ISSN 2385-1376
Testo massima
LA MASSIMA
Le società in mano pubblica possono fallire.
La scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.
Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica.
Il fallimento della partecipata, ancorché, in ipotesi, costituta all’unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude all’ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all’esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto.
In questi termini si è espressa la Corte di Cassazione, sezione prima, con la sentenza n.22209 del 27 settembre u.s., a chiarimento della vexata quaestio sulla fallibilità delle società a prevalente partecipazione pubblica.
LA VICENDA
All’origine della pronuncia, il ricorso presentato da una società concessionaria del servizio di gestione un impianto di stoccaggio e smaltimento dei rifiuti, partecipata al 51% da un ente pubblico, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che aveva respinto il reclamo proposto dalla medesima società contro la sentenza dichiarativa del suo fallimento.
In particolare, il Giudice di merito aveva osservato che né il dato formale della partecipazione pubblica, né il perseguimento del fine pubblico potevano valere a considerare la società quale soggetto pubblico, e ancora che la struttura privatistica, l’ampiezza dell’oggetto sociale e la circostanza che la Prefettura avrebbe potuto revocare la concessione per motivi di pubblico interesse non erano indici sufficienti ad escludere la fallibilità dell’ente.
La società ha affidato ad un unico, articolato, motivo di ricorso, la riproposizione delle proprie doglianze innanzi al Giudice di legittimità.
Essa ha sostenuto la censurabilità della pronuncia del giudice partenopeo essenzialmente per aver quest’ultimo risolto il problema dell’assoggettabilità al fallimento sulla scorta dell’applicazione di un criterio meramente formale (vale a dire l’accertamento della natura strutturalmente privata della società) anziché basarsi su una più corretta valutazione “funzionale” o “sostanzialistica”.
A sostegno di tale motivo, l’ente ha richiamato i diversi istituti e le varie disposizioni dell’ordinamento che stabiliscono uno stretto collegamento tra le società in mano pubblica e l’ente pubblico che ne detiene la partecipazione (di maggioranza, nel caso di specie), concludendo per la inutilità di una valutazione basata solo sul criterio della natura (pubblicistica o privatistica), giacché non è su questo presupposto che il legislatore sottopone tali enti all’applicazione della disciplina pubblicistica.
Enucleando la ratio dell’art. 1 L.Fall, che esclude la fallibilità degli enti pubblici, per l’incompatibilità della disciplina con la procedura, avente carattere di esecuzione generale e fine di tutela dell’intero ceto creditorio, rispetto all’ordinaria attività dell’ente pubblico, che ne resterebbe paralizzata, la fallita ha insistito per una qualificazione funzionalmente pubblicistica della propria attività, sottolineando inoltre il carattere di necessità della propria attività rispetto al funzionamento dell’ente pubblico partecipante, necessità che potrebbe essere anche solo temporanea, non rilevando la possibilità di revoca in qualunque momento della concessione.
Ad avviso della società, insomma, gli effetti immediati del fallimento (spossessamento del debitore e cessazione dell’attività d’impresa, pregiudicherebbero l’interesse pubblico all’esecuzione continuativa del servizio. Né tale pregiudizio potrebbe essere escluso dall’istituto dell’esercizio provvisorio, essendo quest’ultimo finalizzato esclusivamente a tutelare i creditori concorsuali, e peraltro questa opzione determinerebbe un’indebita sostituzione dell’Autorità Giudiziaria all’autorità amministrativa.
LA DECISIONE DELLA CORTE
La soluzione adottata dalla Corte di legittimità è netta e lineare, a dispetto del terreno assai impervio in cui essa viene a “muoversi”.
Giova, anzitutto,
premettere, al fine di individuare la qualificazione della fattispecie di cui
trattasi, che le società “in mano pubblica” possono distinguersi tra società
“in house” e società “miste”.
Le prime si
caratterizzano per la natura ESCLUSIVAMENTE pubblica dei soci, per l’esercizio
dell’attività in favore prevalentemente dei soci stessi e per essere
sottoposte al c.d. “controllo analogo” da parte degli enti partecipanti, di tal
che, anche recentemente, la Corte di Cassazione le ha qualificate come vere e
proprie “articolazioni della pubblica amministrazione” (Cass.Civ. Sezioni
unite, sentenza del 25-11-2013 n.2628).
