ISSN 2385-1376
Testo massima
La Cassazione, con la citata sentenza in commento torna ad occuparsi dell’aspetto dell’accettazione tacita dell’eredità e delle modalità attraverso la quali si realizza tale acquisto dell’eredità disciplinato espressamente dal legislatore all’articolo 476 c.c.
La sentenza annotata riporta le seguenti enunciazioni di principio:
In tema di successioni per causa di morte, un pagamento del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità con denaro ereditario, a differenza di un mero adempimento ex articolo 1180 c.c. dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita dell’eredità, non potendosi estinguere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede.
Nel caso in cui il chiamato adempia al debito ereditario con denaro proprio, invece, quest’ultimo può anche non accettare l’eredità.
La vicenda ha visto protagonista uno degli eredi in qualità di attore il quale proponeva al Tribunale competente la domanda volta ad ottenere, previa declaratoria di nullità e/o inefficacia della rinunzia all’eredità del genitore, deceduto in data 21.11.1986, la qualità di coerede legittimo del padre e, quindi, chiedeva che si procedesse alla divisione dell’eredità del de cuius nonché si ordinasse alle convenute di rendere il conto della gestione dei beni ereditari. L’attore sosteneva che la rinunzia all’eredità dovesse considerarsi nulla o, comunque, inefficace, per le seguenti motivazioni: la rinunzia all’eredità era stata compiuta non puramente e semplicemente, bensì realizzata nell’ambito di un accordo divisorio transattivo con altri eredi legittimi a fronte di una controprestazione rappresentata dall’attribuzione in capo al rinunciante di beni mobili ereditari e tale da configurare tecnicamente una rinunzia dietro corrispettivo ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 478 c.c. implicante accettazione tacita.
Inoltre l’attore adduceva a sostegno delle proprie motivazioni la circostanza secondo la quale anteriormente all’accordo divisionale compiuto per scrittura privata, lo stesso avrebbe provveduto al pagamento di un debito ereditario con denaro del de cuius e non invece con denaro proprio, qualificandosi tale adempimento non come mero adempimento del terzo ai sensi articolo 1180 c.c.
A parere dell’attore, l’autorità giudiziaria di primo e secondo grado avrebbero dovuto tenere in considerazione anche il comportamento successivo alla rinunzia all’eredità, in un’ottica di interpretazione del contenuto del contratto di cui all’articolo 1362 II comma c.c.
Nello specifico l’attore sosteneva che l’autorità giudiziaria dovesse tenere conto della manifestazione di volontà, e precisamente: “ai fini della inefficacia e/o invalidità della rinuncia, bisogna considerare il pagamento di L. 6.000.000 effettuato dall’odierno ricorrente in favore dello zio O.G. …: ciò che andava verificato è se il pagamento in questione è atto che non poteva che essere effettuato se non nella qualità di erede’ (così ricorso, pagg. 9 e 10); proprio la circostanza che nella specie l’O. abbia adempiuto ad “un modus/obbligazione naturale gravante sul padre in virtù del testamento del nonno paterno”, dimostra al di là di ogni possibile dubbio che l’odierno ricorrente si sia comportato proprio come il continuatore della personalità (anche e soprattutto morale) del padre e quindi appunto nella qualità di erede’ (così ricorso, pag. 10)“.
Le convenute eccepivano l’intervenuta prescrizione del diritto dell’attore di accettare l’eredità e, comunque, l’infondatezza nel merito delle avverse domande, strumentalmente esperite onde contrastare l’azione da esse proposta al fine di conseguire il rilascio di un immobile dal medesimo attore detenuto.
Il Tribunale adito rigettava la domanda dell’attore, il quale avverso la pronuncia del giudice di prime cure proponeva ricorso alla Corte di Appello. I giudici territoriali rigettarono il gravame confermando, così, la statuizione del giudice di primo grado.
Anche la Corte di Cassazione, a seguito del ricorso dell’attore, conferma la decisione della Corte di Appello competente.
I Giudici di legittimità hanno riconfermato quanto espresso dal giudice di primo grado e di secondo grado e, specificando che il pagamento de quo inerisse ad una situazione giuridica non trasmissibile agli eredi, hanno rigettato il ricorso adducendo la carenza probatoria in sede di escussione dei testi, i quali non hanno fornito chiari ed univoci elementi nelle loro deposizioni circa la qualificazione del denaro utilizzato dall’attore per il pagamento di tale obbligazione naturale, restando pertanto incerta la natura personale o ereditaria del denaro utilizzato.
Il Giudice di seconde cure, ha opinato, in fatto, nel senso che “manca del tutto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 527 c.c., la prova della sottrazione o dell’occultamento da parte dell’attore di beni mobili ereditari” (così sentenza d’appello, pag. 8)- tesi anch’essa sostenuta dalla difesa dell’attore, tale da ingenerare l’accettazione dell’eredità in capo al chiamato.
La Corte poi si sofferma sull’aspetto funzionale – teleologico degli atti compiuti tra la data del decesso de cuis e la rinunzia, specificando la mancanza di elementi concreti probatori da cui poter desumere l’applicazione del principio vigente nel nostro ordinamento “semel heres semper heres” e conseguentemente la mancanza dei presupposti per l’applicabilità degli articoli 478 c.c. e 527 c.c.
