ISSN 2385-1376
Testo massima
Si pubblica un interessante e critico intervento del dott. Alessandro Pellegatta, responsabile credito anomalo diretto Ubi Banca, il quale, torna a pronunciarsi in materia di concordato preventivo, riflettendo sugli effetti che la riforma della legge fallimentare e le modifiche introdotte con il cd. decreto del fare (legge 134/2012) hanno realmente apportato allo strumento concordatario, rivelatosi “un boomerang per le stesse aziende in crisi che lo utilizzano, visto che gli esiti favorevoli sono alquanto rari“.
Con una suggestiva metafora all’opera di Samuel Beckett “aspettando Godot“, il dott. Alessandro Pellegatta mette in evidenza, da una parte, le gravi mancanze di coordinamento tra le norme preesistenti e le nuove norme, dall’altra, i problemi operativi e gestionali sussistenti in capo al ceto bancario, chiamato ad affrontare profondi processi di riorganizzazione gestionale interna, a seguito dell’introduzione di strumenti ibridi, quali i concordati “prenotativi” o “in bianco“.
Ed, invero, viene giustamente sottolineato come “le maggiori difficoltà, allo stato, sono proprio quelle inerenti alle manovre concordatarie in via di definizione, dove
non risultano spesso sussistere gli elementi di trasparenza e di contraddittorio necessari per accompagnare le manovra che dovrebbe essere in fieri ma che, il più delle volte, finisce col non palesarsi mai.”
L’articolo costituisce una lucida denuncia delle distorsioni delle previsioni di legge sul “concordato prenotativo“, evidenziando come lo stesso finisca per determinare un concreto svilimento degli stessi principi ispiratori della legge fallimentare.
Si deve, dunque, spezzare l’Attesa di Godot e darsi da fare, conclude il dott. Pellegatta, che va senza dubbio ringraziato per l’importante contributo, che si conclude con un giusto auspicio:
“mettere a frutto l’esperienza di questi ultimi anni e ripensare a un sistema di prevenzione e cura della crisi d’impresa più equo, rapido e meno costoso, con meno bizantinismi e regole più chiare e con minori incertezze interpretative ed applicative.”
Di seguito il testo dell’articolo.
Testo del provvedimento
La riforma (riformabile) della legge fallimentare e il “Signor Godot” della ripresa che non c’è
di Alessandro Pellegatta
Fedeli sono coloro che non si sono adagiati nella comoda sicurezza, ma hanno speso la loro vita per suscitare passi nuovi (Giovanni Vannucci)
In Aspettando Godot di Samuel Beckett, Vladimiro (chiamato anche Didi) ed Estragone (chiamato anche Gogo) stanno attendendo lungo una desolata strada di campagna un certo “Signor Godot“. Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che regola la scansione temporale attraverso la mera caduta delle foglie che indica il passare inesorabile dei giorni. Ma Godot non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti che Godot “
oggi non verrà, ma verrà domani“. Nel grande capolavoro beckettiano non c’è sviluppo nel tempo, poiché non sembra esistere possibilità di cambiamento. La trama è ridotta all’essenziale, e si registra solo un’evoluzione di micro-eventi. Apparentemente sembra tutto fermo, ma a guardare bene “tutto è in movimento“. Il tempo sembra “immobile” ma scorre inesorabilmente. I gesti che fanno i protagonisti sono essenziali, ripetitivi. Vi sono molte pause e silenzi. L’incomunicabilità e la crisi di identità regolano le relazioni degli umani. Il dramma è costruito e si sviluppa intorno alla condizione dell’Attesa di un “Godot” che non si palesa.
La legge 134/2012 ha avuto il grande merito di “sdoganare” l’utilizzo del concordato preventivo, introducendo: (i) una maggior tutela dell’impresa in crisi, prima esposta alle azioni esecutive e cautelari; (ii) un miglior trattamento fiscale sia delle sopravvenienze attive in capo all’impresa sia delle perdite dei creditori; (iii) un maggior rigore nella fase (centrale) di attestazione, imponendo agli esperti asseveratori precisi obblighi di verifica dei “dati di partenza” e di “fattibilità” del piano; (iv) il c.d. dual track, vale a dire la possibilità di presentare un accordo di ristrutturazione nell’ambito del procedimento inerente l’istanza ex art.161 sesto comma l.fall.. Pur avendo introdotto rilevanti novità, tale legge sta tuttavia creando problemi operativi e gestionali in capo al ceto bancario, chiamato a sua volta ad affrontare profondi processi di riorganizzazione gestionale interna, a seguito dell’introduzione di strumenti ibridi, quali i concordati “prenotativi” o “in bianco“. Le maggiori difficoltà, allo stato, sono proprio quelle inerenti alle manovre concordatarie in via di definizione, dove al di là degli interventi di rigore introdotti dal c.d. “decreto del fare” – non risultano spesso sussistere gli elementi di trasparenza e di contraddittorio necessari per accompagnare le manovra che dovrebbe essere in fieri ma che, il più delle volte, finisce col non palesarsi mai.
