ISSN 2385-1376
Testo massima
Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art.360 cpc, n.5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio“, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
Ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa.
Invero, la valutazione delle risultanze probatorie e la scelta, tra queste, di quelle considerate più adatte a supportare la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al Giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite se non quello di specificare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto ad esaminare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, pur non essendo menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione presa.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26392/2008 proposto da:
S.M.;
RICORRENTE
contro
F. SPA;
CONTRORICORRENTE
avverso la sentenza n. 2127/2007 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 31/10/2007 r.g.n. 1824/06;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Lecce, S. M., premesso di essere stato dipendente della F. SpA dal 1978 con mansioni di responsabile della fatturazione e del magazzino spedizioni, mansioni corrispondenti al 6^ livello (riconosciutegli a seguito di sottoscrizione di verbale di bonario accordo del gennaio 1996) e di aver svolto la propria attività lavorativa dapprima presso lo stabilimento di (OMISSIS) e quindi presso quello di (OMISSIS), aveva esposto che nel novembre del 1992 aveva subito un vero e proprio demansionamento fino alla totale privazione di ogni mansione.
Aveva, così, intrapreso le opportune azioni giudiziali che si erano concluse con diversi accordi (con l’ultimo dei quali gli era stato affidato il c.d. telelavoro, da svolgere presso la propria abitazione). Nonostante detti accordi, la sua inattività era proseguita fino a quando, in data 31/8/1999, era stato collocato in cassa integrazione.
Aveva impugnato anche tale provvedimento ottenendo pronuncia favorevole del giudice del lavoro che aveva riconosciuto la fondatezza delle sue ragioni e condannato la società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico, quantificato in Euro 35.000. La F. SpA aveva, quindi, disposto il suo rientro in servizio e tuttavia lo stato di inattività era proseguito fino a quando nel marzo del 2000 lo S. era stato nuovamente collocato in cassa integrazione per altri tre mesi.
Erano seguiti altri provvedimenti di collocamento in C.I.G., tutti egualmente impugnati. Infine, in data 12 luglio 2002, il ricorrente era stato licenziato per intervenuta soppressione dei reparti di taglio pelli, orlatura e fustellificio, nonchè degli uffici di programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro. Tanto premesso, aveva dedotto l’illegittimità del licenziamento intimato, per non aver mai operato nei reparti attinti dai provvedimenti di mobilità e licenziamento.
Aveva, altresì, evidenziato che il licenziamento costituiva l’ultimo dei comportamenti datoriali ingiusti e illegittimi che gli avevano procurato danni alla salute e alla vita personale e familiare e che la collocazione in cassa integrazione e il licenziamento avevano avuto un ruolo non secondario nell’insorgenza delle patologie da cui era affetto.
Aveva, quindi, chiesto la reintegra nel posto di lavoro con ogni conseguenza sul piano risarcitorio anche del danno biologico, quantificato in Euro 320.130,73 oltre accessori.
Si era costituita la F. SpA, e, preliminarmente, aveva eccepito che tutti gli accadimenti verificatisi fino al novembre 1999 erano coperti da altra sentenza del Tribunale (n. 9214/02), mentre gli accadimenti concretizzatisi nella collocazione in C.I.G. del ricorrente fino al gennaio 2001 erano stati posti a fondamento di altro ricorso.
Nel merito aveva contestato la fondatezza delle avverse pretese.
Il Tribunale aveva rigettato la domanda con decisione che era stata, poi, confermata dalla Corte di appello di Lecce.
La Corte territoriale aveva, in particolare, ritenuto legittimi tanto la messa in mobilità quanto il licenziamento osservando che si trattava di determinazioni datoriali attuative dell’accordo con le OO.SS. del 28 giugno 2002 e per le esigenze ivi indicate. Quanto al lamentato danno biologico, esistenziale ed alla vita di relazione (compreso il danno alla sfera sessuale) aveva osservato che la sentenza n. 9214/02 (resa nella causa n. 13056/99 e passata in giudicato) aveva coperto l’intero periodo in cui il ricorrente aveva lavorato presso l’azienda, rimanendo vittima di episodi che erano già stati oggetto di valutazione. Aveva, altresì, evidenziato che nella medesima sentenza n. 9214/02 era stato escluso che, dopo l’inizio dell’attività del telelavoro, che il ricorrente aveva svolto presso il proprio domicilio, e fino al novembre 1999, si fossero verificati altri episodi lesivi della sua persona morale e che anche per i periodi successivi gli ulteriori giudizi incardinato si erano conclusi con sentenze sfavorevoli al lavoratore. Aveva rilevato che per il periodo successivo oggetto del giudizio non era stato provato alcun danno biologico sottolineando, al riguardo, che la precedente inclusione dello S. nelle liste di mobilità era stata ritenuta corretta e legittima e che, salvo una parentesi di pochi mesi, egli aveva operato al di fuori dell’opificio già da numerosi anni.