Difatti la Corte si esprime in tale modo “
. Al riguardo va posto in risalto che, alla stregua della prefigurazione che il medesimo O.P. ha operato sin dal giudizio di prime cure, vi sarebbe stato margine perché la rinunzia all’eredità che in data 27.11.1986 ebbe ad effettuare, potesse esser riconosciuta inefficace e tamquam non esset, solo se ed in quanto si fosse, in primo luogo, acquisita conferma del compimento da parte dello stesso ricorrente, ovviamente nell’esiguo lasso temporale compreso tra il 21.11.1986, di del decesso del padre, e il 27.11.1986, di della rinunzia all’eredità, di atti valevoli come accettazione dell’eredità a lui delata (invero, l’indiscutibile operatività nel nostro sistema positivo del principio semel heres, semper heres avrebbe reso vano, sterile il susseguente atto di rinunzia), solo se ed in quanto, in secondo luogo, fosse stato possibile ascrivere la rinunzia del ricorrente nel solco delle astratte prefigurazioni di cui all’art. 478 c.c., solo se ed in quanto, infine, fosse stata acquisita conferma del compimento di atti rilevanti ex art. 527 c.c..
In questi termini, si rimarca che più che correttamente il giudice di secondo grado ha provveduto a verificare il riferimento cronologico delle risultanze istruttorie e ad acclararne puntualmente la posteriorità rispetto alla data del 27.11.1986″.
Da tali motivazioni emergono pertanto, a parere della scrivente, vari
principi come corollari:
1) La rinuncia all’eredità, infatti, può essere riconosciuta inefficace solo se, fra la data di decesso del de cuius e quella di sottoscrizione della rinuncia stessa, è possibile ascrivere al soggetto che rinuncia il compimento di atti rilevanti, previsti dal codice civile come indicativi o impositivi di una accettazione tacita dell’eredità, a nulla rilevando atti successivi alla rinunzia, che invero hanno margine di operatività nella misura in cui possono determinare la revoca della rinunzia di cui all’articolo 525 c.c. solo ove ricorrano i presupposti;
2) Il pagamento di debiti ereditari, pro quota nei limiti di cui all’articolo 752 c.c oppure anche oltre il criterio proporzionale ivi espresso presuppone un atto di accettazione tacita solo qualora i debiti vengano adempiuti con denaro prelevato dall’asse ereditario, mentre qualora vengano adempiuti con denaro proprio degli eredi tale comportamento non è automaticamente riconducibile all’accettazione tacita, in quanto nel nostro ordinamento sussiste il principio della liceità del pagamento di un debito compiuto da un soggetto terzo rispetto ad un rapporto obbligatorio ai sensi dell’articolo 1180 c.c. la cui provvista appunto non deriva dal patrimonio del soggetto de cuius originario debitore.
La causa di tale adempimento ai sensi di cui all’articolo 1180 c.c., come ritenuto da autorevole dottrina, in tale senso è variabile.
Pertanto, l’adempimento del terzo ai sensi di cui all’articolo 1180 c.c. nei termini sopra indicati (pagamento di debiti ereditari con denaro proprio) non potrà determinare in capo al chiamato l’assunzione della qualità di erede, in quanto esclude che si tratti di un atto che il chiamato non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede ai sensi dell’articolo 476 c.c., perché non è sintomatico della volontà univoca di accettare l’eredità ( in tale senso anche recentemente Tribunale di Modena n. 818 del 16 maggio 2012);
3) Il termine di prescrizione per l’accettazione dell’eredità è decennale ai sensi dell’articolo 480 c.c.. Inoltre, l’accettazione tardiva è valida anche oltre il termine di prescrizione decennale, salvo l’accettazione già validamente compiuta da altri chiamati e salvo l’eccezione di prescrizione (sia in via giudiziale che in via stragiudiziale) esperibile dai soggetti che hanno interesse contrario;
4) E’ quantomeno opportuno coordinare i poteri del chiamato all’eredità di cui all’articolo 460 con il pagamento dell’obbligazione naturale.
Se è vero in primis che l’obbligazione naturale trova la fonte in doveri morali e sociali e non in obblighi giuridici, e come tale non è trasmissibile mortis causa (salvo la possibilità di novazione da obbligazione naturale in obbligazione civile, mediante un’esecuzione indiretta dell’obbligazione naturale medesima riconosciuta da una parte della dottrina), come corollario il chiamato all’eredità che adempia tale obbligazione naturale con denaro proprio e non con denaro ereditario, comunque esplicherebbe attività di tipo conservativo o di amministrazione o di gestione del patrimonio ereditario in senso lato ai sensi dell’articolo 460 c.c. e quindi le eventuali spese sostenute (tra cui il pagamento del debito ereditario, per quanto tecnicamente non avente fonte giuridica, potrebbe essere rimborsabile ai sensi dell’articolo 461 c.c. alla luce della meritevolezza dell’interesse sotteso, della tutela dell’affidamento e del principio di buona fede.
