ISSN 2385-1376
Testo massima
Non è ammissibile l’appello nel quale l’appellante si limiti a ribadire le proprie richieste respinte dal giudice del primo grado, senza prendere in esame la motivazione di rigetto e senza sottoporla a critica, essendo necessario che alla parte volitiva dell’atto di appello si accompagni sempre la parte argomentativa, tesa a confutare le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, mediante l’esposizione sufficientemente specifica delle ragioni su cui si fonda il gravame, le quali hanno la funzione fondamentale di delimitare l’ambito della cognizione del giudice di secondo grado.
Le segnalazioni alla Centrale Rischi, relative al solo sconfinamento tra accordato e utilizzato e non anche a sofferenze- non consentono di ritenere raggiunta con certezza la prova della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza, a fronte peraltro di conti correnti che appaiono costantemente movimentati anche con addebiti di assegni bancari emessi, evidenzianti che la banca nel periodo in considerazione continuava ad avere fiducia nella società.
E’ quanto disposto dalla Corte di Appello di Napoli, I Sezione, giudice relatore dott. Dacomo, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf, proposto da una curatela nei confronti di una banca e già rigettato in primo grado per la ritenuta mancanza del requisito soggettivo.
In particolare, è accaduto che una curatela fallimentare proponeva azione di revocatoria fallimentare ex art. 67 lf avente ad oggetto rimesse bancarie.
A supporto della prova della conoscenza dello stato di insolvenza, il Fallimento deduceva, tra l’altro, le risultanze della CENTRALE RISCHI ed, in particolare, lo sconfinamento tra il fido accordato ed il fido utilizzato.
Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo non essere stata provata la conoscenza dello stato di insolvenza della fallita, ampiamente motivando su ciascuno degli elementi forniti dalla curatela.
Il Fallimento impugnava la suddetta sentenza e la Banca, costituitasi nel giudizio di appello, eccepiva, tra l’altro, la inammissibilità del gravame ex art. 342 cpc per aver l’appellante riproposto gli stessi argomenti svolti nelle difese del giudizio di primo grado, nonché l’insussistenza del requisito soggettivo.
La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza in esame, ha aderito ad entrambe le eccezioni.
Sul primo punto, la Corte partenopea, muovendo dalla natura del giudizio di appello quale revisio prioris instantie e non iudicium novum, ha ben precisato come non sia sufficiente che la sentenza di primo grado sia impugnata nella sua interezza, essendo, invece, necessaria, l’impugnazione specifica dei singoli capi censurati, e l’esposizione analitica delle ragioni sulle quali si fonda il gravame, in contrapposizione con le ragioni addotte, nella sentenza impugnata, a giustificazione delle singole decisioni adottate.
La Corte aggiunge, poi, come non basti neanche richiamare le argomentazioni svolte ma non accolte dal giudice di primo grado, ma sia necessario esaminare l’iter argomentativo della decisione, al fine di contrapporre alle argomentazioni ivi svolte quelle contrastanti dell’appellante, volte a confutare il fondamento logico o giuridico della decisione impugnata.
Orbene, la Corte afferma di non rinvenire nulla di tutto ciò nel gravame proposto, in cui, ad avviso del collegio, non vengono assolutamente riportate le parti della motivazione non condivisibili e le correlate motivazioni contrapposte, ma soltanto, in via generica, le stesse deduzioni svolte in primo grado.
Nel merito, poi, la Corte conferma quanto espresso dal giudice di primo grado con riferimento alla mancata prova della conoscenza dello stato di insolvenza.
Sul punto, infatti, vengono ritenuti irrilevanti i dati del bilancio che non potevano essere conosciuti alla data delle rimesse impugnate, nonché le segnalazioni alla Centrale Rischi, relative al solo sconfinamento tra accordato e utilizzato e non anche a sofferenze.
La Corte afferma, infatti, come tali elementi non consentano di ritenere raggiunta con certezza la prova della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza, a fronte peraltro di conti correnti che appaiono costantemente movimentati anche con addebiti di assegni bancari emessi, evidenzianti che la banca nel periodo in considerazione continuava ad avere fiducia nella società.
Sulla base di tali motivi, la Corte di Appello di Napoli ha rigettato il gravame, con condanna del fallimento alle spese di lite.
In relazione al connesso tema relativo alla classificazione “a sofferenza” dei conti operata dalle banche si confronti altra pronuncia del Tribunale di Napoli, dott.ssa Alessia Notaro, 9 gennaio 2015, n. 285.
Nel caso oggetto della pronuncia appena citata, una curatela agiva in revocatoria contro una banca al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia di alcune rimesse effettuate su conto corrente, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.fall. deducendo, a fondamento della domanda, quale unico elemento la circostanza che le rimesse sarebbero state effettuate su conti correnti già in sofferenza, pochi giorni prima della dichiarazione di fallimento.
Ebbene, il Tribunale ha rilevato che la classificazione operata da una banca di un conto appostato a sofferenza è elemento “non di per se idoneo a dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo“.
Infatti, non è possibile affermare che la banca, anche in presenza di una classificazione di un conto “a sofferenza”, abbia poi la possibilità di conoscere le difficoltà economiche e finanziarie dei propri clienti posto che, in tal modo ragionando, si rischierebbe di dar luogo ad una vera e propria inversione dell’onere della prova circa la dimostrazione della scientia decoctionis in capo all’istituto di credito.
La banca, pur potendo accedere alla Centrale dei rischi presso la Banca d’Italia, può non non poter avere conoscenza effettiva e concreta dello stato di insolvenza del debitore fallito sussistendo comunque in capo al curatore l’onere di dimostrare in giudizio le circostanze specifiche da cui la banca avrebbe potuto trarre la consapevolezza delle difficoltà economiche finanziarie del debitore.
Sul punto, vale la pena ricordare l’ultimo arresto della Cassazione, che, in un diverso ambito ed incidentalmente, ha affermato con la sentenza n. 26361 del 2014 che “la nozione di insolvenza ai fini della segnalazione del credito “in sofferenza” non si identifica con quella dell’insolvenza fallimentare, dovendosi piuttosto far riferimento ad una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “deficitaria”, ovvero come “grave difficoltà economica”, senza quindi alcun riferimento al concetto di incapienza ovvero di “definitiva irrecuperabilità“.
Se la nozione di insolvenza rilevante a detti fini si identificasse effettivamente con quella contemplata in ambito fallimentare e se il debitore potesse legittimamente essere appostato a sofferenza soltanto qualora versasse in uno stato di decozione, sarebbe allora frustrata l’utilità del servizio di centralizzazione dei rischi, poiché gli altri intermediari si troverebbero nell’impossibilità di attivarsi in tempo utile per cautelare la propria posizione.
Ebbene, riepilogando, se la nozione di insolvenza ai fini della segnalazione del credito “in sofferenza” non si identifica con quella dell’insolvenza fallimentare e se la classificazione operata da una banca di un conto come “a sofferenza” non rileva ai fini della prova della scientia decoctionis in capo all’azienda di credito, si potrebbe arrivare a sostenere che la segnalazione “a sofferenza” in centrale rischi, pur indicando un’anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d’impresa, non è di per se sufficiente da sola a dimostrare lo stato psicologico della banca in merito alla conoscenza dello stato di insolvenza nell’azione revocatoria ex art. 67, co 2, l. fall..
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 123/2015