, vale a dire quando a) l’imposta evasa è di ammontare superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad 50.000, oppure quando b) l’importo complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a 2.000.
Alla luce della normativa sopra richiamata, la Cassazione ha evidenziato che, nel caso di specie, era stata contestata al professionista l’indicazione di elementi passivi fittizi con superamento della soglia di punibilità sia ai fini IRPEF (maggiori compensi corrisposti a terzi, interessi passivi non deducibili, altre spese maggiori di quelle effettivamente documentate) sia IRAP (relativamente all’indicazione del valore della produzione netta in quanto erano stati provati costi in misura inferiore a quelli indicati).
Il professionista aveva omesso di fornire la prova anche attraverso le scritture contabili – della precisa riconducibilità di un notevole importo delle spese annotate nelle dichiarazioni a imposte acquisite nella veste di sostituto che avrebbero dovuto essere riversate all’Erario ed invece erano state conglobate nei corrispettivi indicati nelle fatture per le prestazioni professionali.
La difesa del professionista si era invece unicamente limitata a osservare che la dedotta erroneità delle fatturazioni era stata solo oggetto di mera allegazione a fronte di rilievi sollevati dall’Amministrazione finanziaria.
La Cassazione ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza dei motivi in quanto le censure sollevate dal professionista erano tese a riproporre una diversa ricostruzione della vicenda fattuale rispetto a quella operata in modo logico e coerente dal giudice d’appello.
Testo del provvedimento
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