In via residuale, vi potrebbe essere lo spazio per l’applicazione dell’articolo 2041 c.c., azione generale di indebito arricchimento, operando in tema di obbligazioni naturali il principio della soluti retentio, qualora il debito naturale adempiuto esorbiti le capacità reddituali del solvens (cioè difettando nel pagamento compiuto il requisito dell’adeguatezza e della proporzionalità rispetto al patrimonio del solvens), e lo stesso potrebbe esperire, nei termini prescrizionali e ove ricorrano i presupposti, l’azione generale di arricchimento di cui all’articolo 2041 c.c. nei confronti del creditore per l’eccedenza (analogamente ai principi applicabili in tema di obbligazioni tra conviventi, anch’esse qualificabili quali obbligazioni naturali, e ai rapporti con l’eventuale azione generale di arricchimento Cassazione civile 25554/2011; Cass. 15 maggio 2009, n. 11330).
Secondo la citata sentenza n. 25554/2011:”
contemporaneamente, la nozione di arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., va intesa, indifferentemente, sia in senso qualitativo che in senso quantitativo e può consistere tanto in un incremento patrimoniale, quanto in un risparmio di spesa e, più in generale, in una mancata perdita economica. Correlativamente il depauperamento può consistere tanto in erogazioni di un’entità pecuniaria, quanto in attività o prestazioni di cui si avvantaggia l’arricchito.
E poiché l’indennizzo previsto dall’art. 2041 c.c., è finalizzato a reintegrare il patrimonio del depauperato, esso va commisurato all’arricchimento, riconoscendo, in via sostitutiva, al depauperato un quid monetario “nei limiti” dello stesso arricchimento (perché, altrimenti, si verificherebbe un arricchimento nel senso inverso)“.
La sentenza annotata richiama, invero, un altro precedente recente in tema di accettazione tacita dell’eredità e precisamente Cassazione civile sez. II del 27 agosto 2012 n. 14666. In tale sentenza, contrariamente alla precedente sentenza sopra commentata n. 1634/2014, la Cassazione ha riconosciuto la qualità di erede in capo al chiamato per effetto di un pagamento effettuato a titolo transattivo con
denaro ereditario.
Così ha stabilito la Cassazione in seguito al ricorso presentato da due fratelli contro il terzo, il quale aveva chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria relativamente a due beni pervenuti per successione a seguito della morte del padre. I due si opposero a tale richiesta eccependo la prescrizione del diritto del fratello ad accettare l’eredità e contestandone il diritto a chiedere lo scioglimento della comunione.
Il ricorso venne rigettato in quanto il soggetto in questione aveva effettuato il pagamento del debito,entro il decennio dall’apertura della successione, a seguito della notifica di un atto di precetto da parte della banca e senza contestare la propria qualità di erede. Il pagamento inoltre era stato compiuto in via di transazione, quindi non effettuabile quale adempimento del terzo ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 1180 c.c. ma soltanto da colui che si ritenesse e presentasse quale erede, unico legittimato a transigere.
Inoltre il soggetto aveva pagato solo la sua quota di parte, nell’ottica della divisibilità delle obbligazioni ereditarie di cui all’articolo 752 c.c., dimostrando così un reale interesse nei confronti dell’asse e dando prova della propria accettazione tacita dell’eredità.
Invero, in linea teorica, il legislatore individua espressamente esempi di accettazione tacita indicati all’articolo 477 e 478 c.c. e precisamente la vendita e la donazione di diritti ereditari, la rinunzia agli stessi nei confronti di alcuni o di tutti i chiamati dietro un corrispettivo, ma il panorama concreto è variegato e suscettibile di notevoli implicazioni pratiche.
Per quanto concerne la natura giuridica della fattispecie giova ricordare che si manifestano due orientamenti contrapposti, uno di tipo oggettivo e l’altro di tipo soggettivo.
Per una prima impostazione, invero avvalorata da parte della dottrina , ma che trova precedenti in alcune pronunce della giurisprudenza risalenti, sarebbe necessario ricercare la sussistenza dell’animus del soggetto chiamato, ossia la manifestazione di volontà espressione concreta della volontà di accettare, e diretta alla produzione di effetti tipici previsti dal legislatore. La fattispecie, in sostanza integrerebbe un negozio giuridico di attuazione.
Per altro verso, invece, secondo l’orientamento dominante in dottrina e secondo la giurisprudenza più recente , è necessario valutare il mero compimento dell’atto che si qualificherà quale accettazione tacita qualora obiettivamente presupponga la volontà del soggetto agente.
Secondo una nota tesi sviluppata da Santoro Passarelli la distinzione tra atto giuridico e negozio giuridico rileva nei seguenti termini: “Se l’atto rileva come mero presupposto di effetti determinati dalla legge, allora appartiene alla categoria degli atti giuridici in senso stretto. Se l’atto rileva invece come autonoma manifestazione della volontà del soggetto agente, tesa alla produzione di effetti giuridici predeterminati dall’ordinamento, indipendentemente dalla sussistenza dell’animus dell’agente circa la volontarietà di porre in essere quell’atto, esso rileva quale negozio giuridico“.
