In tema di conto corrente con apertura di credito, l’affidamento è assoggettato al requisito formale “pieno” richiesto dall’art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993 (c.d. TUB), sicché va provato mediante la produzione della relativa scrittura, non essendo sufficiente che risulti dal libro fidi o che il suo contenuto possa essere eventualmente ricostruito attraverso la menzione nel report della Centrale Rischi.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Genovese – Rel. Crolla, con l’ordinanza n. 13063 del 12 maggio 2023.
Il Tribunale di Ancona, con sentenza, in accoglimento della domanda proposta dalla Curatela del Fallimento e dei soci illimitatamente responsabili, dichiarava l’inefficacia L. Fall., ex art. 67, comma 2 (nella versione anteriore al D.L. n. 35 del 2005) delle rimesse solutorie affluite sul conto corrente acceso presso la banca convenuta dalla società in bonis nell’anno anteriore al fallimento per un importo di Euro 407.618, in conformità con la prima ipotesi formulata dal CTU che teneva conto delle rimesse in ordine cronologico e senza fido, condannando la Banca predetta al pagamento del suindicato importo oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria.
Sull’impugnazione della banca, la Corte di Appello di Ancona, in parziale accoglimento dell’appello, dichiarava revocati i pagamenti nei limiti della somma complessiva di Euro 93.813,63 e condannava la Curatela alla restituzione alla Banca della somma di Euro 240.000, pagata in esecuzione della sentenza di primo grado.
Il Fallimento propone ricorso per Cassazione affidandosi a dieci motivi, di cui con il primo si denuncia che il contratto di apertura di credito non poteva essere provato attraverso presunzioni in quanto, essendo un contratto bancario, l’art. 117 t.u.b. ne prescrive la forma scritta ad substantiam.
Per la Suprema Corte questa censura merita accoglimento, ove si affronta la questione della prova dell’esistenza del fido bancario che si pone a monte della tematica dell’anteriorità e dell’opponibilità al Fallimento della scrittura privata di data certa.
Ai sensi del combinato disposto di cui del D. Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, commi 1 e 3 (applicabile ratione temporis al caso di specie) “i contratti sono redatti per iscritto ed un esemplare è consegnato ai clienti nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo“.
Il comma 2 della disposizione testè citata stabilisce anche che il C.I.C.R., mediante apposite norme di rango secondario, possa prevedere che particolari contratti, per motivate ragioni tecniche, siano stipulati in forma diversa da quella scritta.
Al riguardo la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che, in forza della Delib. C.I.C.R. 4 marzo 2003, il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, non deve, a sua volta, essere stipulato per iscritto a pena di nullità (cfr. Cass. 2017, n. 7763), principio, questo, da intendere nel senso che l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta, ma solo una relativa attenuazione della stessa che, in particolare, salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà assoggettato il “contratto figlio” (Cass. 27836/2017).
Nella specie il tema della sostanziale regolamentazione dell’affidamento nel contratto di conto corrente non risulta essere stato oggetto di trattazione, sicchè è senz’altro da ritenere che il contratto di apertura del fido fosse assoggettato al requisito formale “pieno” richiesto dall’art. 117 del Testo Unico Bancario.
Ne consegue che la Banca avrebbe dovuto provare il dedotto affidamento esclusivamente mediante la produzione della relativa scrittura, non essendo sufficiente, come già chiarito dalla Cassazione, che l’affidamento risulti dal libro fidi (Cass. 5 dicembre 1992, n. 12947; Cass. 20 giugno 2011, n. 13445), e tanto meno che il suo contenuto possa essere eventualmente ricostruito attraverso la semplice menzione nel report della Centrale Rischi.
La Corte di Appello ha, quindi, errato nel compiere l’accertamento sulla opponibilità del fido al fallimento senza prima aver verificato che la pattuizione fosse sostenuta dal requisito formale previsto dall’art. 117 t.u.b (cfr. da ultimo Cass. 926/2022).
Pertanto, la Corte ha parzialmente accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinviato la causa per nuovo esame alla Corte di Appello di Ancona in diversa composizione cui demanda anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio.
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