ISSN 2385-1376
Testo massima
In materia di revocatoria fallimentare, è rilevante, ai fini dell’esclusione del presupposto oggettivo di revocabilità, la presenza di un affidamento in essere, in quanto costituisce il criterio di valutazione del carattere solutorio o ripristinatorio delle rimesse.
In presenza di conto corrente affidato, ove il correntista abbia utilizzato l’importo nei limiti del fido, senza trovarsi mai in condizione di “scoperto”, le rimesse in conto corrente non sono revocabili, in quanto non costituiscono “pagamenti”, come sostiene in maniera unanime la giurisprudenza di legittimità e di merito, non rinvenendosi pronunce di segno opposto.
La cessione di credito alla banca, disciplinata sin dall’inizio del rapporto come eventuale mezzo di pagamento per tutti i rapporti di anticipi su fatture, non costituisce mezzo anormale di pagamento e pertanto non è revocabile.
La mancata revoca degli affidamenti è presunzione insuperabile della mancata conoscenza dello stato di decozione dell’impresa correntista.
L’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al decreto Marzano non può evidentemente essere utilizzato come univoco indice rivelatore dello stato di insolvenza altrimenti tutte le aziende che utilizzano quello strumento dovrebbero lamentare con i propri istituti di credito l’abusivo finanziamento, laddove invece il crinale tra il legittimo sostegno finanziario alle attività produttive garantito dal sistema creditizio ed il finanziamento indebito volto ad aggravare l’esposizione debitoria del debitore, è molto labile perché prevedrebbe che la banca, pur formalmente non revocando le linee di credito, avrebbe fatto indebite “pressioni” per rientrare dal credito.
Con questi rilevanti principi di diritto, il Tribunale di Padova, in persona del Dott. Giorgio Bertola, con sentenza del 11 novembre 2014, ha risolto una controversia tra l’amministrazione straordinaria di una impresa in liquidazione e la banca, con la quale la prima aveva intrattenuto un rapporto di conto corrente affidato.
In particolare, la correntista in persona del commissario liquidatore aveva convenuto in giudizio l’istituto di credito per ottenere la declaratoria di inefficacia ex art. 67 L.Fall degli accrediti sul conto corrente, incassati a suo dire indebitamente, a causa della asserita conoscenza dello stato di insolvenza.
Nel caso di specie, l’impresa debitrice aveva ottenuto un affidamento complessivo di euro 621.000,00 regolato in euro 50.000,00 per “credito in c/c a rientro programmato” e ulteriori euro 571.000,00 per “scoperto c/c garantito da cessioni di crediti commerciali”.
Nel respingere la domanda di parte attrice, il Tribunale ha evidenziato chiaramente la rilevanza dell’affidamento in conto corrente rispetto alla sussistenza (o insussistenza, nella specie) dei requisiti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria ex art. 67 L.Fall.
In punto di diritto – ha sottolineato il Giudice patavino è noto che il discrimen tra accrediti revocabili ed accrediti irrevocabili viene posto dalla giurisprudenza assolutamente unanime (“non si rinviene alcuna sentenza di segno contrario”) nell’individuazione della natura solutoria o meramente ripristinatoria dell’accredito stesso.
Solo le rimesse c.d. solutorie costituiscono, infatti, veri e propri pagamenti e, come tali, possono minare la par condicio creditorum, in quanto i versamenti in conto corrente c.d. “affidato” possono ben costituire meri accrediti ripristinatori della provvista messa a disposizione dalla banca.
Ebbene, per attribuire natura solutoria o ripristinatoria alle rimesse, la giurisprudenza adotta un criterio ormai consolidato, ritenendo solutorie (e, quindi, revocabili) quelle rimesse effettuate su conto che risulti “scoperto” sia perché, non essendo assistito da apertura di credito, presenti un saldo a debito del cliente; sia perché il pur consentito indebitamento abbia ecceduto i limiti del fido convenzionalmente accordato al correntista.
In tale situazione, secondo la distribuzione dell’onere probatorio sancita dal citato art. 67, alla curatela fallimentare spetta la dimostrazione della sussistenza della rimessa, della sua esecuzione nel periodo “sospetto”, e della “scientia decoctionis” da parte della banca, mentre quest’ultima ha l’onere di provare la natura non solutoria del versamento, eventualmente documentando l’esistenza, all’epoca, di un contratto di apertura di credito in ampliamento rispetto a quella precedentemente concessa.
È questo, peraltro, l’orientamento corrente espresso dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez.I, sent. n.14087 del 01.10.2002).
In altri termini, è solutoria e revocabile la rimessa effettuata con operatività c.d. in nero, mentre risulta non revocabile (in quanto meramente ripristinatoria della provvista) la rimessa effettuata quando il conto è “in rosso”.
Sul punto, la soluzione della controversia nel caso di specie non è risultata problematica, in quanto la società correntista non aveva mai operato oltre i limiti della linea di credito concessa dalla banca, così limitandosi a ripristinare la provvista con versamenti che, in quanto non aventi natura di pagamento, non potevano ritenersi revocabili.