La ricostruzione dogmatica dell’istituto in parola, dunque, tiene conto di due presupposti enucleati all’articolo 476 c.c.:
1) L’atto compiuto presuppone necessariamente la volontà di accettare del chiamato all’eredità, in quanto pur mancando l’accettazione espressa formulata nei modi richiesti dalla legge, è presente in capo al chiamato la consapevolezza circa la delazione attuale in suo favore;
2) L’atto è espressione della sua qualità di erede, e il soggetto chiamato non potrebbe compierlo se non rivestisse a priori tale qualità.
Tale ultimo presupposto, invero, non appare pleonasticamente indicato del legislatore, in quanto il dato fenomenico consente di tratteggiare le differenze tra gli atti compiuti dal chiamato all’eredità ex articolo 460 c.c. espressione di poteri conservativi, di gestione e di ordinaria amministrazione, e come tali non implicanti l’accettazione tacita dell’eredità, dagli atti che esorbitano dai parametri di cui al citato articolo 460 c.c e come tali espressione di accettazione tacita.
La casistica giurisprudenziale ha manifestato quanto non sia univoca un’indagine in tale senso, e a titolo esemplificativo è stato considerato atto di accettazione tacita ad esempio: l’esperimento di un’azione di riduzione, l’esperimento di azione di risoluzione di un contratto originariamente stipulato dal de cuius, la riscossione di un credito vantato dal de cuius (espressione di un atto dispositivo), la proposizione di una domanda giudiziale di divisione ereditaria, la partecipazione ad un contratto di divisione ereditaria, mentre non integrerebbero ipotesi di accettazione di eredità la richiesta di registrazione di testamento, la denuncia di successione, il pagamento di imposte, il compimento di atti meramenti conservativi (ad esempio il rifacimento di un immobile ereditario in stato di conservazione pessimo la cui non manutenzione in tale senso determinerebbe un deprezzamento del valore economico dello stesso nel mercato immobiliare).
In altra ipotesi, ad esempio, la Cassazione con sentenza n.10796/2009 ha espresso, con una sentenza dalla motivazione alquanto discutibile, un principio consistente nel riconoscere alla voltura catastale compiuta da un chiamato la qualifica di atto di accettazione tacita, individuando nella materialità del compimento dell’atto stesso gli estremi di cui all’articolo 476 c.c., senza invero compiere un’analisi circa la sussistenza dell’elemento psicologico da parte del chiamato all’eredità. In tale ultima pronuncia, pertanto, la Cassazione sembra aver ricondotto tale atto di voltura catastale nell’alveo dell’accettazione tacita dell’eredità attribuendo allo stesso natura giuridica di atto giuridico in senso stretto e non di negozio, atto avente secondo l’orientamento giurisprudenziale in commento valenza non solo fiscale ma anche civilistica.
Del resto, tale interpretazione giurisprudenziale si colloca nel solco di quel filone interpretativo prevalente che tende a riconoscere la natura oggettiva piuttosto che quella soggettiva dell’atto di accettazione tacita dell’eredità.
In un’ultima recente decisione giurisprudenziale Cassazione n.263/2013 la Corte ha ritenuto configurabile l’accettazione tacita dell’eredità anche nella richiesta di voltura di una concessione edilizia, qualificandosi la stessa non come atto meramente conservativo del patrimonio ereditario, ma come atto funzionalmente collegato ad un atto dispositivo.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDO CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 8578/2008 R.G. proposto da:
O.P. – (OMISSIS), rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avvocato (OMISSIS)ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Filippo Civinini n. 49, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS)
– ricorrente –
contro
M.M.F. – (OMISSIS) – e O.A. –
(OMISSIS) – entrambe rappresentate e difese, in virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’avvocato (OMISSIS), entrambe elettivamente domiciliate in Roma, alla via Crescenzio n. 25, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS);
– controricorrenti –
Avverso la sentenza n. 486 dei 25.10/5.11.2007 della corte d’appello di Messina;
Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 13 dicembre 2013 dal consigliere Dott. Luigi Abete;
Udito l’avvocato (OMISSIS), per delega dell’avvocato (OMISSIS), per il ricorrente;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto in data 31.3.2000 O.P. citava a comparire innanzi al tribunale di Messina M.M.F., coniuge superstite del padre, O.C., e la sorella consanguinea, O. A..
Chiedeva, previa declaratoria di nullità e/o inefficacia della rinunzia all’eredità del genitore, deceduto in data 21.11.1986, rinunzia da egli attore operata il 27.11.1986, che gli si riconoscesse la qualità di coerede legittimo del padre e, quindi, che si procedesse alla divisione dell’eredità del de cuius nonchè si ordinasse alle convenute di rendere il conto della gestione dei beni ereditari.
