ISSN 2385-1376
Testo massima
LE MASSIME
Se la prova circa la sussistenza tra le parti di un contratto di apertura di credito non è fornita i versamenti effettuati da parte del correntista nel corso del rapporto non potranno che essere considerati pagamenti, con conseguente decorrenza del termine prescrizionale dell’azione di ripetizione di indebito dalla data delle singole operazioni.
Se il conto corrente è a debito e non è assistito da apertura di credito la natura ripristinatoria della provvista deve generalmente essere esclusa, stante l’obbligo di restituzione di quanto utilizzato che fa capo al correntista.
La prova circa la sussistenza di un’apertura di credito incombe, per regola generale (art. 2697 c.c.), su chi intende far valere l’esistenza di tale contratto, al fine di trarne le conseguenze a sé favorevoli e paralizzare così l’eccezione di prescrizione svolta.
Con sentenza del 03 Maggio 2014, redatta in persona del Giudice estensore Dott.ssa Laura de Simone, il Tribunale di Mantova ha dichiarato legittima l’eccezione di prescrizione della domanda di ripetizione di indebito, sollevata da una banca convenuta in giudizio da un correntista, per la ripetizione appunto delle somme a suo dire addebitate illegittimamente in conto corrente.
IL CASO
La società attrice conveniva in giudizio l’istituto di credito chiedendo che fosse dichiarata la nullità del contratto di conto corrente in essere tra le parti con contestuale dichiarazione di illegittimità degli addebiti di interessi ultralegali, principali ed anatocistici, di commissione di massimo scoperto, nonché quelli conseguenti a distorta applicazione delle valute effettuate dalla convenuta sul conto e affinché fossero dichiarati dovuti invece unicamente gli interessi debitori e creditori al tasso legale di cui all’art.117 D.Lgs. n.385/93; dichiarandosi altresì prescritto il credito della banca per il periodo antecedente a dieci anni ai sensi dell’art.2 comma 61 L. n.10/2011.
In ultimo, parte attrice chiedeva la condanna della banca convenuta alla restituzione delle somme indebitamente addebitate sul rapporto di conto oltre interessi ex d.lgs.n.231/2002 e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo. Si costituiva in giudizio la banca, eccependo la prescrizione dell’azione di ripetizione per gli addebiti sino al 15.3.2001 e contestando nel merito la fondatezza delle tesi avversarie,insistendo quindi per il rigetto delle domande proposte.
Nel merito dell’instaurato giudizio, il Tribunale, richiamando la nota sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 24418/2010, ha osservato che “Se dunque viene dedotto e provato che il conto corrente è assistito da apertura di credito i versamenti eseguiti non costituiscono pagamento se non al momento della chiusura del rapporto, quando il correntista restituisce alla Banca gli importi utilizzati, per cui l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto (
). Se tuttavia, come nella specie, la prova circa la sussistenza tra le parti di un contratto di apertura di credito non è fornita, i versamenti effettuati da parte del correntista nel corso del rapporto non potranno che essere considerati pagamenti, con conseguente decorrenza del termine prescrizionale dell’azione di ripetizione di indebito dalla data delle singole operazioni“.
Tanto sintetizzato, per la disamina delle risultanze del Giudice Unico viene da sé rilevare che la gestione delle cause in materia di anatocismo bancario e forma del contratto di credito ha risentito e tutt’oggi risente delle annose questioni relative, essenzialmente, alla legittimità delle clausole contrattuali di capitalizzazione degli interessi debitori e alla decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito, che nel corso degli ultimi anni hanno reso necessario l’intervento della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, e che si sono arricchite della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, del d.l. 29.12.2010, n. 225 (cosiddetto “decretomilleproroghe”), convertito in legge n. 10 del 26 febbraio 2011.
Sul tema della legittimità delle clausole contrattuali di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori la Suprema Corte di Cassazione si è espressa a Sezioni Unite con sentenza n. 21095/2004.
Parimenti, sulla questione relativa al termine di decorrenza dell’azione di ripetizione delle somme indebitamente corrisposte dal correntista alla banca a titolo di interessi anatocistici, nonché sulla questione se, accertata la nullità della clausola contrattuale di capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati su un’apertura di credito in conto corrente, gli interessi debbano essere computati con capitalizzazione annuale, o senza alcuna capitalizzazione, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., stante “la particolare importanza delle questioni sollevate”, come emerge dalle motivazioni della sentenza n. 24418/2010.