Tra le società
“miste”, quelle a partecipazione pubblica maggioritaria, il cui socio privato è
scelto con procedure di evidenza pubblica, postulano la necessità di trovare
una convergenza tra interessi pubblici ed interessi privati. In tale ottica,
anche lo stato di insolvenza in cui tali enti vengano ad trovarsi impone il
bilanciamento tra l’interesse pubblico alla prestazione regolare del servizio
ed la tutela dei creditori, anche attraverso lo strumento della procedura
concorsuale.
(Sul punto si veda Consiglio di Stato , sez. VI,
decisione 23.09.2008 n° 4603)
Ripercorrendo l’evoluzione (anche normativa) delle società a partecipazione pubblica sotto la vigenza del codice civile del ’42, gli ermellini rilevano come non si sia mai dubitato che esse siano e restino soggetti di diritto comune e, come tali, sottoposti all’applicazione della disciplina privatistica. Tuttavia, il dubbio ermeneutico nel caso di specie deriva dal fatto che, in ragione del mutato contesto politico-economico degli ultimi decenni, l’assottigliarsi del confine tra l’agire pubblico e l’agire privato ha condotto spesso all’affermarsi di una concezione “funzionale” dell’attività della P.A., in luogo della pregressa “autoritatività”.
Ciò nonostante, il quadro normativo di riferimento non è mutato, atteso che il legislatore ha ricompreso le società pubbliche tra quelle di diritto comune, anche di recente, con il D.Lgs. n.3 del 2003 (riforma del diritto societario) e con il D.Lgs. n.5 del 2006 (riforma del diritto fallimentare).
Quanto alle specifiche normative che assoggettano alla disciplina pubblicistica anche gli enti di diritto comune, qualora questi siano istituiti per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale e partecipate da soggetti pubblici, il Collegio è chiaro nel circoscriverne l’applicabilità ai soli settori che le predette normative mirano a disciplinare (ad esempio, la disciplina dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi o forniture).
Ad avviso della Cassazione, poi, anche i casi in cui la giurisprudenza si è espressa circa l’assimilabilità alla natura pubblicistica delle società in mano pubblica (si vedano, tra tutte, le pronunce in tema di assoggettabilità degli amministratori di tali società alla giurisdizione della Corte dei Conti, per i danni arrecati al patrimonio dell’ente pubblico, nonché al patrimonio della stessa società, come affermato in una pronuncia depositata in data successiva alla sentenza in esame e già oggetto di commento sulla rivista
Cass.civ. SS.UU., Sent. n.26283 del 25.11.2013), non elidono il principio espresso più volte dalla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne detiene in tutto o in parte il capitale (per tutte, Cass. S.U. n. 7799/05), e ciò perché
“il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia, posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.
La Suprema Corte richiama poi, dichiarandola non condivisibile, la tesi, di recente avanzata anche nella giurisprudenza di merito, che vi siano società partecipate aventi sostanziale natura giuridica pubblica, desumibile in via interpretativa da taluni indici (in linea di massima, e di volta in volta, ravvisati in limitazioni statutarie all’autonomia degli organi societari, nell’esclusiva titolarità pubblica del capitale, nell’ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti dallo stato, nell’erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo), le quali vanno equiparate ad ogni effetto (e dunque anche ai fini della loro esenzione dal fallimento) agli enti pubblici.
Tale tesi “mal si concilia con la perdurante vigenza del principio generale stabilito dalla L. n. 70 del 1975, art. 4, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco”.
Sulla base di tali premesse, ed anche in considerazione del fatto che anche quando norme legislative pongano limiti all’autonomia degli organi deliberativi la volontà negoziale della società continua a manifestarsi nelle forme e secondo le regole del diritto privato, si arriva ad affermare, nel punto centrale della decisione, che qualsivoglia disciplina speciale, riguardante la costituzione della società, la partecipazione pubblica, la designazione degli organi, non può incidere sul modo in cui l’ente opera nel mercato e, pertanto, non può comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica.