Per la cassazione di tale sentenza S.M. propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso l’intimata Filanto S.p.A..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il PRIMO motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione della L. n.164 del 1975, art.5, e L. n. 223 del 1991, art.1, commi 7 e 8, in relazione all’art.360 cpc., n.3“. Deduce che la sentenza appare viziata nella parte in cui ha dichiarato legittimo il licenziamento del ricorrente, nonchè la sua messa in mobilità per esigenze legate alla intervenuta radicale “soppressione dei reparti di taglio, pelli, orlatura e fustellificio, nonchè degli uffici di programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro” con ciò sostanzialmente affermando che anche gli uffici di programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro avrebbero fatto parte della crisi della F. SpA ed altresì errato nel ritenere che lo S. fosse stato, in precedenza, incluso negli elenchi dei lavoratori collocati in C.I.G. per far da ciò discendere, come ovvia conseguenza, che il medesimo facesse parte di quei settori (programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro) interessati dalla procedura di mobilità. La Corte avrebbe dovuto, invece, richiedere alla F. di depositare almeno il Decreto Ministeriale che “estende” a tali settori la crisi con la previsione delle relative conseguenze.
Il motivo presenta diversi profili di inammissibilità.
Va, infatti, premesso che, trattandosi di impugnazione avverso una sentenza pronunciata in data 31 ottobre 2007 e dunque prima dell’entrata in vigore della novella di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art.47, comma 1, lett.d), che ha soppresso l’art.366 bis cpc, come introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n.40, art.6, detta ultima norma, nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della delibazione di ammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art.360 cpc, comma 1, nn.1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal n. 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cpc, all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art.360 cpc, n.5, (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione – cfr. in tal senso ex multis Cass. 25 febbraio 2009 -.
Orbene il motivo di ricorso non si conclude con un idoneo quesito di diritto, atteso che la richiesta avanzata alla Corte: “Se sia ammissibile che un lavoratore possa essere collocato in CIGS ovvero in mobilità e successivamente licenziato adducendo una crisi del settore al quale egli è addetto, senza che l’azienda abbia richiesto, attraverso una apposita domanda di integrazione salariale, la emanazione di un decreto autorizzativo, pur in presenza di un precedente decreto ministeriale che riconosceva la crisi per altri settori della stessa azienda e per tali settori autorizzava le richieste provvidenze” non presuppone un errore nella individuazione della norma regolatrice della fattispecie bensì l’erroneo riconoscimento, nella situazione di fatto come in concreto accertata, della ricorrenza di elementi costitutivi di una determinata fattispecie.
Tale prospettazione comporta un giudizio non già di diritto, bensì di fatto, impugnabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione.
In ogni caso non si evince quando la relativa questione si stata posta nel corso del giudizio di merito, rilevandosi anzi dalla sentenza di primo grado, nella parte di motivazione testualmente riportata nel controricorso dell’intimata – pag 45 -: “...peraltro, il ricorrente assumendo l’illegittimità del suo licenziamento, domanda la reintegra nel posto di lavoro, mentre, nelle conclusioni, non ha chiesto dichiararsi l’illegittimità della sua collocazione in CIGS con conseguente domanda di pagamento delle differenze retributive maturate nei periodi di CIGS illegittima. Se ne deve dedurre che il ricorrente ha denunciato tale illegittimità (assieme a quella del licenziamento) per dare corpo alla sua domanda di risarcimento del danno biologico, esistenziale e alla vita di relazione (compreso il danno alla sfera sessuale)….“, argomenti contrari all’avvenuta deduzione.