Altra è la questione del requisito soggettivo (la conoscenza dell’insolvenza da parte della banca) per l’esperimento della revocatoria fallimentare.
Il Tribunale ha notato, aderendo alle argomentazioni difensive dell’istituto di credito, che la sussistenza (e la mancata revoca) dell’affidamento per un importo, oltretutto, assai elevato poteva essere ritenuto indice (ed anzi si parla espressamente di “presunzione insuperabile”) della mancata conoscenza della c.d. scientia decoctionis.
La banca, cioè, dimostrando “fiducia” nella solvibilità della correntista non poteva in effetti dirsi a conoscenza dello stato di insolvenza. Viceversa, infatti, avrebbe dovuto come nell’id quod plerumque accidit revocare senza indugio gli affidamenti.
Sul requisito soggettivo di revocabilità, il Giudice ha altresì precisato che l’ammissione dell’imprenditore alla procedura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al “decreto Marzano” non può evidentemente essere utilizzato come univoco indice rivelatore dello stato di insolvenza, altrimenti tutte le aziende che facciano ricorso a questa procedura dovrebbero lamentare l’abusivo finanziamento, essendo assai labile il confine tra legittimo sostegno finanziario ed il finanziamento indebito ad un soggetto ormai decotto.
D’altronde, l’attore aveva “velatamente” dedotto che la convenuta, pur formalmente non revocando le linee di credito, avrebbe fatto indebite “pressioni” per rientrare dal credito stesso, con ciò avvalorando la scientia decoctionis, ma tale è stata ritenuta del tutto inconsistente dal Tribunale, nonché non sorretta da alcuna prova.
A margine, in sentenza viene altresì chiarito come la cessione di credito non costituisca, di per sé, strumento anormale di pagamento (e pertanto soggetto a revocatoria) o, meglio, non lo sia tutte le volte in cui la cessione sia regolamentata “automaticamente” nell’originario contratto banca-cliente quale mezzo eventuale di pagamento scelto tra le parti per tutti i rapporti di anticipi su fatture.
In effetti, la cessione di credito è revocabile quando risulti mezzo estemporaneo per ridurre l’esposizione debitoria, cagionando spesso un “danno” economico quando avvenga per un prezzo assai inferiore al valore effettivo del credito.
Quando invece la cessione sia disciplinata sin dal sorgere del rapporto, essa non può altresì aver rilevanza da un punto di vista soggettivo, per configurare le indebite “pressioni” al momento del sorgere delle difficoltà economiche.
Per tutte le ragioni fin qui esposte, il Tribunale ha respinto la domanda proposta dal commissario liquidatore, condannando altresì la procedura alla rifusione di euro 21.387,00 per spese e competenze del giudizio.
IL COMMENTO
La decisione affronta e chiarisce diversi punti-chiave del contenzioso tra organi della procedura concorsuale e istituti di credito in materia di revocatoria, fornendo diversi spunti sull’interpretazione dell’istituto disciplinato dall’art. 67 L.Fall.
La pronuncia è indice di un ragionevole mutamento di rotta della giurisprudenza nei confronti delle aziende di credito, laddove il discrimen tra rimesse solutorie e ripristinatorie consente di fornire una soluzione equilibrata al problema della revocabilità degli accrediti in conto corrente, senza minare alla solidità del principio della par condicio creditorum.
Sotto altra ottica, altrettanto bilanciata appare la valutazione della mancata revoca degli affidamenti, connotata positivamente per l’istituto di credito quale segno di “fiducia” nei confronti dell’imprenditore in stato di difficoltà economica e non come forma di indebita “pressione” (per la quale comunque il commissario liquidatore non è riuscito a fornire la prova).
L’affermarsi di tale orientamento potrebbe valutarsi positivamente in una prospettiva di maggiore flessibilità del rapporto tra banca e cliente in stato di difficoltà economica, almeno nei termini in cui consente agli enti creditizi di non bloccare i “rubinetti del credito” per il timore di una eventuale e successiva revocatoria delle rimesse in conto corrente ovvero per la contestazione dell’abusivo finanziamento di cliente insolvente.
D’altronde, quando l’imprenditore-correntista versi in stato di difficoltà economica sono due le strade alternative a disposizione dell’istituto di credito: continuare a valutare positivamente il suo merito creditizio e, dunque, accordare o mantenere in essere i finanziamenti necessari all’esercizio dell’impresa, ovvero revocare gli affidamenti già accordati, dando però corso ad una “spirale” negativa verso l’inevitabile insolvenza. Tertium non datur.
In tal senso, l’atteggiamento maggiormente flessibile della giurisprudenza può risultare dirimente in periodo di perdurante crisi economica per la gestione della crisi stessa, evitando alle banche, per tutelare cautelativamente la propria posizione, la necessità di un atteggiamento di chiusura nei confronti del cliente.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 621/2014