ISSN 2385-1376
Testo massima
La legittimazione ad agire attiene al diritto di azione e spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare. La sua carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e rilevata anche d’ufficio.
Cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio, la cui questione attiene al merito. Essa rappresenta un elemento costitutivo della domanda e come tale deve essere in positivo provocata dall’attore e verificata di ufficio dal Giudice, ma la prova può anche desumersi dal comportamento processuale del convenuto qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese incompatibili con la negazione di detta titolarità. Le contrarie deduzioni svolte dalla controparte, invece, hanno natura di mere difese e non di eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che possono essere proposte in ogni fase del giudizio ed anche in appello, sicché l’eventuale sua contumacia non rende incontestati i fatti né altera le ripartizione degli oneri probatori, ferme solo le eventuali preclusioni per la intempestiva costituzione.
Il diritto al risarcimento dei danni subiti da un immobile spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momento dell’evento dannoso. Trattasi di un diritto autonomo rispetto al diritto di proprietà che non lo segue in caso di alienazione, salvo che ne sia convenuto il contrario.
Tali sono i principi stabiliti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la recente sentenza del 16/02/2016, n° 2951, Presidente Amoroso, Estensore Curzio, la quale ha composto un contrasto giurisprudenziale che vedeva sulla questione della titolarità del diritto ad ottenere il risarcimento del danno per un evento dannoso cagionato ad un immobile, anteriore al trasferimento della proprietà dello stesso, due contrapposti orientamenti.
Il primo, minoritario, che fa capo sostanzialmente alla decisione della Sez. II della Cassazione, 14/07/2008 n° 19307, alla quale ha aderito quella successiva della Sez. VI della stessa Corte 14/11/2011 n° 21256, secondo cui è l’acquirente del bene ad essere legittimato ad agire per il risarcimento del danno prodotto da un terzo anteriormente alla vendita in quanto dal perfezionamento del trasferimento consegue la titolarità del diritto di credito anche in mancanza di una espressa cessione della azione ed anche se l’acquirente non era a conoscenza della preesistenza del danno salvo che, nell’ambito della autonomia negoziale delle parti, l’azione non sia stata riservata al venditore.
La tesi maggioritaria, che ha come referenti la stessa Sezione II della Cassazione ed anche la Sezione III, rispettivamente nelle decisioni 29/11/1999 n° 1334 e 03/07/2009 n° 15744 e nelle decisioni 06/06/1987 n° 5287 e 14/06/2007 n° 13960, nonché da ultimo la Sezione VI con la recente pronuncia del 10/07/2014 n° 24146 ritiene, al contrario, che il diritto in questione appartiene a chi, al momento dell’evento dannoso, era proprietario del bene danneggiato, salvo diversa convenzione tra le parti.
Tale seconda tesi, ad avviso delle Sezioni Unite, sarebbe da preferire, in quanto il diritto al risarcimento dei danni cagionati ad un bene costituisce un diritto di credito, distinto ed autonomo rispetto a quello reale di cui non può costituire un accessorio.
L’occasione di tale importante decisione, che compone un netto contrasto nell’ambito della giurisprudenza della Corte Regolatrice, di massima importanza quindi per gli operatori del diritto, è stata fornita da un caso in cui il proprietario e l’usufruttuario di un podere, posto su una collina e poi franato a causa di uno smottamento determinato da escavazioni operate dall’Anas per la costruzione di una variante stradale, ottennero in primo grado la condanna al risarcimento del danno di detta società, poi riformata in appello sulla base della tesi seguita dall’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità, testé indicata.
Ma l’importanza della decisione in commento è data anche da fatto che risolve un ulteriore contrasto giurisprudenziale riguardante questioni di natura processuale, concernenti più propriamente la titolarità attiva o passiva del rapporto che si assume controverso.
In questo caso, la S.C. aderisce alla tesi minoritaria (Cass. 10/07/2014 n° 1579; Cass. 19/07/2011 n° 15832), laddove afferma che essa costituisce una mera difesa con tutte le ovvie conseguenze tra cui la prova di possederla quando la stessa titolarità di quel rapporto viene contestata.
Secondo l’orientamento maggioritario, invece (v. Cass. 15/09/2008 n° 23670; Cass. 10/05/2010 n° 11284; Cass. 27/06/2011 n° 14177), la contestazione della reale titolarità del diritto sostanziale dedotto in giudizio, costituisce una eccezione in senso tecnico che deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, con l’ulteriore conseguenza che spetta alla stessa parte che prospetta tale eccezione l’onere di provare l’affermazione.
Quest’ultimo orientamento muove dalla distinzione tra legittimazione ad agire ed effettiva titolarità del rapporto.
Come è noto, la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione, una condizione cioè per ottenere dal giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente sulla base della fattispecie giuridica prospettata dall’attore, prescindendo dalla effettiva titolarità del rapporto controverso dedotto in causa, mentre la titolarità attiva o passiva di detto rapporto costituisce un requisito di fondatezza della domanda.
Se la mancanza della legittimazione è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d’ufficio dal Giudice, ogni questione relativa alla titolarità del rapporto, attinendo al merito della decisione , è riservata al potere dispositivo delle parti interessate, gravata, quindi, dall’onere di allegazione e dimostrazione nei modi e termini previsti per le eccezioni in senso stretto, senza che il Giudice possa rilevarne il difetto, esercitando i suoi poteri officiosi.
Le Sezioni Unite, come accennato, aderiscono invece all’orientamento minoritario, affermando di condividere la distinzione tra legittimazione al processo e la titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione, nonché l’affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva attiene al merito della decisione.
Purtuttavia dissentono, criticando l’indirizzo maggioritario, sulla questione relativa agli oneri deduttivi e probatori della parte interessata.
Osservano, infatti, le S.U. che il vero problema è quello di verificare se il diritto vantato in giudizio appartenga effettivamente a chi assume di esserne il titolare. Sotto tale profilo la titolarità del diritto fatto valere rappresenta un elemento costituivo della domanda.
In buona sostanza, chi promuove una causa non solo deve prospettare di essere parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione relativa) ma deve anche provare di essere il titolare della posizione giuridica soggettiva che lo rende parte. Tale titolarità può essere negata dal convenuto attraverso una mera difesa, non soggetta a decadenza ex art. 167 c.p.c., a differenza della c.d. eccezione in senso stretto, e, come è tale, verificabile d’ufficio dal Giudice.
La posizione che assume il convenuto è importante, ricordano le S.U., in quanto, se nella comparsa di risposta questi riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda o svolga una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo, diventa superfluo per l’attore l’obbligo del supporto probatorio alla allegazione della titolarità del diritto.
Sottolineano, inoltre, le S.U. che più complessa appare la questione con riferimento al principio di non contestazione, ex art. 115 c.p.c., che, se non vale per la parte contumace, deve essere attentamente valutata con riferimento alla parte costituita, specie quando (testualmente) “non attenga alla sussistenza di un fatto storico ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in questa materia, il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di necessaria conformazione, in quanto il Giudice può sempre rilevare la inesistenza della circostanza allegata da una parte, anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto. Del resto, se le prove devono essere valutate dal Giudice secondo il suo prudente apprezzamento, a fortiori ciò vale per la valutazione della mancata contestazione”.
Testo del provvedimento
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