Occorre precisare che con riferimento alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi sul contratto bancario di conto corrente (o di apertura di credito in conto corrente), a seguito delle modifiche legislative, nonché delle pronunce del Giudice delle Leggi e degli interventi della Suprema Corte di Cassazione, vige un sistema complesso per il quale è necessario distinguere tra contratti bancari di conto corrente stipulati in epoca anteriore al 22 aprile 2000 – data di entrata in vigore della Delibera emessa dal CICR il 9.2.2004, in attuazione dell’art. 120, comma 2, T.U.B., introdotto con l’art. 25, comma 2, d.lgs. n. 342/1999 – le cui clausole di capitalizzazione trimestrale sono nulle per violazione dell’art. 1283 c.c., e contratti conclusi successivamente alla data di entrata in vigore della detta Delibera (22.4.2000), le cui clausole di anatocismo sono legittime e valide, purché risultino specificamente approvate in forma scritta e prevedano la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori, sia creditori.
In tale ottica, viene in rilievo la prova del contratto di apertura di credito, il quale fino alla Legge 154/92 non necessitava di alcuna forma scritta; in particolare, solo con la promulgazione della citata legge sulla trasparenza bancaria e poi con l’entrata in vigore del T.U.B. è stata introdotta la regola della forma scritta per i contratti tra banca e cliente. Nel caso di specie, con riguardo all’eccezione di nullità del contratto di conto corrente sottoscritto tra le parti per violazione dell’obbligo di forma scritta, il rigetto dell’eccezione proposta da parte attrice emerge dal fatto che il contratto in atti prodotto da parte convenuta, sottoscritto sia da parte attrice che da un rappresentante della Banca (firma per accettazione di dichiarazione unilaterale), non è stato disconosciuto dalla parte nei cui confronti risulta prodotto e dunque non poteva non ritenersi fornita la prova dell’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 2702 c.c. .
Si evidenzia che il rigore della regola contenuta nel primo comma dell’art.117 T.U.B. è stato attenuato dal secondo comma attribuendo il potere al CICR di prevedere una forma diversa “per particolari contratti”, quando sussistano “motivate ragioni tecniche” (art.117 comma 2 del T.U.B.); di questo potere ha fatto largo uso la Banca d’Italia nelle proprie Istruzioni applicative, ove ha espressamente escluso l’obbligo di forma scritta “per operazione e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. Ora se per l’apertura di credito non vi è bisogno di un contratto scritto è estremamente difficile il solo ipotizzare che il c.d. extrafido – evento eccezionale e ridotto sia temporalmente che per importi – possa avere una qualsiasi forma scritta.
Ne consegue che la problematica di un apertura di credito definita per facta concludentia e della prova di essa non è stata praticamente influenzata dalla nuova disciplina.
Quanto all’onere della prova, l’affermazione secondo cui la dizione dell’art. 2697 c.c.,, “chi vuol far valere un diritto in giudizio” implica che sia colui che prende l’iniziativa di introdurre la causa ad essere gravato dell’onere di “provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”; ebbene l’interpretazione letterale della norma contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l’attore non fa valere il diritto oggetto dell’accertamento giudiziale ma al contrario ne postula l’inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte contro interessata.
Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell’onere della prova, di cui ai due commi dell’art. 2967 c.c. permette di mostrare che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all’interesse delle parti e dei fatti incidenti sul medesimo.
Stante tale interpretazione, pertanto, in materia di ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle azioni proposte da parte attrice, i principi generali sull’onere della prova troverebbero applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore, con la conseguenza che anche in tale situazione sarebbero sempre a carico della Banca le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 19762/2008, Cass. Civ. n. 28516/2008, Cass. Civ. n. 23974/2010).
Ciò nonostante, il giudice di merito nel giudizio in esame ha precisato “Quanto all’onere probatorio, “la prova circa la sussistenza di un’apertura di credito incombe, per regola generale (art. 2697 c.c.), su chi intende far valere l’esistenza di tale contratto, al fine di trarne le conseguenze a sé favorevoli e paralizzare così l’eccezione di prescrizione svolta”, ovvero grava sulla parte che agisce per ottenere la ripetizione del presunto indebito“.
