ISSN 2385-1376
Testo massima
L’impugnazione tramite revocatoria, sia ordinaria che fallimentare, degli accordi patrimoniali tra i coniugi, nell’ambito della separazione consensuale, non può ritenersi preclusa, né dall’avvenuta omologazione dell’accordo di separazione, cui resta affatto estranea la funzione di tutela dei terzi creditori, né dalla pretesa “inscindibilità” della pattuizione stessa dal complesso delle altre condizioni della separazione.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sezione prima, con la sentenza n.8516 del 12.04.2006, a chiarimento di una questione tanto dibattuta quanto delicata, riguardante interessi contrapposti e di difficile bilanciamento, stante il potenziale coinvolgimento di diritti ed obblighi di rilievo costituzionale.
Nel caso sottoposto al vaglio del Giudice di legittimità, il fallimento di un gruppo editoriale conveniva in giudizio in primo grado la moglie consensualmente separata del fallito, al fine di ottenere la revoca ex artt. 67 e 69 l.fall. dell’atto con il quale, in riforma dei precedenti accordi di separazione consensuale, quest’ultimo aveva costituito diritto di abitazione in favore della consorte sulla casa coniugale.
Il Tribunale accoglieva la domanda e la Corte d’Appello confermava tale pronuncia, precisando che vi era inoltre sproporzione tra quanto concesso dal fallito con l’atto impugnato e quanto da lui ricevuto (nella fattispecie, l’esonero dal versamento mensile della somma di L.750.000,00 al coniuge separato).
La S.C., chiamata a pronunciarsi sulle contestazioni proposte dalla moglie del fallito, ha preliminarmente richiamato la natura “privatistica” della separazione consensuale, in quanto atto negoziale bilaterale a carattere non contrattuale, «rispetto al quale il provvedimento di omologa si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia».
Le clausole che, poi, nell’ambito di tali patti, prevedono il trasferimento di beni immobili danno vita a veri e propri contratti atipici, diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela.
Da qui la precisazione che non può escludersi che simili atti siano lesivi dell’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente e che siano, di conseguenza, soggetti a revocatoria, tanto ordinaria quanto fallimentare.
Per il Collegio, infatti, non si discute di una revocatoria “della” separazione, ma “nella” separazione, la quale «mira a colpire [
] non la separazione in sé, ma il segmento della fattispecie complessa in cui si annida il vulnus alle aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio».
Quale tutela, allora, per il coniuge che vede inevitabilmente modificata in peius la propria posizione a seguito della revocatoria?
Gli ermellini precisano che questi ha facoltà di allegare tale modifica quale fatto sopravvenuto idoneo a legittimare la revisione delle residue condizioni della separazione ex art. 711 cpc, comma 5. E, ancora, che non può essere esclusa in virtù del fatto che l’atto di trasferimento sia stato predisposto per assolvere all’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole, ovvero dei figli, in quanto «l’azione revocatoria non pone in discussione la sussistenza dell’obbligo in sé, quanto piuttosto le modalità di assolvimento del medesimo, quali stabilite dalle parti nell’ambito di un regolamento [
] “convenzionale“».
Tali argomentazioni sono corroborate, nella fattispecie di cui trattasi, dalla circostanza che la revocata alienazione formava oggetto di un accordo modificativo intervenuto successivamente all’omologa della separazione e quindi non era difficile individuare il carattere spiccatamente autonomo dell’atto dispositivo rispetto ai complessivi accordi di separazione, non potendosi avere dubbi circa la distinta impugnabilità con l’azione revocatoria, al fine di evitare il pregiudizio ai creditori del coniuge disponente.
La Corte di legittimità, con la pronuncia in esame, ha chiarito in maniera definitiva la corretta interpretazione del combinato disposto degli artt. 67 e 69 l.fall., stabilendo un principio ermeneutico basilare – ed ancora attuale – per la giurisprudenza chiamata ad affrontare il delicato tema della revocabilità degli atti traslativi inseriti negli accordi di separazione.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
P.M.F;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO alfa;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Tarante n. 218 depositata il 4 luglio 2002;
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 10 dicembre 1996 il fallimento alfa conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Taranto la Sig.ra P.M.F., moglie consensualmente separata del M., esponendo che in sede di separazione consensuale, omologata dal medesimo Tribunale l’11 luglio 1988, il M. e la P. avevano stabilito che la casa coniugale sita in Taranto, alla Via (OMISSIS), acquistata in regime di comunione dei beni, sarebbe rimasta nella esclusiva disponibilità del merito. Questi, per parte sua, avrebbe corrisposto alla moglie – oltre all’assegno di mantenimento per lei stessa e la figlia, di cui era affidataria – un ulteriore assegno mensile di L. 750.000, quale contributo alle spese per il reperimento di altro alloggio.