In attesa che arrivi il tanto annunciato Godot (la ripresa), l’italica creatività nel trovare tutte gli escamotage possibili per “tirare in lungo” e confidare che nel frattempo si realizzi qualche miracolo appare sempre più fervida. Passano i giorni e le best practices cadono come le foglie dell’albero nel citato dramma di Samuel Beckett. La cronaca non fa altro che registrare crescenti abusi del diritto e distorsioni sul tema sempre più pervicaci ed innovativi, e che si annidano dentro le tante “zone grigie” lasciate scoperte dalle varie riforme che negli anni si sono succedute; il tutto fino allo svilimento degli stessi principi ispiratori della legge fallimentare, che continua a difettare di gravi mancanze di coordinamento tra norme preesistenti e nuove norme. E’ vero, le norme del c.d. “decreto del fare” hanno corretto le plateali distorsioni dell’originario concordato “prenotativo“, ma onestamente questo non basta a “rilanciare” uno strumento che, statisticamente, sta diventando un boomerang per le stesse aziende in crisi che lo utilizzano, visto che gli esiti favorevoli (rectius: le manovre presentate nei termini fissati dal Giudice) sono alquanto rari. Perché? Molto semplice. Centoventi o centottanta giorni difficilmente bastano per chiudere tali manovre, anche perché; (i) i processi di restructuring continuano a essere poco strutturati; (ii) chi presenta le istanze ex art.161 sesto comma spesso non sa che pesci pigliare, oltre a cercare di prendere tempo sperando che arrivi Godot; (iii) le banche sono spesso lente nell’esaminare i dossier, nel comprendere i problemi,nel negoziare ciò che va negoziato e nel deliberare.
Occorrerebbe probabilmente ri-orientare decisamente le previsioni di legge sul concordato in genere, permettendo soprattutto al creditore bancario di evitare di “subire le decisioni altrui“, di interagire sia col debitore sia con gli organi della procedura fino all’eventuale proposizione di una “controproposta“, utilizzando un istituto simile all’involuntary petition del mondo anglosassone, ma ci vorrebbero anni per realizzare questo sogno, in quanto bisognerebbe cambiare profondamente la mission e il ruolo del bancario. Si assiste inoltre a una progressiva frammentazione operativo – gestionale, a sua volta rispecchiamento dei diversi orientamenti che stanno maturando nei Tribunali italiani. Restano inoltre da implementare le norme per favorire la concessione della “nuova finanza” (nelle forme della finanza ponte) e va radicalmente modificato il disposto dell’art.169 bis l.fall., articolo figlio di un certo dirigismo normativo i cui effetti nefasti sono stati fortunatamente limitati dal buon senso degli interventi della giurisprudenza di merito. Restano inoltre da definire i principi di best practice cui dovrà attenersi l’esperto asseveratore per l’attestazione di “fattibilità” del piano e occorre introdurre nuove norme per la regolamentazione del c.d. “concordato di gruppo“, senza le quali (in presenza di gruppi economici diffusi sul territorio nazionale) il rischio di eccessiva frammentazione operativa può minare l’unitarietà del piano. Tralascio il tema della crisi on cross border, limitandomi a riferire che anche la legislazione comunitaria appare ormai datata e non più allineata rispetto ai nuovi istituti di prevenzione e cura della crisi d’impresa.