Va da sé che la prova è anche data dalla lettura degli stessi estratti conto, i quali oltre a riportare espressa indicazione dei limiti del fido, indicano un tasso per l’affidato ed un altro maggiore per il non affidato. Ciò significa che, salvo prova contraria di cui è onerata la banca, tutti i versamenti effettuati dal correntista sono effettuati nell’ambito dell’affidamento e servono al solo scopo di ricostituire la provvista, non avendo alcuna valenza solutoria.
Da ultimo, con riferimento all’eccezione di prescrizione di indebito, giova ricordare che mentre ai sensi e per gli effetti dell’art. 1422 c.c., l’azione di nullità è imprescrittibile, la conseguente azione di ripetizione di indebito, o restitutoria, è soggetta a prescrizione. E’ quindi necessario individuare il dies a quo del termine di prescrizione decennale, ex art. 1946 c.c., applicabile alla condictio indebiti. A tale riguardo, si è discusso se il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito decorra dalla data di chiusura del conto corrente, oppure dalla data di annotazione in conto di ciascun addebito per interessi non dovuti.
La Corte di Cassazione, in passato, con riferimento alla domanda di restituzione degli interessi calcolati in misura superiore a quella legale senza pattuizione scritta, ha sostenuto che “il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo a un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti della parti tra loro”.
Parimenti, la giurisprudenza di merito prevalente, con specifico riguardo all’azione di restituzione di somme indebitamente pagate a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi, ha affermato che tale azione si caratterizza per la sua “natura di azione per indebito oggettivo, con la conseguenza che le somme indebitamente corrisposte a titolo di interessi anatocistici divengono concretamente esigibili nel momento in cui il diritto diviene azionabile, ovverosia alla chiusura del rapporto di conto corrente
, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo a un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi
, con conseguente applicabilità della prescrizione decennale decorrente da detto momento”.
In senso contrario si è espressa altra parte della giurisprudenza, che appare minoritaria, secondo cui il termine di prescrizione decennale dell’azione in questione non decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, ma dalla data del pagamento coincidente con l’annotazione in conto di ogni singola posta.
Sulla questione, recentemente, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite in considerazione della particolare importanza della questione, affermando il principio secondo cui “l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo a un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta alla ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nella ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dare vita a una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nella esecuzione di una prestazione da parte del solvens con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell’accipiens”.
Ancora, le SSUU, con le motivazioni della citata sentenza n. 24418/2010, hanno chiarito che “
la unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente non è, di per sé solo, elemento decisivo al fine di individuare nella chiusura del conto il momento da cui debba decorrere il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione d’indebito
La unitarietà del rapporto contrattuale e il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impedisce di qualificare indebito ciascun singolo pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin dal momento in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo; è sempre da quel momento che sorge dunque il diritto del solvens alla ripetizione e che la relativa prescrizione inizia a decorrere
”.
La stessa Corte di Cassazione ha distinto il caso in cui il correntista, in pendenza dell’apertura di credito, non abbia effettuato versamenti, dal caso in cui abbia effettuato versamenti, e, con riguardo a tale ultima ipotesi, ha operato la distinzione funzionale, già in precedenza applicata alla materia della revocatoria fallimentare, tra versamenti aventi natura solutoria e versamenti con funzione ripristinatoria.
Nel primo caso, se pendente l’apertura di credito, il correntista che non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti non può configurarsi alcun pagamento prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tale caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, la eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione .
Nel secondo caso, qualora il correntista, nel corso del rapporto, abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da potere formare oggetto di ripetizione ove risultino indebiti, in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale a favore della banca. Questo accade qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto scoperto cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti del fido.
La Suprema Corte ha quindi chiarito che la distinzione funzionale tra atti ripristinatori della provvista e atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca, “non può non venire in evidenza anche quando si tratti di stabilire se sia o meno configurabile un pagamento, certamente indebito, da cui possa scaturire una pretesa restitutoria ad opera del solvens; pretesa che è soggetta a prescrizione solo a partire dal momento in cui si può affermare che essa sia venuta a esistenza. Da tale distinzione si può dunque dedurre che “di pagamento potrà parlarsi solo dopo che, concluso il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto
”.