Con successivo ricorso al Tribunale di Taranto del 29 gennaio 1994, omologato con decreto del 3 febbraio 1994, i coniugi avevano peraltro chiesto ed ottenuto la modifica delle anzidette condizioni, convenendo, in specie, che la casa di proprietà comune venisse destinata ad abitazione della P.. A tal fine, il M. aveva costituito sull’immobile, per la quota di sua spettanza, il diritto di abitazione in favore della consorte per l’intera durata della di lei vita, venendo correlativamente dispensato dal contributo mensile di L. 750.000 in precedenza pattuito.
Di tale atto, trascritto nei registri Immobiliari, il fallimento chiedeva la revoca ai sensi della L.Fall., artt.69 e 67, comma 1, n. 1, in quanto stipulato in pregiudizio dei creditori dell’imprenditore fallito.
Nella resistenza della convenuta, la domanda veniva accolta dal Tribunale adito con sentenza del 13 giugno 2000, successivamente confermata, a seguito del gravame della P., dalla Corte d’Appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 4 luglio 2002.
La Corte Territoriale negava in specie validità alla tesi dall’appellante, secondo cui l’accordo intervenuto in sede di separazione consensuale rimarrebbe estraneo alla sfera di operatività della L.Fall., artt. 67 e 69. Osservava, al riguardo, come la disposizione dell’art.69, comma 1 – in forza della quale gli atti di cui al precedente art.67, compiuti tra i coniugi nel tempo in cui il fallito esercitava un’impresa commerciale, sono revocati se il coniuge non prova che ignorava lo stato di insolvenza del coniuge fallito – dovesse considerarsi applicabile a tutti gli atti posti in essere tra i coniugi in costanza di matrimonio, ancorchè in pendenza di uno stato di separazione personale. E ciò sia perchè la modifica consensuale delle condizioni della separazione, se pur soggetta ad omologazione da parte del tribunale, resta un atto di natura pattizia; sia perchè la citata L.Fall., art.69, sul presupposto che il coniugo rappresenti il “complice naturale” dell’imprenditore insolvente nel compimento di atti pregiudizievoli ai creditori, lo sottopone ad una disciplina più rigorosa di quella prevista in rapporto alla generalità dei terzi.
La Corte di merito riteneva sussistente, inoltre, la sproporzione – contestata viceversa anch’essa dall’appellante – tra quanto concesso dal fallito con l’atto impugnato (il diritto di abitazione sulla metà dell’immobile di sua spettanza) e quanto da lui ricevuto (l’esonero dall’obbligo di versare mensilmente al coniuge separato la somma di L. 750.000). A tale conclusione inducevano sia il pregio dell’immobile (composto da dieci vani e mezzo “più accessoria, con annesso giardino”) sia l’elevato valore di “capitalizzazione” del diritto di abitazione, stante la giovane età della beneficiarla (nata nel 1957); sia, infine, la circostanza che, a seguito dell’accordo modificativo, il M. veniva a sobbarcarsi le spese per il reperimento di un diverso alloggio, quando invece l’obbligo di versamento mensile originariamente assunto avrebbe avuto termine – in correlazione alla sua finalità – allorchè la P. fosse venuta a godere di altra idonea abitazione.
Per la Cassazione di tale sentenza propone ricorso la P. sulla base di due motivi, cui resiste il curatore del fallimento M. con controricorso, illustrato da successiva memoria.
Motivi della decisione
1. – Con il PRIMO MOTIVO la ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” ( art.360 cpc, n.3), assumendo che – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito – l’accordo intercorso tra i coniugi in sede di separazione consensuale, regolarmente omologato dal tribunale, non potrebbe essere estrapolato dall’insieme delle condizioni in cui e incorporato ricompreso nell’ambito applicativo della L.Fall., art. 67, che riguarda “rapporti del tutto autonomi sul piano economico”.