Come ho avuto modo di segnalare in precedenti articoli , l’area del restructuring continua ahimè a manifestare aspetti di multiforme complessità, involuzione e confusione, e appare sempre più soggetta a grandi aree di aleatorietà, d’irragionevolezza sopravvenuta e, come già detto, anche di abusi (più o meno evidenti) da parte degli attori del processo (imprese, banche, e rispettivi advisor tecnici e legali), come è stato di recente riportato in un decreto della Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano , che ha respinto un’istanza di concordato “prenotativo” (o c.d. “in bianco“). In questo momento gli abusi si stanno orientando nel campo della “reiterazione” delle domande di concordato e di omologa degli accordi di ristrutturazione, e su questo tema Filippo Lamanna ha scritto su “Il Fallimentarista” del 13 novembre 2013. L’obiettivo è ovviamente quello di prolungare il più possibile gli effetti dell’automatic stay rinviando sine die l’obbligo di presentare la manovra concordataria o un accordo da assoggettare ad omologa, fin quando il Tribunale dichiarerà l’inammissibilità della proposta e si ricadrà nel limbo. Il dossier, vista la latitanza della legge, finirà col giacere sul tavolo del PM, prolungando l’agonia dell’impresa in crisi, nell’attesa che un creditore o lo stesso PM finisca prima o poi col richiedere l’accertamento dello stato d’insolvenza.
Dietro il nuovo paravento della “conservazione dell’attività d’impresa” si stanno in realtà compiendo plateali abusi e tecniche dilatorie, che possono portare al vero e proprio ribaltamento dei principi ispiratori delle riforme legislative introdotte nell’ambito del restructuring. La conseguenza è che gli istituti introdotti nel nostro ordinamento per gestire e risolvere le crisi d’impresa reversibili finiscono spesso con l’essere “deviati”, determinando: (i) sacrifici sproporzionati e ingiustificati delle ragioni dei creditori e/o (ii) abnorme dilatazione della durata dei procedimenti e degli effetti dell’automatic stay. Purtroppo, molti imprenditori poco avveduti (e/o pressati dalle istanze dei creditori) stanno utilizzando l’arma del concordato “prenotativo” solo per “guadagnare tempo“, come se fosse uno standstill, utilizzando i benefici di legge (sospensione dalle azioni esecutive/cautelari altrui e inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni precedenti la presentazione del ricorso), senza avere ben presente come orientare l’azione di risanamento. E’ accaduto addirittura che le società in crisi rinuncino alla precedente domanda di concordato non già allo scopo di modificarla, ma solo per riattivare l’effetto protettivo (attingendo nuovamente all’automatic stay) e così poter ripartire da zero! Le tipologie di “deviazione abusiva“, con o senza “reiterazione” delle istanze, sono molteplici e sempre multiformi (spesso la realtà supera l’immaginazione), e anche nell’area dell’autonomia negoziale dei piani attestati, nonostante quanto disposto dalla nuova legge n.134/2012 e al “disfavore” fiscale da essa introdotto nei confronti degli stessi, si continua ad assistere a espedienti e tecniche dilatorie che nulla hanno a che vedere con la best practice e che rischiano di creare dei veri e propri cortocircuiti finanziari e legali. Ecco che assistiamo al vero e proprio ribaltamento dei principi ispiratori delle riforme della legge fallimentare: gli strumenti preventivi e alternativi cadono nelle mani di soggetti irresponsabili, in assenza di ogni ragionevole previsione di recupero dell’impresa, che operano disperatamente al solo fine di procrastinare l’insolvenza.
Ma c’è anche dell’altro. Viviamo, si sa, in un mondo imperfetto, le tentazioni sono tante e la virtù sono sempre state appannaggio dei pochi. E fin qui chi è senza peccato scagli la prima pietra. In realtà però si assiste anche ad un altro fenomeno ben più serio e strutturale, che oserei definire di mutazione genetica del sistema avvenuta per mano legislativa. Come è stato brillantemente analizzato da Alessandro Munari nel suo “Impresa e capitale sociale nel nuovo diritto della crisi”, uscito per i tipi della Giapichelli Editore nell’ottobre del 2013, stiamo infatti assistendo ad una vera e propria destrutturazione dei capisaldi dell’impresa societaria, di cui il nuovo art.182-sexies l.fall. ne è una delle più evidenti rappresentazioni. Pur di “conservare” imprese che non hanno più capitali di rischio e probabilmente un valore economico attuale e prospettico, si sospende l’applicazione degli articoli 2446 e 2447 c.c. nell’assunto che con l’ammissione al concordato preventivo (anche prenotativo) o con l’omologa degli accordi di ristrutturazione debbano necessariamente ricomporsi i gap patrimoniali dell’impresa in crisi attraverso i ben noti meccanismi del write off, della conversione in strumenti finanziari partecipativi (SFP) o della cessione del credito con pagamento differito. Qui sta l’effetto perverso di “scaricare” i costi della crisi sui creditori, finanziari e non, che spesso sotto la prospettiva (spesso puramente illusoria) di recuperabilità anche solo parziale dei propri danari si prestano ad appoggiare manovre assolutamente irrealistiche (per non dire temerarie). Fin quando un bel giorno, pur sperando di assistere alla comparsa di Godot, la banca scopre che il fondo di riserva patrimoniale alimentato dagli SFP è stato bruciato dalle perdite di esercizio cumulate, o che la way out della vendita non si è realizzata, o che se è stata realizzata i proventi da distribuire non sono assolutamente sufficienti per soddisfarsi (anche perché si deve tenere conto di waterfall capestro, che impongono livelli di remunerazione altissima al new money immessi dai terzi investitori). Verrebbe da dire che per risolvere il tema patrimoniale dell’impresa in crisi il legislatore abbia accettato il rischio di scaricare i costi sul patrimonio delle banche, i cui bilanci sono ormai carichi di SFP di difficile commerciabilità e recuperabilità nonché di ingenti masse di crediti deteriorati di dubbia esigibilità. Il conseguente loro assorbimento patrimoniale a sua volta amplificherà il credit crunch e col credit crunch si incrementeranno le ragioni della crisi delle imprese, avvitando ulteriormente il down trend sistemico, e allontanando ancora una volta il nostro Godot.
In questo strano sistema capitalistico è ormai frequente assistere a società di capitale che ormai non hanno più capitale. I soci di tali società autodichiarano lo stato di crisi, appellandosi al 182-sexies l.fall. , e beneficiando così del regime di sospensione temporanea disposto da tale articolo. In questo sistema i soci possono benissimo scaricare su altri i costi ingenti della ristrutturazione, di cui dovrebbero farsi carico, e lo fanno senza alcun rimorso o vergogna. Anzi, reclamano il loro diritto a vedere i creditori “partecipare” al rischio d’impresa: quello che dovrebbe essere un loro punto di debolezza diventa un punto di forza. Talvolta, ma comunque assai raramente, i soci stessi potranno (bontà loro) rendersi disponibili a immettere denaro dopo l’apertura della procedura alternativa o preventiva, ma se lo faranno utilizzeranno in ogni caso la forma del finanziamento soci, beneficiando ancora una volta di norme assolutamente eccezionali rispetto a quelle civilistiche, nel senso che in caso di successivo fallimento della società avranno diritto a rivendicare la prededuzione fino all’80% del loro finanziamento. E tutto questo è stato reso possibile in un sistema imprenditoriale, quale quello italiano, caratterizzato da PMI fortemente indebitate e scarsamente capitalizzate. Viene da dubitare fortemente sulla ratio di tali scelte legislative, che oltre ad essere in forte odore d’incostituzionalità appaiono (si può ancora dire?) immorali.
Nonostante il minor ricorso ai piani attestati ex art.67 l.fall. continua comunque ad aleggiare sugli stessi il rischio del controllo giudiziale ex post . Sarà anche qui la giurisprudenza dei prossimi anni a dirci quali saranno i poteri d’intervento e di verifica dei giudici sui piani attestati, ma già fin d’ora sarebbero auspicabili comportamenti di maggior rigore. Paradossalmente, nonostante il “disfavore” fiscale di cui sopra, i rischi (sempre latenti) di verifiche giudiziali ex post, e la non applicabilità del citato art. 182-sexies l.fall., il piano attestato continua a essere uno strumento largamente utilizzato, anche per le crisi d’impresa più gravi, sia per questioni di snellezza operativa sia perché garantisce riservatezza, consentendo abusi negoziali e l’avvio di ri-attestazioni “aperte” anche quando la manovra di risanamento non appare “fattibile“, e peraltro costringendo le banche a essere assoggettate agli “elementi certi e precisi” ex art.101, comma quinto, del TUIR, per la deducibilità delle perdite. Oltre ai concordati prenotativi, è probabilmente in quest’area che si verificano i maggiori eccessi e abusi, e dove il ruolo dei consulenti porta il più delle volte alla semplice re-ingegnerizzazione finanziaria, senza aver né risolto né minimamente affrontato i problemi strutturali , industriali e manageriali che hanno portato all’insorgenza della crisi aziendale.