A sostegno delle esperite istanze deduceva che la rinunzia all’eredità doveva considerarsi nulla o, comunque, inefficace, giacchè effettuata nell’ambito di un accordo sostanzialmente divisorio intercorso fra gli eredi legittimi di O.C., ossia tra egli attore, il fratello F., la sorella consanguinea A. e la seconda moglie del padre, M.M.F., ed, in ogni caso, giacchè operata a seguito e successivamente al compimento da parte di egli attore di atti comportanti accettazione tacita o legale dell’eredità; soggiungeva che analoga rinunzia era stata effettuata dal fratello F. e che, viceversa, le convenute avevano accettato l’eredità.
Costituitesi, le convenute eccepivano l’intervenuta prescrizione del diritto dell’attore di accettare l’eredità e, comunque, l’infondatezza nel merito delle avverse domande, strumentalmente esperite onde contrastare l’azione da esse proposta al fine di conseguire il rilascio di un immobile dal medesimo attore detenuto.
Con sentenza in data 14.9.2004 il tribunale di Messina rigettava le domande dell’attore e condannava il medesimo O.P. a rimborsare alle controparti le spese di lite.
Interponeva appello O.P., instando per la riforma della gravata sentenza.
Si costituivano e resistevano le appellate.
Con sentenza dei 25.10/5.11.2007 la corte d’appello di Messina rigettava il gravame, così confermando la statuizione di prime cure, e condannava l’appellante a rimborsare alle appellate le spese del grado.
In particolare, disattesa previamente la reiterata eccezione di parte appellata di intervenuta prescrizione del diritto dell’appellante di accettare l’eredità, la corte distrettuale, in relazione al secondo, al terzo, al quarto ed al quinto motivo di gravame e, quindi, ai fini del riscontro dell’asserita accettazione tacita dell’eredità, idonea, a giudizio dell’appellante, in dipendenza del principio semel heres, semper heres, a render nulla e, comunque, priva di effetti l’operata rinuncia all’eredità, opinava per “la scarsa se non nulla rilevanza… della escussa prova testimoniale e la rilevanza contraria all’assunto attoreo della documentazione prodotta dalle parti” (così sentenza d’appello, pag. 6); in relazione al primo motivo di gravame, ai fini cioè del riscontro della valenza non meramente abdicativa o dismissiva, della rinunzia all’eredità, la corte messinese opinava nel senso che “tutti gli esaminati elementi se, in sè considerati, non valgono a costituire accettazione tacita o legale della eredità da parte dell’attore, complessivamente considerati non valgono, con evidenza, ad escludere alla rinunzia dell’attore all’eredità la tipica funzione abdicativa per ricollegarvi invece l’invocata (dall’attore) funzione traslativa” (così sentenza d’appello, pag. 9); ed, altresì, soggiungeva “che, anche secondo l’assunto dell’attore, nella specie non si avrebbe propriamente una rinunzia traslativa comportante accettazione ai sensi dell’art. 478 c.c., ma una rinunzia collegata ad una convenzione tra i chiamati alla medesima eredità (peraltro alcuni soltanto, restando escluso il coniuge superstite) diretta a limitare, nei rapporti interni, l’efficacia della rinunzia” (così sentenza d’appello, pag. 9).
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso O.P., chiedendone, sulla scorta di quattro motivi, la cassazione; con il favore altresì delle spese di ogni grado.
M.M.F. ed O.A. hanno depositato controricorso; concludono per il rigetto dell’avverso ricorso, con il favore delle spese del giudizio di legittimità.
Il ricorrente ha depositato in data 4.12.2013 memoria ex art.378 c.p.c.
Motivi della decisione
Va dato atto, previamente, che M.M.F. ed O. A. hanno, dapprima ed invano, in data 30.4.2013, tentato la notificazione del controricorso alla via (OMISSIS), di questa città, ove, presso lo studio dell’avvocato Fulvio Lunari, O.P. ha eletto domicilio; indi hanno, in data 14.5.2008, atteso alla notificazione del controricorso presso la cancelleria di questa Corte.
Più esattamente va precisato, per un verso, che all’indirizzo suindicato, alla stregua delle dichiarazioni rese dal portiere dello stabile, l’avvocato Lunari è risultato sconosciuto, per altro verso, che il tentativo di notifica nel domicilio eletto – siccome pretende l’art.370 c.p.c., comma 1, – è stato inutilmente esperito – appunto – in data 30.4.2008, allorchè, dunque, il termine di venti giorni a decorrere dal dì – 10.4.2008 – di scadenza del termine ex art.369 c.p.c., comma 1, per il deposito del ricorso ex art.360 c.p.c., non era ancora giunto a compimento.
Con il PRIMO MOTIVO il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 102 c.p.c., comma 2, e art. 354 c.p.c., comma 1.
All’uopo adduce che il giudice dell’appello ha dato atto della mancata proposizione delle iniziali istanze di egli ricorrente nei confronti del fratello F., coerede e litisconsorte necessario; nondimeno, sulla scorta di tale rilievo il medesimo giudice di seconde cure avrebbe dovuto applicare l’art. 354 c.p.c., comma 1, e rimettere la causa al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio.
Con il SECONDO MOTIVO il ricorrente deduce in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.