In ogni caso, la sentenza impugnata avrebbe completamente ignorato che la disposizione invocata dalla curatela a fondamento della domanda richiede che la prestazione del fallito sorpassi notevolmente la controprestazione.
2. – Con il SECONDO MOTIVO la P. lamenta “omessa ed insufficiente motivazione” ( art.360 cpc, n.5), censurando che la Corte territoriale abbia rigettato il proprio gravame senza alcuna valida motivazione sia per quanto concerne l’ambito di applicazione della L.Fall., art.67, sia, e soprattutto, per quel che attiene alla sproporzione tra le prestazioni, apoditticamente affermata dai Giudici di appello in assenza di qualsiasi elemento di prova, prova che sarebbe stato per converso onere del curatore fornire.
3.1. – Il primo motivo, nella parte in cui è volto contestare l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare della pattuizione oggetto di giudizio, non è fondato.
In accordo con i postulati della concezione c.d. “privatistica” della separazione consensuale – a cui favore militano tanto il tenore letterale dell’art.158 cc, comma 1, e art.711 cpc, comma 4, quanto i limiti ai poteri di controllo del Giudice prefigurati dall’art. 158 c.c., comma 2, – questa Corte ha difatti ripetutamele affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale – più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale e salvo quanto appresso si dirà, del connotato della “patrimonialità”) – rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile con le norme cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonchè di controllare, in termini più pregnanti, che l’accordo relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l’interesse di questi ultimi. Con la conseguenza, tra l’altro, che l’avvenuta omologazione lascia affatto impregiudicata la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali (Cass., 29 marzo 2005, n. 6625; Cass., 4 settembre 2004, n. 17902; Cass., 20 novembre 2003, n. 17607; Cass., 5 marzo 2001, n. 3149).
Al tempo stesso, questa Corte ha costantemente riconosciuto la validità delle clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti fra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cass., 15 maggio 1997, n. 4306; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110) con particolare riguardo ai riflessi fiscali, Cass., 20 maggio 2005, n. 11458; Cass., 22 maggio 2002, n. 7493), ovvero la costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis. per quanto al presente interessa, il diritto di abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cass., 12 giugno 1963, n. 1594) clausole che presentano, peraltro, una loro propria “individualità”, quali espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti interessate (cfr. Cass., 2 dicembre 1991, n. 12897), dando vita, nella sostanza, a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili nè al paradigma delle convenzioni matrimoniali nè a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ. (Cass., 17 giugno 2004, n. 11342; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110; Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500; Cass., 27 ottobre 1972, n. 3299; con riguardo altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cass., 17 giugno 1992, n. 7470).
L’attuazione del genere considerato, nondimeno, ben possono rivelarsi lesive, in concreto, dell’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente eventualità nella quale nessun ostacolo testuale o logico – giuridico si frappone alla loro impugnazione – ove ricorrano i relativi presupposti – tramite azione revocatoria, tanto ordinaria (cfr., al riguardo Cass., 23 marzo 2004, n. 5741) che fallimentare.
Tali azioni non possono ritenersi precluse, difatti, nè dall’avvenuta omologazione dell’accordo di separazione, cui resta affatto estranea la funzione di tutela dei terzi creditori, e che, per quanto detto, lascia comunque inalterata la natura negoziale della pattuizione) nè – contrariamente a quanto assume l’odierna ricorrente – dalla pretesa “inscindibilità” della pattuizione stessa dal complesso delle altre condizioni della separazione.
E’ del tutto evidente, in effetti, che nell’ipotesi considerata si discute non già di una (peraltro difficilmente concepibile) revocatoria “della” separazione, quanto piuttosto di una revocatoria “nella” separazione: l’impugnativa mira a colpire, cioè, non la separazione in sè, ma il segmento della fattispecie complessa in cui si annida il vulnus alle aspettative di soddisfacimento dal ceto creditorio. Il che, peraltro, e perfettamente ammissibile a fronte della rimarcata autonomia delle pattuizioni di cui si va discorrendo, non giovando addurre, in direzione contraria, che l’ablazione del singolo “tassello” finisce inevitabilmente per squilibrare i rapporti fra i coniugi separati, quali risultanti dal complessivo assetto convenzionale. Al di là, infatti, della generale facoltà accordata al soccombente in revocatoria dalla L.Fall., art.71, la tutela del coniuge, che abbia visto modificata in peius la propria posizione a seguito del vittorioso esperimento della revocatoria, resta affidata alla facoltà di allegare l’anzidetta modifica quale fatto sopravvenuto idoneo a legittimare la revisione delle residue condizioni della separazione, a norma dell’art.711 cpc, comma 5.