La crisi d’impresa si manifesta spesso come una complessa combinazione di cause interne ed esterne che interagiscono tra loro e hanno origini svariate (finanziarie, di mancanza d’innovazione o programmazione, d’inefficienza, di decadimento produttivo, di squilibrio finanziario e patrimoniale, d’incapacità manageriale, di mancata tenuta delle componenti immateriali generate da operazioni straordinarie ecc.) e gli indicatori sintomatici della stessa non si prestano mai né ad una lettura standard né a una chiara definizione legislativa. Non esistono ancora strumenti o meccanismi istituzionali di alert e/o di prevenzione, e la scelta dei correttivi rimane generalmente (e per troppo tempo) nelle mani di chi gestisce l’impresa. Anche qui le aree d’intervento e di potenziamento manageriale appaiono generalmente alquanto limitate per le banche, le quali possono, pur operando nella massima buona fede e professionalità, chiedere al massimo la nomina di consiglieri indipendenti, di CFO o CRO , ma non possono mai sostituirsi nella gestione manageriale (spesso carente), non potendo né dovendo rivestire il ruolo di amministratori (di fatto o di diritto). In realtà, la complessità delle manovre di risanamento porta spesso le banche (attraverso operazioni di ricapitalizzazione attuate mediante il rilascio di strumenti finanziari partecipativi o di altri strumenti “ibridi“) ad esercitare ruoli diversi e altri rispetto al semplice esercizio del proprio diritto di credito. Anche su questo punto la mutazione genetica è ormai galoppante, e sta portando alla progressiva confusione tra azionisti e creditori.
Altro importante gap che continua a condizionare negativamente la normativa italiana sulla composizione della crisi d’impresa, nonostante le plurime riforme legislative, è sicuramente dato dal ritardo con cui avviene la segnalazione dello stato di crisi medesima. Le indicazioni della c.d. “Commissione Trevisanato” sull’introduzione di meccanismi di allerta, come noto, continuano a non essere recepite dal nostro ordinamento. L’esperienza francese dovrebbe insegnarci che la prevenzione della crisi è molto più efficace della cura della crisi. Peccato che costi troppo poco.
Quello della riforma della legge fallimentare italiana, nonostante i plurimi interventi legislativi, è ancora un vero e proprio cantiere aperto. Si procede per approssimazioni successive, e siamo ben lungi da un consolidamento normativo. Anche i vari istituti tipicizzati appaiono eccessivi, e in parte finiscono col sovrapporsi. Quello che emerge con evidenza, a qualche anno ormai di distanza dall’introduzione delle procedure di composizione della crisi d’impresa alternative alle procedure concorsuali o liquidatorie classiche, è comunque un quadro assai sconfortante. I risultati sono stati molto deludenti; dovevano emergere i concordati in continuità e, viceversa, sono dilagati quelli liquidatori e quelli “prenotativi“, con sacrifici esorbitanti “scaricati” bellamente sulle spalle dei creditori (banche e fornitori). Qui sta forse la “magagna” peggiore. Il nostro sistema è troppo (e pericolosamente) sbilanciato solo sulla figura del debitore, e vede attualmente il creditore (finanziario e non) subire. In assenza di capitali di rischio, andrebbero invece tutelati anche i creditori, cioè coloro che pur non essendo gli azionisti dell’impresa ne permettono i funzionamento e la crescita; purtroppo, ancora oggi gli imprenditori che hanno perduto e non ripristinano le necessarie condizioni patrimoniali continuano a “proporre” soluzioni capestro ai creditori godendo di importanti benefici di legge, senza che i creditori stessi possano fare alcunché, oltre ad accettare “saldi e stralci” devastanti o, in pejus, respingere proposte concordatarie o gli accordi e portando al fallimento l’impresa. Tutte queste storture, inefficienze ed abusi stanno inoltre alterando seriamente il principio della concorrenza, in quanto, oltre a scaricare i costi della crisi sui terzi, creano effetti discorsivi nell’ambito della competizione economica. Le imprese inefficienti in realtà dovrebbero essere regolate principalmente dal mercato.