Peraltro, avverso detto passaggio motivazionale non risulta mossa alcuna specifica doglianza.
Si aggiunga che, sia pure ai limitati fini evidenziati dal primo giudice, l’illegittimità della collocazione in CIGS era sta dedotta, come si evince dal ricorso di primo grado (riprodotto nella sua interezza dal ricorrente in cassazione) solo sotto il profilo del mancato rispetto del criterio di rotazione e non, dunque, con riguardo alla asserita circostanza che la crisi non fosse mai stata dichiarata anche per i settori della programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro.
Non può, pertanto, in questa sede di legittimità dolersi il ricorrente dell’omessa verifica dell’esistenza di provvedimenti ministeriali autorizzativi che estendevano la crisi anche ai suddetti settori, laddove egli non aveva mai posto in dubbio tale circostanza, essendosi limitato a sostenere di non essere mai stato addetto ai reparti interessati ed in particolare di non aver mai svolto il telelavoro.
2. Con SECONDO motivo il ricorrente denuncia: “Omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art.360 cpc, n.5“.
Deduce che la Corte, quando ha ritenuto che “trattasi di licenziamento collettivo intimato ….. per esigenze tecniche e produttive legate alla intervenuta radicale soppressione dei reparti di taglio pelli, orlatura e fustellificio, nonchè degli uffici di programmazione, rifinizione e postazione di telelavoro, che rende non differentemente collocabili le unità ivi addette” non ha tenuto conto dei documenti presenti in atti dai quali si evinceva chiaramente che lo S. era stato fatto rientrare in azienda, essendo stata soppressa la postazione di telelavoro, per essere adibito a mansioni compatibili con il suo inquadramento.
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.
Lamenta il ricorrente l’omessa motivazione della sentenza impugnata circa un punto decisivo per il giudizio. Il motivo, che si conclude con la formulazione di un quesito di diritto, si colloca, invero, all’esterno dell’area dell’art.360 cpc, comma 1, n. 5, in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto.
Anche laddove riconducibile alla previsione di cui all’art.360 cpc, comma 1, n.5, – che, come è noto, consente di impugnare per cassazione una decisione “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”-, il motivo doveva, comunque, contenere, a pena di inammissibilità, “la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.
Nella specie il ricorrente si è limitato a chiedere a questa Corte:
“Se l’aver omesso la Corte territoriale di Lecce di valutare la documentazione in atti, dalla quale emerge chiaramente che lo S. non era addetto ad alcuno dei settori interessati alla crisi (così da giustificare il suo licenziamento) integri il vizio di omessa motivazione, incidendo su un punto decisivo della controversia tale da consentire un diverso esito del giudizio” con un quesito che, per l’estrema genericità della formulazione, non soddisfa l’esigenza posta dalla norma che è quella di una chiara enunciazione, attraverso la sintesi riassuntiva del fatto controverso e decisivo (idonea a consentire alla Corte di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso, senza necessità di un’attività interpretativa dell’intero motivo), delle ragioni che rendono, in caso di insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr. Cass. 25 febbraio 2009, n. 4556; Cass. S.U. 18 giugno 2008, n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007, n. 2063).
In buona sostanza, nella specie, l’individuazione del denunziato vizio di motivazione risulta impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte laddove, invece, per quanto evidenziato, è richiesto, ai fini della corretta formulazione del momento di sintesi, un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, essendo imposto un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (cfr. anche Cass. 18 luglio 2007, n. 16002).
Significativo è, del resto, che nel motivo di impugnazione si faccia riferimento al “punto decisivo della controversia” laddove la principale innovazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, è costituita dalla sostituzione del “punto decisivo” di cui all’art.360 cpc, con il “fatto controverso o decisivo“.
In ogni caso, manca nel ricorso ogni descrizione degli argomenti ovvero delle deduzioni che, in relazione alla posizione assunta dal lavoratore in giudizio, siano stati formulati, nella sede di merito, sulla base dei documenti indicati a pag.32 del ricorso (e cioè le note della società F. e, da ultimo, quella datata 25/11/1999).