Più complessa è l’analisi del dato “funzionale”, in quanto, se l’art.2247 cc indica quale elemento caratteristico delle società di capitali la presenza dello scopo di lucro, tale norma mal si concilia con l’operare di talune società pubbliche.
Pur tuttavia, il Collegio ha notato come il modello societario è da tempo caratterizzato da connotati sempre più “elastici” e non si può solo per la divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo ricondurre le società in mano pubblica ad un tertium genus, sottraendole così alla disciplina dettata in generale per le società di capitali.
In sostanza, e qui la Corte si esprime nettamente, “ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento”.
E ancora, il Giudice di legittimità ricorda che la fallibilità della società in mano pubblica non può essere esclusa sulla base di una valutazione di “necessità” del servizio da essa svolto, atteso che, anche il D.L. n.134 del 2008, che detta norme in materia di ristrutturazione industriale di grandi imprese in crisi che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, non esclude la sottoponibilità di queste ultime all’amministrazione straordinaria.
Ragion per cui, non si vede perché le società che non raggiungono le soglie dimensionali per l’applicabilità di quest’ultima disciplina dovrebbero essere sottratte dall’applicazione della procedura di fallimento.
Peraltro, il fallimento della partecipata di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto e l’eventuale pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio può essere evitato attraverso il ricorso all’istituto dell’esercizio provvisorio, previsto dalla L. Fall., art. 104.
“Nè si comprende sotto quale profilo l’autorizzazione alla continuazione temporanea dell’esercizio dovrebbe comportare una inammissibile sostituzione dell’autorità giudiziaria ordinaria all’autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell’esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento”.
La Corte conclude per la fallibilità della società in mano pubblica, atteso che costituirebbe una grave violazione dei principi di uguaglianza e di legittimo affidamento dei terzi (rectius, dei creditori) escludere tali società dall’assunzione dei rischi connessi alla loro insolvenza.
I creditori, pertanto, devono essere forniti anche della tutela concorsuale, sulla base della considerazione che chi opera all’interno di un medesimo mercato, con le stesse forme e nelle stesse modalità non può ricevere un trattamento di maggior favore dall’ordinamento, pena il manifestarsi di un grave effetto distorsivo sul piano della concorrenza.
La pronuncia, che si apprezza per chiarezza e linearità, pone un altro importante “tassello” nel complesso e ancora scomposto quadro interpretativo sul fenomeno delle società in mano pubblica.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato – Presidente –
Dott. CRISTIANO Magda – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso 559/2012 proposto da:
ALFA S.R.L. (C.F. (OMISSIS)),;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ALFA S.R.L., BETA S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 119/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2011;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 25.10.2011, ha respinto il reclamo proposto da ALFA S.R.L. contro la sentenza del tribunale di Avellino dichiarativa del suo fallimento.
Per quanto nella presente sede ancora rileva, la corte territoriale ha ritenuto che ALFA detenuta per una quota di partecipazione pari al 51% del capitale dall’ente pubblico ENTE del Comune di (OMISSIS) cui il prefetto di Napoli aveva affidato, in regime di concessione, la realizzazione e la gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della provincia, fosse assoggettabile a fallimento, ai sensi della L.Fall., art. 1, dovendosi escludere, nonostante il carattere pubblico dell’attività svolta ed il connesso interesse pubblico alla continuità del servizio che ne era oggetto, la sua natura di società strumentale di un ente pubblico. Ha osservato a riguardo che né il dato formale, della partecipazione dell’ENTE. al capitale, né il perseguimento del fine pubblico costituivano elementi sufficienti a qualificare ALFA come soggetto pubblico e che, per contro, la sua natura privatistica emergeva con chiarezza sia dalla struttura societaria, caratterizzata dalla piena autonomia negoziale, finanziaria e patrimoniale del consiglio di amministrazione, le cui scelte gestionali non erano soggette ai poteri autoritativi del socio di maggioranza, sia dall’ampiezza dell’oggetto sociale, comprensivo di attività di gestione, progettazione e commerciali della più varia natura, non limitate all’ambito locale e svolte in regime di libero mercato. Ha, ancora, escluso che ALFA rivestisse carattere necessario per la prefettura, che avrebbe potuto revocare la concessione per motivi di pubblico interesse (quali, ad. es., la sopravvenuta mancanza in capo al concessionario dei requisiti finanziari, tecnici e organizzativi richiesti per la gestione dell’opera) ed ha, infine, affermato che la società non possedeva i requisiti dimensionali e di indebitamento che ne avrebbero consentito la sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria.