Tale criterio è stato lo stesso seguito con la sentenza n. 4518 del 26 febbraio 2014, ove la Corte di Cassazione ha precisato che il principio enunciato con la sentenza n. 24428/2010, relativo alla distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, può essere applicato anche alla ripetizione degli addebiti a titolo di commissioni di massimo scoperto e dunque non solo alla ripetizione di addebiti di interessi anatocistici. Rispetto alla recente pronuncia dei Giudici di legittimità, il Giudice di prime cure, nel valutare gli interessi contrapposti delle parti in causa ha statuito che “con il contratto di conto corrente, la banca si impegna unicamente ad offrire alla clientela un servizio di cassa e non a mettere a disposizione del denaro: ne consegue che, quando il rapporto è a debito e non gode di un’apertura di credito, deve essere esclusa la natura ripristinatoria della provvista.”.
E’ all’uopo interessante considerare che con la sentenza n. 4518 del 26 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha però per la prima volta affermato il principio di diritto che in costanza di un rapporto bancario tutti i versamenti del correntista si devono considerare avvenuti in costanza di un affidamento da parte della banca, e quindi ripristinatori, con la prescrizione decennale che decorrerà sempre dalla data della chiusura del rapporto, a prescindere dalla data in cui sia avvenuto l’addebito contestato alla banca (e quindi anche oltre il decennio).
Si rileva la presunzione della natura ripristinatoria dei versamenti eseguiti in costanza di rapporto, e ciò in quanto il rapporto di conto corrente è un contratto di durata e non si esaurisce in un’unica operazione. Una diversa finalità dei versamenti – in particolare la natura solutoria dei medesimi – deve essere inevitabilmente dimostrata da chi ne eccepisce l’esistenza, al fine di ottenere la diversa prescrizione applicabile in proprio favore.
Così ha motivato la sentenza n. 4518 del 26/02/2014: “I versamenti eseguiti sul conto corrente in costanza di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens e, poiché tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto, una diversa finalizzazione dei singoli versamenti, o di alcuni di essi, deve essere in concreto provata da parte di chi intende far percorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste illegittimamente addebitate. Nella specie non è stata mai né dedotta né allegata tale diversa destinazione dei versamenti in deroga all’ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale”.
Anche la giurisprudenza di merito, prima del recente intervento della Corte di Cassazione, si era pronunciata in relazione all’onere probatorio della parte processuale che invoca la prescrizione applicabile alle rimesse solutorie, pur senza però affermare che si dovessero presumere ripristinatorie tutte le rimesse eseguite in costanza di rapporto.
La prescrizione deve essere quindi eccepita in modo preciso, con l’indicazione e la prova dei versamenti che abbiano avuto una funzione solutoria; diversamente l’eccezione sarà da considerarsi non ritualmente portata, e quindi tamquam non esset, e dovrà ritenersi iniziare sempre a decorrere dalla data di chiusura del rapporto.
Il principio in forza del quale grava sul soggetto che invoca la prescrizione l’onere di dimostrare la natura solutoria delle rimesse ha trovato costante riscontro nella giurisprudenza di merito (Tribunale di Pescara, sent. del 24/06/2013; Tribunale di Prato, sent.dell’1/03/2013; Corte d’Appello di Lecce, sent. del 19/02/2013; Tribunale di Novara, sent. dell’1/10/2012; Tribunale di Taranto, sent. del 28/06/2012; Tribunale di Taranto, sent. del 27/06/2012).
Nel caso di specie, il Giudice Unico, disattendendo sul punto l’orientamento espresso con la succitata sentenza osserva che con il contratto di conto corrente la Banca si impegna unicamente ad offrire al cliente un servizio di cassa nell’utilizzo della provvista propria del cliente, ovvero a provvedere per conto del medesimo a pagamenti e riscossioni, e non a mettere disposizione denaro in favore del correntista. Se quindi il conto corrente è a debito e non è assistito da apertura di credito la natura ripristinatoria della provvista deve generalmente essere esclusa, stante l’obbligo di restituzione di quanto utilizzato che fa capo al correntista.
Alla luce delle pregresse considerazioni, il Tribunale di Mantova accertata da un lato l’illegittimità degli addebiti per interessi non dovuti e per commissione di massimo scoperto nonché per capitalizzazione trimestrale, e avvalorando dall’altro la tesi propinata dalla Banca in ordine all’intervenuta prescrizione degli eventuali indebiti accertati precedenti al 15.3.2001, ha depurato e determinato il saldo del c/c discusso in causa individuando il saldo finale complessivo dovuto dalla Banca in favore del correntista con contestuale e certamente non casuale compensazione delle spese di lite tra le parti.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 597/2014