ISSN 2385-1376
Testo massima
La rimessione in termini ex art.153 cpc è istituto di carattere generale, applicabile a tutti i termini processuali, e, di conseguenza, anche al termine perentorio prescritto dall’art.644 cpc per la notifica del decreto ingiuntivo al debitore, quando il procedimento di notificazione non si sia concluso positivamente per causa non imputabile al creditore.
Tanto può ricavarsi da una corretta interpretazione della normativa processualcivilistica e dall’orientamento giurisprudenziale in via di affermazione, su un istituto che ha acquisito un ruolo centrale nel nostro ordinamento, in virtù della peculiare “ricollocazione” dello stesso all’interno del codice di rito, ad opera della legge n.69/2009.
Per una corretta analisi, occorre prendere le mosse dal dettato normativo di cui all’art.153 cpc, disposizione dal seguente tenore:
I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti.
La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma.
La chiarezza del dato letterale non sembra porre particolari problemi interpretativi. Ciò che assume rilievo, piuttosto, è la collocazione (o, meglio, “ricollocazione”) sistematica della norma all’interno del codice di procedura civile.
L’istituto della rimessione in termini, infatti, (originariamente previsto dall’art.294 cpc per il solo caso del contumace che dimostrasse che la nullità della citazione o della sua notificazione gli avesse impedito di avere conoscenza del processo, ovvero che la costituzione gli fosse stata impedita da causa a lui non imputabile) era stato introdotto nel nostro ordinamento, come rimedio di carattere “tendenzialmente” generale, dalla legge n.353/1990, che aveva inserito un articolo ad hoc nel codice – segnatamente l’art.184-bis – all’interno del Titolo I del Libro II, rubricato “del procedimento davanti al tribunale“. Ne derivava un’applicazione evidentemente limitata a tale – specifico – grado del giudizio ORDINARIO, che conferiva in ogni caso alla norma una certa “specialità”.
Un’ulteriore limitazione era derivante dal fatto che il testo originario dell’art.184-bis prevedeva la possibilità di avvalersi della rimessione in termini SOLO ed ESCLUSIVAMENTE per la parte che dimostrasse di essere incorsa nelle decadenze previste dagli artt.183 e 184 cpc.
Una successiva estensione dell’ambito di applicazione della norma si era avuta con la legge n.534/1995, che modificava il testo dell’art.184-bis, adottando una formulazione identica a quella poi confluita nel secondo comma dell’art.153 cpc, già riportata supra.
È tuttavia solo con la riforma del 2009 (legge n.69) che la rimessione in termini ha assunto una portata “generale”, in virtù della nuova collocazione dell’istituto, confluito nel secondo comma dell’art.153 cpc, rubricato “improrogabilità dei termini perentori” ed inserito nel libro primo del codice, dedicato alle “disposizioni generali“.
Si è trattato di una innovazione, per un certo verso, “epocale” della nostra procedura civile, auspicata molto tempo addietro dagli operatori del diritto e da quella stessa dottrina che, tuttavia, non ha mancato di sottolinearne le criticità applicative derivanti da un intervento legislativo come spesso accade frettoloso ed emergenziale, che, lungi dall’operare correzioni organiche all’intero ordinamento, si è limitato ad insistere solo su taluni (e poco coordinati) aspetti “settoriali”.
In particolare, qualche autore ha evidenziato la mancanza, nel secondo comma dell’art.153 cpc, come novellato, della previsione di un termine entro il quale l’istanza di rimessione possa essere presentata, così come accade analogamente nel processo penale ex art.175 cpp (cfr. A.PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Appendice di aggiornamento, Napoli, 2010).
Tra le ipotesi di applicazione più rilevanti e controverse – dell’istituto in esame è certamente la richiesta di rimessione in termini per evitare la decadenza dal termine per la notifica del decreto ingiuntivo ex art.644 cpc.
A norma del detto articolo, infatti, il decreto di ingiunzione diventa inefficace, qualora la notificazione non sia eseguita nel termine di sessanta giorni dalla pronuncia se deve avvenire nel territorio della Repubblica, e di novanta giorni negli altri casi.
Sulla declaratoria di inefficacia si è ampiamente discorso su questa rivista nell’articolo “DECRETO INGIUNTIVO: EFFETTI DELLA TARDIVA NOTIFICA“, cui si rimanda per approfondimenti.
Appare evidente come, in ipotesi di declaratoria di inefficacia, tale conseguenza sia assai pregiudizievole per il creditore che, tempestivamente attivatosi per la richiesta di notifica e per il compimento delle attività di indagini anagrafiche ad essa correlate, non riesca a completare il procedimento notificatorio nel termine prescritto dalla legge, con un aggravio in termini di tempo e di spese della procedura monitoria (compresi i costi relativi alla notifica).
In tali casi, sembra del tutto logico concedere al creditore la possibilità di ricorrere allo strumento della rimessione in termini, sebbene non siano mancate tesi contrarie nella giurisprudenza.