La sentenza è stata impugnata da ALFA Ecologica s.r.l. con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo, ed illustrato da memoria. La creditrice istante, BETA s.p.a., ed il curatore del fallimento non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso ALFA S.R.L. contesta di essere assoggettabile a fallimento.
Sostiene che l’errore interpretativo compiuto dalla corte territoriale nel pervenire alla contraria soluzione deriva dall’altrettanto errato utilizzo del criterio “tipologico”, che risolve il problema dell’assoggettabilità a fallimento della società partecipata da un ente pubblico in base all’accertamento, indipendente dalla veste giuridica formale da essa assunta, della sua effettiva natura (pubblica o privata), anzichè del diverso e più corretto criterio “funzionale” o “sostanzialistico” che, rinunciando alla pretesa di qualificazione della società, si propone di individuare il regime giuridico applicabile attraverso una valutazione di compatibilità della disciplina di diritto privato con le specifiche normative di settore dettate dal legislatore per l’attività di impresa da essa svolta.
Per illustrare l’inutilità del tentativo di individuare uno “statuto” unitario delle società a prevalente (o totalitaria) partecipazione pubblica, la ricorrente rileva che dette società, ancorchè soggette ad una serie di normative pubblicistiche, sono disciplinate dal diritto privato per altri profili ed, in particolare, per ciò che riguarda le controversie interne fra organi sociali e fra questi ultimi e i soci, spettanti alla giurisdizione del giudice ordinario.
Proseguendo nel ragionamento, ALFA osserva, ancora, che le condizioni richieste per l’applicazione delle diverse normative non sono omogenee, con la conseguenza che alcune società in mano pubblica sono soggette all’applicazione dell’intera disciplina richiamata, mentre ad altre possono essere applicati solo “spezzoni” di disciplina e che la natura e l’intensità del collegamento fra l’ente pubblico e la società da questo partecipata, necessari ai fini dell’applicazione della disciplina di settore pubblicistica, sono estremamente variabili, spaziando dal “controllo analogo” richiesto per la legittimità degli affidamenti in house, alla qualifica di “organismo di diritto pubblico” ai fini dell’assoggettamento alle norme dettate per gli appalti di opere pubbliche, alla mera natura di “attività di pubblico interesse” per l’applicazione della normativa sul diritto di accesso. Rileva, infine, a suggello della tesi dell’inutilità dell’indagine concernente la natura giuridica pubblica o privata delle società in mano pubblica ai fini dell’individuazione della normativa loro applicabile, che l’assoggettamento delle stesse alla disciplina pubblicistica non discende da tale natura ed è prevista solo quando il legislatore (o la giurisprudenza) la reputino necessaria per la tutela di interessi di natura pubblicistica o collettiva che presiedono all’agire della P.A. che, in ragione della loro veste privatistica, esse potrebbero legittimamente ignorare.
A dire della ricorrente, abbandonata la strada percorsa dalla corte di merito, per stabilire se determinate discipline pubblicistiche possano applicarsi a soggetti formalmente privati occorre piuttosto guardare, di volta in volta, agli interessi protetti da quelle discipline; con la precisazione che la scelta (ad es. in materia di appalti) è stata talvolta già compiuta dal legislatore, mentre altre volte è rimessa alla valutazione degli interpreti (come nel caso della giurisdizione amministrativa sugli atti).