Altro capitolo doloroso rimane quello della Prodi-bis e della lungaggine delle procedure pubbliche, nonché delle attuali normative comunitarie sugli aiuti di Stato. In assenza delle necessarie autorizzazioni comunitarie per il rilascio della garanzia dello Stato, spesso il ceto bancario viene chiamato ad assurgere surrettiziamente a compiti che dovrebbero spettare all’Organo pubblico, nel tentativo di vendere sul mercato imprese esangui, dentro le quali albergano drammi sociali collettivi. Alludo alle migliaia di posti di lavoro a rischio e ai salari che non vengono incassati da mesi. Spesso su tali operazioni di salvataggio appaiono sulla stampa articoli mistificatori e grossolani. E’ facile prendersela con la banca, perché si sa in banca ci sono sempre i danari. Ma spesso si dimentica che anche la banca è un’impresa e non un’associazione di beneficienza, e che se la banca non funziona correttamente i costi della sua inefficienza finiscono sempre, direttamente o indirettamente, con lo scaricarsi su tutta la collettività.
In attesa di incrociare Godot, cioè di incontrare una ripresa che ancora non c’è, i “commutatori cartacei” delle crisi d’impresa stanno destrutturando la centralità del capitale. Le imprese in crisi stanno di fatto diventando delle vere e proprie start up, rendendo sempre più labili i tradizionali confini tra azionisti e creditori. La decommercializzazione del diritto societario apre nuovi e imponderabili scenari. Ma fino a quando i costi dell’art.182-sexies l.fall. potranno essere sostenuti dal sistema? Fino a quando i creditori potranno metabolizzare i costi della crisi? Fino a quando si potrà assistere alla compressione dei capisaldi storici del diritto civile e processuale? Fino a dove potrà spingersi la negoziazione tra imprenditore in crisi e i suoi creditori? Fino a quando la “capacità creativa” del legislatore italiano in tema di istituti alternativi alle procedure concorsuali classiche potrà essere sostenuta dal sistema economico o, viceversa, potrà comportare dei veri propri punti di rottura, vista la cronica sottocapitalizzazione delle società italiane? Fino a quando la fretta o la contingency del momento potranno continuare ad ispirare il legislatore, e fino a quando potremo ancora tollerare un rinvio di una revisione organica e ponderata di tutto l’impianto della legge fallimentare?
Come nel citato dramma beckettiano, la crisi delle imprese italiane continua a diffondersi a macchia d’olio intorno alle condizioni laceranti dell’Attesa di un Godot che non arriva, e di capitali ed investimenti che non affluiscono. E come in tale dramma, anche sulla scena del restructuring italiano i personaggi vivono l’incertezza e la crisi d’identità e di ruolo di Vladimiro ed Estragone. Sullo sfondo di un gigantesco deficit patrimoniale si erge la desolazione di una politica lontana, assente, e di un’antipolitica tutta proiettata verso una deriva populistica, di un paese che vive da troppi anni una fase di declino, senza idee, e che non riesce a valorizzare i suoi giovani, dove ogni giorno si annunciano riforme epocali che vengono sistematicamente rimandate, e dove si fanno riforme che vanno subito riformate. In questo quadro immobile e al contempo in continuo e apparente movimento, come in Aspettando Godot i più appaiono disorientati, i confini e i ruoli sono sempre più labili, e la realtà continua ad essere alterata dai “commutatori cartacei” che mostrano illusorie chimere, arabe fenici, miraggi all’orizzonte. La paura determina e ispira i comportamenti, e la furbizia prevale sulla strategia: la contingency orienta la miopia del breve, mentre l’assenza di visione strategica mina il futuro dei più. E sono sempre gli incolpevoli a doverne pagare il conto.
E’ rimasto poco tempo, e occorre subito intervenire. Bisogna spezzare l’Attesa di Godot a darsi da fare. Dobbiamo mettere a frutto l’esperienza di questi ultimi anni e ripensare a un sistema di prevenzione e cura della crisi d’impresa più equo, rapido e meno costoso, con meno bizantinismi e regole più chiare e con minori incertezze interpretative ed applicative. Non possiamo salvare tutte le imprese, ma solo quelle che dimostrano di avere un progetto, serio e fattibile, di risanamento e rilancio. Occorre fare una profonda riforma economica e produttiva per far affluire nuovi capitali di rischio alle imprese, rilanciando investimenti, ricerca ed innovazione, senza la quale non si andrebbe da nessuna parte. Occorre creare una cultura della best practice e favorire i necessari processi di riorganizzazione all’interno delle banche, chiamate in questa fase di crescita continua degli stock di credito deteriorato a valutare l’idoneità delle manovre di risanamento e la fattibilità economica delle stesse. Nel nostro paese deve prevalere una logica di sistema, e non più le logiche corporative e delle lobbies.
Milano, dicembre 2013
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Numero Protocolo Interno : 719/2013