In difetto di prova che il conto sia “affidato”, tutte le rimesse, avvenute nel decennio anteriore alla notificazione dell’atto introduttivo, si presumono “solutorie” e si prescrivono in dieci anni dalla data dell’addebito integrante pagamento.
Questo il principio espresso dal Tribunale di Torino, in persona della dott.ssa Maurizia Giusta, con la sentenza del 24 novembre 2014 in un giudizio di ripetizione di indebito promosso da un correntista nei confronti di una banca.
In particolare, una società conveniva in giudizio una banca chiedendo l’accertamento della nullità delle clausole contrattuali relative alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, all’applicazione di interessi ultralegali, alla commissione di massimo scoperto, siccome asseritamente indeterminate e/o contrarie a norme imperative; conseguentemente, chiedeva la restituzione delle somme indebitamente pagate.
Dal canto proprio, la banca eccepiva l’intervenuta prescrizione del diritto attoreo e delle relative domande e, nel merito, la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi pattuita nel rispetto della condizione di reciprocità ai sensi della delibera CICR del 9.2.2000 per il periodo successivo al 1 luglio 2000.
Quanto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, il Tribunale ha rilevato che la banca aveva provveduto nel giugno 2000 a pubblicare in Gazzetta Ufficiale criteri e modalità di applicazione degli interessi, comunicandoli altresì ai correntisti in forma scritta, in adeguamento della delibera CICR 9 febbraio 2000 (entrata in vigore il 22 aprile 2000).
Pertanto, la doglianza attorea relativa alla violazione del divieto di anatocismo per il periodo successivo al mese di giugno 2000 è stata ritenuta del tutto infondata.
Per il periodo anteriore, il Tribunale ha dovuto esaminare la questione della prescrizione delle rimesse in conto corrente.
Come noto, la questione è assai dibattuta, ma è stata ormai risolta dalla costante giurisprudenza di merito e di legittimità nel senso che l’unitarietà del rapporto giuridico di conto corrente bancario non è di per sé elemento decisivo al fine dell’individuazione della chiusura del conto, come momento di decorrenza del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione di indebito, stante la qualificabilità in via autonoma di ciascun singolo pagamento che si assuma non dovuto, purché si tratti di “pagamento”, il che avviene quando il versamento eseguito abbia natura solutoria (per la sua affluenza in mancanza o in eccedenza ad un’apertura di credito e pertanto su conto corrente c.d. scoperto) e non meramente ripristinatoria della disponibilità (per essere avvenuto entro i limiti di un’apertura di credito che assiste il conto e cioè su un conto corrente c.d. passivo o “in rosso”).
Individuato il punto dirimente nella qualificazione della singola rimessa quale ripristinatoria o solutoria, viene in rilievo il tema della ripartizione dell’onere della prova. In altri termini: su quale delle parti grava l’onere di provare la natura solutoria o ripristinatoria?
Appare chiaro versandosi in ipotesi di ripetizione di indebito (e non di azione di accertamento del credito promossa dalla banca) che sia il cliente attore a doversi far carico di tale onere, secondo il fondamentale principio codicistico di cui all’art.2697 cc.
Ebbene, nel caso di specie, non avendo la società attrice offerto la prova dell’esistenza di eventuali affidamenti correlati al conto corrente, il Giudice ha ritenuto che non fosse possibile determinare né l’esistenza né la soglia del dedotto affidamento.
Sicché, il difetto di prova circa l’esistenza di affidamenti ha comportato che tutte le rimesse, avvenute nel decennio anteriore alla notificazione dell’atto introduttivo fossero considerate solutorie e risultassero, come tali, prescritte, con la conseguenza che il cliente non poteva reclamarne la natura indebita.
Anche le altre doglianze sono state ritenute infondate dal Tribunale torinese.
Quanto alla dedotta nullità della clausola determinativa degli interessi ultralegali, il Giudice ha preliminarmente rilevato che la contestazione non può riguardare rapporti sorti anteriormente all’entrata in vigore della legge n.154/1992 ma, soprattutto, che la Banca aveva sempre regolarmente inviato gli estratti conto e tutte le comunicazioni alla società correntista, con la conseguenza che, mancando ogni prova circa la tempestiva contestazione da parte della cliente ex art. 119 TUB né l’esercizio del diritto di recesso, il Tribunale ha ritenuto che fosse da ritenersi validamente pattuito il tasso di interesse passivo e che lo stesso fosse stato determinato ed applicato in conformità alla disciplina convenzionale.
Infine, sulla commissione di massimo scoperto, è stata rigettata la censura fondata sulla dedotta assenza di causa, atteso che il legislatore, di recente (art. 2-bis l. 2/2009), ha ormai tipizzato tale istituto individuandone la causa giuridica nella remunerazione per l’erogazione del credito che si aggiunge agli interessi passivi ed è calcolata sul saldo massimo effettivamente utilizzato dal cliente in un certo arco temporale, purché entro i limiti dell’apertura di credito concessa.
In conclusione il Giudice ha rigettato le domande del cliente condannandolo al pagamento delle spese di lite.
Sul punto, per approfondimenti, si vedano i seguenti precedenti:
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