Nè, infine, una preclusione all’esperimento dell’azione revocatoria potrebbe essere ravvisata nella circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore siano stati concretamente pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli t obbligo di fonte legale, rientrante, come tale, nel c.d. contenuto necessario dell’accordo di separazione. E’ agevole replicare, difatti, che nel frangente l’azione revocatoria non pone in discussione la sussistenza dell’obbligo in sè, quanto piuttosto le modalità di assolvimento del medesimo, quali stabilite dalle parti nell’ambito di un regolamento, per questo verso, di matrice spiccatamente “convenzionale”. 3.2. – Le conclusioni ora esposte si impongono d’altro canto a fortiori allorchè – come nella fattispecie in esame – il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore non facciano parte dell’originario “pacchetto” delle condizioni della separazione consensuale omologata, ma formino invece oggetto di un accordo modificativo intervenuto successivamente tra i coniugi, esaurendone in pratica i contenuti.
Per un verso, infatti, al lume della giurisprudenza di questa Corte, le modificazioni degli accordi, convenute dai coniugi successivamente all’omologazione della separazione, trovando fondamento nel principio di autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c., sono valide ed efficaci anche a prescindere dall’intervento del Giudice ex art. 710 cod. proc. civ., ove non varchino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 cod. civ, (Cass., 11 giugno 1998, n. 58291 Cass., 22, gennaio 1994, n. 657; Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270;
Cass., 22 aprile 1982, n. 2481). Onde diviene ancor più difficile ravvisare un ostacolo alla revocabilità dell’accordo modificativo nell’avvenuta omologazione, neppure indispensabile ai fini dell’efficacia dell’accordo stesso.
Per altro verso, poi, risulta ancor più palese, nel caso considerato, l’autonomia dell’atto dispositivo rispetto ai complessivi accordi di separazione e, di conseguenza, la sua distinta impugnabilità con l’azione revocatoria al fine di evitare il pregiudizio ai creditori del coniuge disponente che ad esso eventualmente consegua.
4. – Il secondo motivo – che, per l’identità di oggetto, può essere esaminato congiuntamente alla seconda parte del primo motivo – è anch’esso infondato.
La sussistenza della sproporzione tra le prestazioni delle parti, richiesta dalla disposizione di cui alla L.Fall., art. 67, comma 1, n. 1, – In base alla quale la curatela ha proposto la domanda di revoca – lungi dall’essere stata ravvisata dalla Corte di merito in termini puramente assertivi, e stata affermata sulla scorta di un’articolata analisi della fattispecie concreta, che si sottrae a censura in questa sede, in quanto scevra da incongruenze e da vizi logici.
La Corte Territoriale ha soppesato infatti comparativamente, da un lato, l’entità della prestazione del coniuge poi fallito alla luce della consistenza oggettiva dell’immobile sul quale il diritto di abitazione è stato costituito e del valore di tale diritto in rapporto alla prevedibile durata della vita del coniuge beneficiario dall’altro lato, il vantaggio corrispettivo conseguito dal disponente (esonero dell’obbligo di corrispondere un assegno mensile di L. 750.000), ponendo l’accento – ai fini della conclusiva valutazione di carenza di congruità – sulla circostanza che mentre tale obbligo era stato prefigurato ab origine come temporaneo, essendo destinato a cessare, stante la sua causale, allorchè la P. fosse venuta a disporre di una idonea residenza; di contro, l’atto impugnato poneva il M. nella necessità di affrontare a propria volta le spese per il reperimento di altra abitazione.
5. – Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna P.M.F. al rimborso delle spese processuali in favore del fallimento ALFA di M.C., liquidate in Euro 1.600,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 gennaio 2006.
Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2006
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Numero Protocolo Interno : 642/2006