Perché l’applicabilità dell’art.153 cpc, comma 2, al termine ex art.644 cpc sia comunque controversa è spiegato chiaramente dal Tribunale di Varese, con il decreto del 24 ottobre 2012 che si riporta in allegato alla presente analisi.
Nelle articolate motivazioni di tale provvedimento, si legge che la norma (vale a dire l’art.153, secondo comma cpc) ha la funzione di «ripristinare il contraddittorio» ove si sia verificata una decadenza cd. incolpevole, non legata, cioè, ad un fatto che sia imputabile alla parte decaduta. Si tratta di un rimedio di carattere eccezionale rispetto alla regola della immutabilità dei termini perentori.
Ciò premesso, il dubbio interpretativo sorge dalla corretta qualificazione del termine ex art.644 cpc, che, pur essendo un termine “processuale”, non è strettamente termine “del processo”, trattandosi di enunciato che non si colloca nella fase del contraddittorio, ma in una fase di anticipazione della tutela del creditore in assenza di effettiva inaugurazione della lite giudiziale.
Il Giudice varesino, tuttavia, ha ritenuto che una limitazione dell’ambito di applicabilità dell’istituto della rimessione in termini non è più coerente con la ricollocazione della norma tra le disposizioni generali del codice di rito, dal momento che la riforma del 2009 ha inteso modificare in maniera sostanziale pur lasciandone immutata la formulazione la regula juris.
Per tale motivo, non pare più contestabile che l’art.153, secondo comma, cpc si riferisca in generale a tutti i termini “processuali”.
D’altronde, se così non fosse, al creditore resterebbe la scelta tra due alternative:
– ripresentare il ricorso per ottenere una nuova ingiunzione, con il conseguente aggravio di tempi e di spese (ipotesi che stride fortemente con le recenti innovazioni legislative, improntate all’economia processuale ed alla deflazione del ricorso all’Autorità giudiziaria);
– notificare tardivamente il decreto ingiuntivo e trovarsi di fronte a due possibili conseguenze, vale a dire la mancata opposizione da parte degli ingiunti all’esito della quale il decreto diviene definitivo, dal momento che la tardività della notifica va eccepita in sede di opposizione ovvero costituirsi nel giudizio di opposizione eventualmente promosso ed ottenere in tale fase, a cognizione piena, una pronuncia sul merito della propria pretesa creditoria (per la quale, si ricordi, non è necessaria un’apposita domanda riconvenzionale, come spiegato ampiamente su questa rivista nell’articolo prima citato, all’esito della quale la condotta del creditore sarà rilevante ai fini del regolamento dell spese della procedura monitoria.
Orbene, è agevole rilevare come nessuna delle prospettate ipotesi possa dirsi ispirata ad un senso di giustizia “sostanziale”, ogniqualvolta la mancata notifica nel termine di sessanta giorni sia dipesa da causa non imputabile al creditore ricorrente.
Per tali motivi, la giurisprudenza sembra essersi allineata alla linea interpretativa seguita, tra gli altri, dal Tribunale di Varese, come risulta dai provvedimenti che si allegano.
Va da sé che l’art.153, secondo comma, cpc pone un preciso onere probatorio in capo al creditore, ricavabile dall’inciso “se dimostra [
]”.
Ed infatti, in una pronuncia che conferma “a contrario” la tesi qui sostenuta, la Corte di Cassazione ha sottolineato che la parte istante non possa beneficiare della rimessione in termini quando, notiziata dei precedenti tentativi negativi di notifica, non si sia attivata in un tempo contenuto per dare nuovo impulso al procedimento notificatorio, quando non sia ancora scaduto il termine ex art.644 cpc. Ed, inoltre, la domanda non può essere accolta quando la parte che richieda la rimessione non specifichi il momento in cui ha avuto conoscenza della mancata notifica, elemento rilevante per valutare se la decadenza sia stata o meno “incolpevole” (cfr. Cass.Civ., Sez. II, Sent., 19-10-2012, n. 18074).
In conclusione può affermarsi che la giurisprudenza riconosce, con poche eccezioni, l’applicabilità dell’art.153, secondo comma, cpc al termine di cui all’art.644 cpc e che, tuttavia, a tal fine, la parte istante è onerata da specifici obblighi di deduzione ed allegazione delle circostanze per cui la mancata notifica non sia addebitabile alla propria condotta.
Può convenirsi, inoltre, su come tale soluzione appaia giuridicamente la più logica, nonché complessivamente ispirata ad un senso di giustizia sostanziale e di economia processuale e che, quantunque non dovesse essere seguita dalla giurisprudenza, per il creditore può risultare comunque conveniente procedere tardivamente alla rinotifica, come ampiamente argomentato su questa rivista nelle conclusioni dell’articolo già citato , discutendosi in tal caso in ipotesi di declaratoria di inefficacia del solo regime delle spese della procedura monitoria.
Testo del provvedimento
In allegato il testo integrale del provvedimento emesso dal Tribunale di Varese il 4 ottobre 2012
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Numero Protocolo Interno : 173/2014