ISSN 2385-1376
Testo massima
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimen tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione in data 7 gennaio con la pronuncia n. 13335, pubblicata il 12 giugno 2014, la quale fa espresso richiamo ad una precedente pronuncia della medesima Sezione Lavoro n. 7394 del 26 marzo 2010.
La Suprema Corte, respingendo nel caso di specie il ricorso di una società di pubblicità che aveva licenziato il proprio direttore generale, ha sottolineato la correttezza logico-giuridica dell’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello di Milano, che ha considerato illegittimo detto licenziamento perché non assistito da giusta causa, in quanto infondati gli addebiti disciplinari contestati al medesimo lavoratore.
Secondo i Giudici di legittimità, i primi tre motivi del ricorso sono infondati e vanno trattati in maniera unitaria, in quanto le censure evidenziate, seppur contenenti nell’intestazione, unitamente alla segnalazione di vizi della motivazione, la denuncia delle norme di cui agli artt. 2094, 2119, 2384 e 2697 c.c. ed all’art. 113 c.p.c., si risolvono comunque in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie e, dunque, opposta a quella eseguita in modo adeguato dalla Corte di merito.
La società ricorrente si duole del rilievo dato dalla Corte territoriale circa la contestazione disciplinare, nel momento in cui essa è pervenuta al convincimento che il rapporto di lavoro fosse di tipo subordinato e che fosse insussistente la giusta causa nel licenziamento in oggetto, in quanto il comportamento tenuto dal lavoratore era immune da rilievi.
La società si duole, altresì, del ragionamento formulato dai Giudici di secondo grado nel sostenere la validità del patto di durata minima del rapporto e censura la sentenza impugnata sotto l’aspetto di asseriti vizi di motivazione, laddove la stessa, contenendo una congrua ed adeguata valutazione in punto di fatto delle risultanze istruttorie, appare immune da rilievi di natura logico-giuridica.
Infatti, la Corte d’Appello, “nel qualificare il rapporto in esame come subordinato non ha limitato l’indagine al solo dato della rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore, fatto oggetto di apposito provvedimento cautelare da parte della società, in quanto alla stessa valutazione ha anteposto la disamina del dato documentale rappresentato dalla lettera di assunzione del 14 dicembre 1999, dalla quale emergeva che il S. era stato assunto come direttore generale con la qualifica di dirigente, tanto che nello stesso documento era stata richiamata l’applicazione del contratto collettivo nazionale dei dirigenti industriali, nonostante che il medesimo avesse mantenuto la carica di Presidente del consiglio di amministrazione”.
Inoltre, la medesima Corte d’Appello, nel valutare la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento, ha analizzato in maniera specifica gli addebiti mossi al lavoratore e gli specifici poteri di azione ed intervento all’interno dell’assetto aziendale a lui conferiti.
L’ultimo motivo di censura è dato dalla denuncia per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c., nonché dalla prospettazione dell’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa l’interpretazione della clausola di stabilità laddove questa è stata ritenuta superabile solo in conseguenza di una giusta causa di recesso. Anch’esso viene ritenuto dai Giudici della Corte di Cassazione infondato perché “appare corretta, sul piano logico-giuridico, l’interpretazione fornitane dalla Corte d’Appello, la quale ha chiarito che, una volta appurato che lo scopo della clausola in esame è quello di soddisfare l’interesse della datrice di lavoro ad assicurarsi la collaborazione del dirigente e di garantire a quest’ultimo la continuità della prestazione lavorativa attraverso la preventiva rinunzia della parte datoriale a recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro, il limite a tale rinunzia non può che essere identificato nella sussistenza di una giusta causa di recesso, cioè di una ragione che comporti il venir meno del vincolo fiduciario”.
Se, invece, si seguisse la tesi sostenuta dalla società ricorrente, il predetto limite verrebbe ad identificarsi con qualunque ipotesi di fatto imputabile al dirigente a prescindere dalla configurabilità dell’esistenza di una giusta causa di recesso legittimante la deroga alla garanzia della stabilità minima del rapporto prevista dal contratto. Ciò vanificherebbe le finalità di garanzia perseguite con la clausola in esame e rischierebbe di avallare una sorta di responsabilità oggettiva al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge.
Alla luce di tali considerazioni, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso, confermando il provvedimento impugnato.
Testo del provvedimento
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