In sostanza, pur a fronte di un preciso onere di allegare, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della questione, l’avvenuta prospettazione già dinanzi al giudice di merito della stessa, non vengono precisati nel ricorso per cassazione gli assunti svolti nel giudizio a qua in riferimento ai documenti dai quale la parte vorrebbe trarre ora argomenti a favore della propria tesi (non è sufficiente che un documento sia stato prodotto nel giudizio di merito, essendo necessario che lo stesso sia stato posto a fondamento delle ragioni esposte).
Peraltro, si evince dallo stesso contenuto dell’atto di appello riprodotto in sede di ricorso per cassazione che lo S., con riguardo al passaggio motivazionale della sentenza di primo grado secondo il quale le ultime due attività effettivamente svolte dall’appellante (telelavoro e lavoro amministrativo) rientrano tra quelle previste dalla procedura di cui alla L. n.223 del 1991, artt.4 e 24, si era limitato a contestare che il giudice non avesse spiegato le ragioni di siffatto convincimento ed a dedurre la mancanza di approfondimento, senza alcun espresso riferimento ai documenti dai quali ora pretende di ricavare argomenti a sostegno della fondatezza della pretesa.
Va, comunque, evidenziato che, a fronte di una motivazione della Corte territoriale che ha fatto chiaro ed esaustivo riferimento ad un licenziamento collettivo intimato in attuazione dell’accordo con le 00.SS. del 28/6/2002, il ricorrente, prospettando l’omessa motivazione in ordine a circostanze che, al contrario, avrebbero escluso, nei confronti dello S., l’operatività di tale accordo, postula un riesame degli atti di causa, non sussumibile nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art.360 cpc, n.5.
Valga, sul punto, il richiamo all’indirizzo generale consolidato in base al quale la valutazione delle risultanze probatorie e la scelta, tra queste, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. ex multis Cass. 9 aprile 2001 n.5231, id. 15 aprile 2004 n. 7201; 7 agosto 2003 n. 11933; 5 ottobre 2006 n. 21412).
Del resto, come pure è stato più volte precisato, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art.360 cpc, n.5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio“, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (si vedano, fra le altre, Cass. 7 giugno 2005 n. 11789, id. 6 marzo 2006 n. 4766).
Posto, dunque, che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza delle ragioni del proprio convincimento esplicitando il relativo iter motivazionale, resta esclusa l’esistenza del dedotto vizio di motivazione, ove si osservi che tale vizio non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito.
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, dovendo farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140.
Al riguardo va precisato che il D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art.9, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27, dispone: “1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, (omissis) 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il cento ventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto“.
Con Decreto 20 luglio 2012, n.140, è stato, quindi, emanato il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del citato articolo 9. Il Regolamento trova applicazione in difetto di accordo tra le parti in ordine al compenso (D.M. n. 140 del 2012, art.1, in riferimento al D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 4, conv. L. 24 marzo 2012, n. 27).
L’art. 41, di tale Decreto n. 140 del 2012, aprendo il Capo 7^ relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Il riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto nell’art. 41 citato (“le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”) depone per la soluzione interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza dell’abrogato sistema tariffario forense.
Nel nuovo sistema, che non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, ma esige che la valutazione dell’opera del professionista avvenga per fasi processuali (artt.4 e 11) e secondo parametri specifici (art. 11 e tabella A-Avvocati), l’apprezzamento dell’attività difensiva, alla stregua dei criteri di cui al secondo e terzo comma dell’art. 4, non è più correlato al momento in cui l’opera è prestata, ma al momento in cui questa viene valutata dal giudice.
Qualsiasi diversa soluzione interpretativa che consentisse l’applicazione del sistema tariffario alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del d.m. in esame contrasterebbe non solo con la disposizione regolamentare di cui all’art. 41 citato, ma anche con il dettato normativo di cui al D.L. n.1 del 2012, art.9, comma 3, conv. L. 24 marzo 2012, n.27, che ha – con chiarezza – escluso l’ultrattività del sistema tariffario oltre la data di entrata in vigore del decreto ministeriale, avvenuta anteriormente alla scadenza del termine (di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione) fissato per la transitoria applicazione del sistema tariffario abrogato.
Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nel menzionato art. 4 del D.M. e non ravvisandosi elementi che giustifichino un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 3.000,00, oltre Euro 40,00 per esborsi.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controparte, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 82/2013