All’uopo adduce che la corte messinese “in un primo momento ha ritenuto rilevante e necessario al fine del decidere considerare nel loro complesso i comportamenti prima atomisticamente vagliati e poi, del tutto immotivatamente, non ha proceduto a tale coordinata disamina ed ovviamente non ha nemmeno spiegato (nè avrebbe potuto sulla base di tale premessa) le ragioni che imponevano il rigetto del primo motivo di appello” (così ricorso, pag. 6);
Con il TERZO MOTIVO il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 1343 c.c., art. 1362 c.c., comma 2, e art. 1324 c.c., nonchè degli artt. 476, 478 e 527 c.c.
All’uopo adduce che la corte di merito “ha attribuito rilievo decisamente negativo ed ostativo… alla circostanza che alcune delle vicende (dalle quali si doveva trarre la predetta nullità e/o inefficacia) si erano svolte a distanza di tempo dalla rinuncia medesima” (così ricorso, pagg. 6 e 7); che “tuttavia tali assunti si pongono… in irrimediabile contrasto con l’art. 1362 cpv. c.c., (applicabile alla specie in virtù del rinvio contenuto nell’art. 1324…) in quanto la norma dettata in tema di interpretazione del contratto impone di tenere conto del comportamento tenuto dalle parti anche successivamente alla conclusione del contratto e, nel nostro caso, posteriormente all’atto unilaterale costituito dalla rinuncia il quale doveva necessariamente essere interpretato anche alla luce dei comportamenti successivi tenuti dal dichiarante” (così ricorso, pag. 7); che “se la C.A. avesse osservato tale precetto non avrebbe potuto non ritenere incompatibili con la rinuncia (e tali da paralizzarne l’efficacia e/o pregiudicarne la validità) l’essersi l’ O. attribuiti beni dell’eredità paterna e crediti spettanti al de cuius, a prescindere dal momento in cui tali comportamenti si erano verificati” (così ricorso, pagg. 7 e 8); che, “avuto riguardo all’accordo in ordine alla divisione dei beni mobili provenienti dall’eredità paterna, che risulta per tabulas intervenuta tra i germani O…., deve essere argomentato che la collocazione cronologica non aveva e non ha alcun rilievo ponendosi, al contrario, come parziale attuazione del più comprensivo accordo divisorio intervenuto dagli eredi prima della rinunzia all’eredità e di cui quest’ultima era soltanto un passaggio” (così ricorso pag. 8); che la riferita conclusione trova riscontro nel letterale tenore della missiva in data 10.9.1994, missiva di cui nè la M.M. F. nè O.A. avevano mai messo in dubbio e contestato, la paternità, il contenuto e la veridicità; che “il Giudice di Appello… avrebbe dovuto assegnare alla divisione dei beni ereditari… il valore che essa ha (e non può non avere) ai sensi dell’art. 476 c.c. Così procedendo non si sarebbe potuto fare a meno di applicare il principio semel heres semper heres dichiarando così inefficace la rinuncia all’eredità” (così ricorso pag. 9);
che “nel medesimo errore di prospettiva è poi incorsa la Corte messinese quando si è trattato di valutare, ai fini della inefficacia e/o invalidità della rinuncia, il pagamento di L. 6.000.000 effettuato dall’odierno ricorrente in favore dello zio O.G….: ciò che andava verificato è se il pagamento in questione è atto che non poteva che essere effettuato se non nella qualità di erede” (così ricorso, pagg. 9 e 10); che “proprio la circostanza che nella specie l’ O. abbia adempiuto ad “un modus/obbligazione naturale gravante sul padre in virtù del testamento del nonno paterno”, dimostra al di là di ogni possibile dubbio che l’odierno ricorrente si sia comportato proprio come il continuatore della personalità (anche e soprattutto morale) del padre e quindi appunto nella qualità di erede” (così ricorso, pag.10).
Con il QUARTO MOTIVO il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt.112 e 116 c.p.c.
All’uopo adduce che, in relazione alle deposizioni rese dai testimoni T. e O., la corte di merito ha affermato che i medesimi testimoni “hanno confermato solo il versamento da parte dell’attore allo zio O.G. della somma di L. 6.000.000” (così sentenza d’appello, pag. 6); che, nondimeno, in considerazione di quanto esplicitamente riferito dagli stessi testimoni, “non può dirsi affatto (come argomentava già il giudice di primo grado) che le testi abbiano negato la circostanza che il denaro con il quale è stato effettuato il pagamento di L. 6.000.000 da O.P. allo zio G. non sia stato prelevato dall’asse ereditario. In realtà le sig.re T. ed O. non hanno puntualizzato tale circostanza”; che, benchè la corte distrettuale, sin dall’atto d’appello fosse stata sollecitata a disporre la rinnovazione parziale della deposizione testimoniale affinchè tale circostanza fosse opportunamente precisata, nulla ha statuito al riguardo; che “in tal guisa la Corte territoriale ha disatteso e violato gli artt. 112 e 116 c.p.c., in quanto non ha accolto una istanza istruttoria certamente rilevante e conducente, ma al contempo ha attribuito alla prova orale una portata che essa non ha” (così ricorso, pag. 12).
