ISSN 2385-1376
Testo massima
Per le società “in house providing” non risulta possibile confgurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società stessa e neppure una separazione patrimoniale fra il patrimonio dell’ente pubblico e quello della società.
Queste sono, dunque, vere e proprie articolazioni degli enti pubblici, con la conseguenza che va loro estesa l’esenzione dal fallimento prevista in generale dalla legge fallimentare (art.1).
In questi termini si è pronunciato il Tribunale di Verona, in persona del Presidente estensore dott.Fernando Platania, intervenendo sulla spinosa questione della esatta qualificazione giuridica delle società c.d. in house ed, in particolare, della sottoponibilità delle stesse alle procedure concorsuali.
Il tema risulta di particolare attualità, alla luce dell’acceso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, alimentato – e solo in parte risolto – dalla Corte di Cassazione, con la recente sentenza n.26283 del 25-11-2013, già oggetto di approfondimento su questa rivista, che ha fornito un significativo e certamente non ultimo punto di riferimento.
La vicenda posta all’attenzione del Giudice scaligero è originata dalla proposizione del ricorso di fallimento nei confronti di una srl, partecipata unicamente da enti pubblici, proposto dal suo stesso liquidatore.
Il Tribunale ha preliminarmente attribuito all’impresa la qualifica di società “in house providing”.
A tal fine, va rammentato, i criteri enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, possono essere così schematizzati:
1. Natura esclusivamente pubblica dei soci
2. Esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi
3. Sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
Tali requisiti sono stati, da ultimo, confermati dalla già citata sentenza n.26283/2013.
Nel caso di specie, oltre ad essere risultata partecipata esclusivamente da enti pubblici, la società aveva ad oggetto lo svolgimento di attività solo a favore dei soci e degli enti aderenti ai soci, ed in particolare: il servizio anagrafe, l’erogazione di servizi di telefonia ed energia elettrica, i servizi di informazione a soggetti pubblici e privati di informazioni relative alle pratiche edilizie alle informazioni catastali.
Quanto al terzo requisito (il cd. “controllo analogo”), il Giudice ha rilevato come dallo stesso statuto, all’art.29, vi fosse espresso riferimento alla sottoposizione della Società ad un controllo, da parte dei soci destinatari dell’attività principale, effettuato in maniera del tutto analoga a quello che questi ultimi potrebbero esercitare direttamente sui propri servizi.
Vieppiù, tale controllo viene qualificato “assoluto” dalla Corte, tale da privare gli amministratori di effettivi e concreti poteri gestori, anche alla luce dell’obbligo trimestrale di relazionare ai soci circa la propria attività.
Da quanto appena enunciato, sol attribuendo all’ente in questione la qualifica di società “in house” e, correlativamente, stabilendo la totale riconducibilità di quest’ultima alla struttura delle amministrazioni partecipanti, il Tribunale ha concluso per l’esclusione della possibilità di dichiarazione di fallimento.
Tale netta opzione, certamente confortata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, non può che lasciare in sospeso alcuni interrogativi e merita, perciò, il dovuto approfondimento.
Alcuni spunti di riflessione si rinvengono in altra pronuncia della Corte di Cassazione, la n.22209/2013, citata peraltro dal Giudice veronese e già oggetto di commento su questa rivista, con la quale si era sancita la fallibilità delle società partecipate da enti pubblici, sulla scorta del seguente ragionamento: la pubblica amministrazione, nel decidere di affidare la gestione di determinati servizi a società “partecipate”, effettua la scelta di una forma giuridica e, coerentemente, ne accetta le conseguenze.
In particolare, la scelta di operare sul mercato, nelle forme della società di capitali e, soprattutto, in un regime concorrenziale, comporta che le c.d. partecipate assumano su di sé i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, ai quali dev’essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti posti a disposizione dell’ordinamento.
Peraltro, l’esclusione di tali enti dal novero dei soggetti fallibili non può giustificarsi sulla base di una valutazione di “necessità” o di particolare rilevanza sociale del servizio da esse gestito, dal momento che le amministrazioni partecipanti hanno la possibilità di riappropriarsi della gestione diretta del servizio, ovvero possono affidarne lo svolgimento ad altro soggetto, o infine ricorrere all’esercizio provvisorio.
L’orientamento espresso della Corte, con la sentenza n. 22209/2013, è, in conclusione, il seguente:“ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento”.
Sulla scorta di tali ultime osservazioni sembra aprirsi uno spiraglio alla possibilità che si affermi un orientamento giurisprudenziale favorevole alla fallibilità delle società in house.
D’altro canto, non può prescindersi da un bilanciamento dei diversi interessi in gioco, ai fini del quale giova ricordare le parole della Relazione del Guardasigilli al R.D. 267/1942, art.3, laddove la tutela del ceto creditorio trovava riconoscimento quale “altissimo interesse pubblico”, in contrasto con gli interessi particolari del singolo creditore e del debitore.
Va sottolineato, tuttavia, che benché in gran parte suscettibile di estensione, l’interpretazione fornita dalla sentenza n.22209/2013 è riferita allo schema della società “mista”, ove la partecipazione degli enti pubblici non è totale.
Per tale ragione, il dubbio non può che restare insoluto, fermo restando che la pronuncia del Tribunale di Verona, qui in esame, può considerarsi coerente con l’orientamento successivamente espresso dall’articolata ed importante pronuncia n.26283/2013 della Cassazione, che ha configurato la società in house quale vera e propria articolazione degli enti pubblici, qualificazione che sembra destinata a consolidarsi nella giurisprudenza.
Resta da capire se tale ultima interpretazione possa costituire un insormontabile ostacolo alla tutela concorsuale dei creditori, ovvero se possa raggiungersi un giusto bilanciamento tra gli interessi di questi ultimi, quelli dei cittadini alla corretta e continua gestione dei servizi pubblici, nonché quelli delle imprese concorrenti, che, pur operando nel medesimo regime di mercato ed adoperando un’identica forma giuridica, vengono certamente a trovarsi in una posizione di svantaggio rispetto alle concorrenti “in house”.
Alla luce, soprattutto, di tale ultima disparità, pare necessaria una rimeditazione complessiva, de iure condendo, della disciplina riguardante le società interamente partecipate dagli enti pubblici.
Testo del provvedimento
Il Tribunale di Verona, sezione fallimentare composta dai sigg.ri Magistrati
dr. Fornendo Platania Presidente
dr. Francesco Fontana Giudice
dr, Silvia Rizzuto Giudice
premesso che la srl (Omissis) ha chiesto attraverso il suo
liquidatore la dichiarazione di fallimento in proprio;
osservato che all’anzidetta società deve essere attribuita la qualifica di società In “house providing”;
che sulla fallibilità delle società in house si sono manifestati diversi orientamenti;
che in particolare va segnalata la sentenza della Cassazione 27 settembre 2013 n. 22209 per la quale le suddette società possono essere sottoposte al fallimento in quanto la scelta di operare secondo le regole delle società di capitali rende necessaria l’applicazione dell’intera disciplina delle società commerciali tra cui la sottoposizione a fallimento;
che, tuttavia, va anche segnalata la recentissima sentenza della Cassazione 25 novembre 2013 n. 26283 che, affrontando il problema dell’individuazione del giudice avente la giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, ha specificato che tale giurisdizione spetta alla Corte dei Conti allorquando si assume che gli amministratori abbiano non correttamente agito nella gestione del patrimonio sociale delle società in “house providing” poiché, quando si tratti effettivamente di tale tipo, “di società di capitali, intesa come, persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare”;
che, infatti, per le società che possono effettivamente essere considerate “in house providing” ( secondo criteri che verranno successivamente esaminati) non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società stessa e neppure una separazione patrimoniale tra il patrimonio dell’ente pubblico e quello della società ma solo di distinta titolarità;
che, conseguentemente, per le società qualificabili come “in house providing” gli organi della società risultano preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione e, quindi, legati ad essa da un vero e proprio rapporto di servizio;
che, dunque, essendo articolazioni degli enti pubblici, ad esse va estesa l’esenzione dal fallimento prevista in generale dalla legge fallimentare (art. 1);
che alla società istante va riconosciuta la natura di società “in house providing” secondo i presupposti indicati espressamente dalla Corte di Cassazione nella indicata sentenza 25 novembre 2013 n. 26288 per la quale tale qualifica va attribuita solo e soltanto alle società che abbiano congiuntamente tre indefettibili requisiti: 1) natura esclusivamente pubblica dei soci; 2) lo svolgimento dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; 3) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
Ebbene, nel caso sottoposto all’esame del Tribunale la srl (omissis) è partecipata unicamente da enti pubblici: (omissis);
che l’attività è espressamente svolta, come riferito dallo stesso liquidatore nel suo ricorso per la dichiarazione di fallimento, solo a favore dei soci e degli enti aderenti ai soci;
che tra le attività svolte peri soggetti pubblici vi è anche il servizio anagrafe, l’erogazione di servizi di telefonia ed energia elettrica; servizi di informazione a soggetti pubblici e privati di informazioni relative alle pratiche edilizie alle informazioni catastali;
che in base allo statuto (di cui si è acquisita copia) art. 29 “in ossequio alla normativa vigente, i soci destinatari dell’attività principale effettuano sulla Società un controllo analogo a quello che potrebbero esercitare direttamente sui propri servizi”;
che in particolare gli enti pubblici possono svolgere attività di indirizzo, programmazione e vigilanza sull’attività della società;
che gli amministratori sono obbligati a trasmettere ogni tre mesi una relazione sull’attività svolta per ottenere la approvazione del loro operato,
che, conseguentemente, proprio come accade nelle Amministrazioni pubbliche, gli amministratori della società sono sottoposti ad un controllo assoluto da parte delle amministrazioni tali da privarli di effettivi e concreti poteri gestori;
che, dunque, si riscontano nella srl (omissis) tutte le caratteristiche della società “In house providing” e conseguentemente la sua totale riconducibilità alla struttura degli enti pubblici partecipanti con esclusione della possibilità di dichiarazione di fallimento;
PQM
Respinge l’istanza volta alla dichiarazione in proprio del fallimento della srl (omissis).
Verona, 17 dicembre 2013.
Il Presidente est.
Dott. Fernando Platania
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