Si reputa opportuno attendere congiuntamente al vaglio e del primo e del secondo motivo di ricorso; entrambi, ancor prima che destituiti di fondamento, si svelano senz’altro inammissibili.
E’ fuor di dubbio che il ricorso ex art. 360 c.p.c., a pena di inammissibilità, deve contenere l’esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata ed, altresì, che i medesimi motivi devono connotarsi alla stregua dei requisiti della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione censurata (cfr., tra le altre, Cass. 17.7.2007, n. 15952).
Ebbene il riferimento che nella motivazione della censurata statuizione è dato rinvenire a O.F., fratello del ricorrente ed al pari di costui rinunziante all’eredità paterna, “coerede e litisconsorte necessario in caso di nullità delle rinunzie” (così sentenza d’appello, pag. 10), è del tutto marginale, giacchè si iscrive nel contesto di una più ampia argomentazione a sua volta protesa, ad adiuvandum, a dar ragione della già riscontrata – alla luce dei rilievi motivazionali che il giudice di seconde cure aveva in precedenza svolto – infondatezza della pretesa azionata dall’appellante, attuale ricorrente.
In tal guisa il primo motivo non risulta in alcun modo correlato alla ratio decidendi.
E’ innegabile comunque che O.F., siccome ha correttamente rilevato il giudice del gravame, sol nell’evenienza in cui la sua personale rinunzia all’eredità paterna fosse stata nulla ovvero inefficace, avrebbe – acquisito il riscontro dell’accettazione da parte sua dell’eredità – assunto veste di erede e di litisconsorte necessario.
E, giacchè non vi è motivo per negare validità ed efficacia alla sua rinunzia, ne consegue che, siccome esattamente rimarcano le controricorrenti (cfr. pagg. 4 – 5 del controricorso), O. F., giusta il disposto dell’art. 521 c.c., comma 1, è di certo estraneo all’eredità relitta dal padre ed, al contempo, inesorabilmente collocato all’esterno e destinato a rimaner all’esterno della presente vicenda giudiziaria.
Del tutto ingiustificato è, d’altro canto, l’assunto di parte ricorrente – di cui al secondo motivo – a tenor del quale il giudice di seconda istanza non avrebbe atteso alla coordinata disamina degli elementi di prova acquisiti nè avrebbe dato conto delle ragioni atte a giustificare il disposto rigetto del primo motivo di gravame.
Invero, siccome emerge patente dalla lettura del passaggio motivazionale concernente il primo dei motivi d’appello, il giudice di secondo grado ha univocamente esplicitato che le medesime circostanze in precedenza analiticamente scrutinate e reputate inidonee a dar ragione dell’asserita – a giudizio di O.P. – accettazione tacita o legale dell’eredità paterna, non valevano, in pari tempo, pur considerate l’una in combinazione con le altre, a dar contezza del difetto, nella rinunzia all’eredità operata dall’appellante – attuale ricorrente – della tipica funzione abdicativa, difetto idoneo a sortire l’effetto di cui all’art. 478 c.c.
Propriamente ha opinato nel senso che le risultanze istruttorie, ancorchè poste in reciproca correlazione, non denotavano profili di contraddizione, sì che inducevano, concordemente, al riscontro della sussistenza di una funzionalità meramente abdicativa.
Il motivo di impugnazione si risolve, dunque, nella prefigurazione di una censura del tutto astratta, del tutto generica, priva di qualsivoglia concreto connotato di specificità.
Destituito di fondamento è in ogni caso il terzo motivo di ricorso:
in nessun modo si prospettano e la violazione e la falsa applicazione delle disposizioni codicistiche che parte ricorrente ha inteso denunciare col motivo de quo agitur.
Al riguardo va posto in risalto che, alla stregua della prefigurazione che il medesimo O.P. ha operato sin dal giudizio di prime cure, vi sarebbe stato margine perchè la rinunzia all’eredità che in data 27.11.1986 ebbe ad effettuare, potesse esser riconosciuta inefficace e tamquam non esset, solo se ed in quanto si fosse, in primo luogo, acquisita conferma del compimento da parte dello stesso ricorrente, ovviamente nell’esiguo lasso temporale compreso tra il 21.11.1986, di del decesso del padre, e il 27.11.1986, di della rinunzia all’eredità, di atti valevoli come accettazione dell’eredità a lui delata (invero, l’indiscutibile operatività nel nostro sistema positivo del principio semel heres, semper heres avrebbe reso vano, sterile il susseguente atto di rinunzia), solo se ed in quanto, in secondo luogo, fosse stato possibile ascrivere la rinunzia del ricorrente nel solco delle astratte prefigurazioni di cui all’art. 478 c.c., solo se ed in quanto, infine, fosse stata acquisita conferma del compimento di atti rilevanti ex art. 527 c.c.
In questi termini si rimarca che più che correttamente il giudice di secondo grado ha provveduto a verificare il riferimento cronologico delle risultanze istruttorie e ad acclararne puntualmente la posteriorità rispetto alla data del 27.11.1986.
In questi termini si rimarca, al contempo, che è assolutamente fuor di luogo il riferimento all’art. 1362 c.c., comma 2. Quindi, che del tutto ingiustificatamente O.P. si duole del fatto che la corte distrettuale ha reputato inidonee a vanificare la pregressa rinuncia circostanze avvenute in epoca – per giunta significativamente – successiva al medesimo dì; che del tutto ingiustificatamente si duole per l’asserita violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c., comma 2; che del tutto ingiustificatamente si duole per l’obliterazione di comportamenti da egli tenuti posteriormente alla rinunzia ex art. 519 c.c.; che del tutto ingiustificatamente pretende di negar rilievo alla collocazione temporale dell’accordo divisorio, invero, sol genericamente riscontrato in sede di merito; che del tutto ingiustificatamente – e contraddittoriamente – pretende poi di collocare, per giunta nonostante il difetto di qualsivoglia dimostrazione in tal senso (la corte distrettuale ha opinato nel senso che dalla missiva in data 10.9.1994 è desumibile sol un generico e non meglio definito accordo divisorio, accordo, comunque, insuscettibile di retrodatazione), “l’accordo divisorio intervenuto dagli eredi prima della rinunzia all’eredità” (così ricorso, pag. 8).
D’altro canto, in relazione alla pretesa valenza traslativa della rinunzia, in quanto tale rilevante – a dire del ricorrente – a norma dell’art. 478 c.c., la corte messinese, per un verso, ha evidenziato che le risultanze istruttorie non deponevano chiaramente nel senso dell’attribuzione al rinunziante, O.P., a titolo di corrispettivo della rinunzia, della divisione di alcuni ordinari beni mobili, per altro verso, ha reputato “inverosimile che la attribuzione di alcuni ordinari beni mobili possa costituire corrispettivo della rinunzia ad eredità comprendente alcuni immobili” (così sentenza d’appello, pag. 8).
In tal maniera la corte di merito non ha nè errato nella individuazione della norma di legge destinata se del caso ad operare nella fattispecie delibata, nè ha errato nella interpretazione della medesima norma di legge; la corte territoriale, più semplicemente, ha opinato nel senso che, siccome riscontrata alla luce delle risultanze istruttorie, la fattispecie sottoposta al suo vaglio non giustificasse l’operatività dell’art. 478 c.c.
La corte cioè ha atteso ad un mero giudizio di fatto, a rigore censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499), giudizio di fatto che, alla stregua delle argomentazioni sostanzianti il terzo motivo di ricorso, il ricorrente non ha propriamente censurato.
I rilievi svolti testè vanno puntualmente reiterati in ordine alla presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 527 c.c. e delle ulteriori disposizioni codicistiche asseritamente violate o falsamente applicate in relazione al pagamento di L. 6.000.000 che O.P. ebbe ad eseguire in favore dello zio O. G..
Il giudice di seconde cure, da un lato, ha opinato, in fatto, nel senso che “manca del tutto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 527 c.c., la prova della sottrazione o dell’occultamento da parte dell’attore di beni mobili ereditari” (così sentenza d’appello, pag.8); dall’altro, ancorchè abbia specificato che il pagamento inerisse ad una situazione giuridica non trasmissibile agli eredi, ha correttamente opinato, in fatto, che non era stato acquisito probatorio riscontro dell’esecuzione del pagamento con danaro prelevato dall’asse ereditario (al riguardo cfr. Cass. 27.8.2012, n. 14666, secondo cui in tema di successioni per causa di morte, un pagamento transattivo del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita dell’eredità, non potendosi transigere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede).
In verità tal ultimo giudizio di fatto è oggetto di censura mercè il quarto motivo di impugnazione, con cui, segnatamente, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c.
Nondimeno pur tal ultimo motivo è destituito di fondamento.
Invero, in aderenza all’insegnamento di questa Corte, non può che ribadirsi in questa sede il principio per cui l’esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni previsto dall’art. 257 c.p.c., esercitabile anche nel corso del giudizio di appello in virtù del richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., involge un giudizio di mera opportunità che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr. Cass. 1.8.2002, n. 11436; Cass. sez. lav. 3.10.1995, n. 10371).
In ogni caso non può non sottolinearsi che il capitolo di prova in ordine al quale T.M.C. e O.M.C. sono state chiamate, in virtù dell’ordinanza assunta in prime cure in data 22.5.2002, a rendere testimonianza, contemplava espressamente, alla stregua della sua letterale formulazione (siccome testualmente riprodotta a pag. 11 del ricorso) la circostanza del possibile l’utilizzo, ai fini del pagamento, di danaro proveniente dall’asse ereditario.
Or dunque, se nè l’una nè l’altra testimone hanno riferito alcunchè a tal specifico proposito, benchè abbiano fornito nel complesso risposte senza dubbio articolate (siccome testualmente riprodotte a pag. 11 del ricorso), c’è da reputar che nulla sapessero al riguardo, sicchè correttamente la corte di merito ha disatteso l’istanza ex art. 257 c.p.c., comma 2, seconda parte.
Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alle controricorrenti la somma di Euro 2.800,00 per compensi, la somma di Euro 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2014
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Numero Protocolo Interno : 156/2014