Secondo ALFA questo criterio può essere utilmente seguito anche nell’affrontare il tema dell’assoggettamento delle società in mano pubblica al fallimento. In proposito la ricorrente deduce che la ragione per la quale la L. Fall., art. 1, prevede la non fallibilità degli enti pubblici risiede nell’incompatibilità della procedura, avente carattere di esecuzione generale e fine di tutela dell’intero ceto creditorio, rispetto all’ordinaria attività dell’ente pubblico, che ne resterebbe paralizzata, con conseguente impedimento per l’ente di perseguire l’interesse pubblico in vista del quale è stato istituito; aggiunge che gli organi della procedura concorsuale non potrebbero mai sostituirsi agli organi politici di gestione, non essendo ammissibile un’interferenza di tipo giudiziario nella sovranità dell’ente.
Ciò premesso, ALFA sottolinea come il fallimento di alcune società a partecipazione pubblica non pregiudicherebbe alcuno degli interessi tutelati dall’art. 1 cit., laddove, per altre società, la lesione sarebbe in re ipsa.
Le società appartenenti a questa seconda categoria sono individuate dalla ricorrente nelle partecipate che presentano il carattere della necessità, nel senso che la loro esistenza e la loro operatività sono considerate necessarie dall’ente territoriale, che intrattiene con le stesse rapporti connessi a tale valutazione ed affida loro lo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (quale è, per l’appunto, il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti); né, a dire della ricorrente, il carattere necessario della società sarebbe escluso dalla possibilità per l’ente di revocare la concessione, posto che la necessità può essere anche temporanea e perciò permanere fino a quando la concessione non venga affidata ad un altro soggetto.
Gli effetti immediati del fallimento, che sono lo spossessamento del debitore e la cessazione dell’attività di impresa, pregiudicherebbero, secondo ALFA, l’interesse pubblico all’esecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico essenziale svolto dalla partecipata e il pregiudizio non potrebbe essere evitato neppure disponendo l’esercizio provvisorio, che è istituto volto alla tutela esclusiva dei creditori concorsuali.
Sotto altro profilo, la ricorrente rileva come, per effetto del fallimento, verrebbe ad essere attribuito al giudice il potere di decidere in ordine all’eventuale prosecuzione dell’attività di impresa da parte della società nonchè in ordine al possibile affidamento a terzi (attraverso l’affitto d’azienda) del servizio pubblico essenziale, e si verificherebbe una inammissibile sostituzione dell’autorità giudiziaria ordinaria all’autorità amministrativa nell’esercizio di poteri e facoltà di carattere tipicamente pubblicistico, di dubbia compatibilità con i principi costituzionali che regolano l’agire della P.A. e che riservano agli enti pubblici la titolarità delle funzioni amministrative. Sulla scorta di tali considerazioni, ALFA assume di non essere assoggettabile a fallimento in ragione della sua natura di ente necessario e strumentale della P.A., cui sono stati affidati precisi compiti e doveri in funzione della migliore tutela della salute pubblica, minacciata dall’emergenza rifiuti verificatasi nella Regione Campania. Richiama, a conferma del proprio assunto, il testo della convenzione stipulata con il Prefetto di Napoli con la quale le sono state affidate, in regime di concessione, la realizzazione e la gestione di un impianto di trattamento dei rifiuti solidi urbani ubicato nel territorio del Comune di (OMISSIS), in località (OMISSIS), ed osserva ulteriormente: 1) che, secondo quanto espressamente indicato nelle premesse dell’atto, la convenzione è stata stipulata sul presupposto “della necessità, dell’urgenza e dell’opportunità dell’opera… al fine di fronteggiare la grave situazione di pericolo determinatasi nel territorio della Regione Campania nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani”; 2) che, a mente del comb. disp. degli artt. 4 ed 8 del contratto, essa non aveva libertà di scegliere il proprio cliente né di negoziare il prezzo del servizio reso; 3) che dunque erano previste precise limitazioni della sua libertà contrattuale non altrimenti motivate che dal suo asservimento all’interesse pubblico; 4) che la sua attività successiva alla stipula è stata dettata, in modo analitico e vincolante, dalle varie ordinanze emesse dal Commissario Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti in Campania; 5) che anche la chiusura della discarica, così come le sue periodiche e temporanee riaperture, sono state disposte con ordinanze del Commissario Straordinario, tutte fondate sui presupposti della necessità ed urgenza ed ai fini della tutela della salute pubblica, 6) che, ai sensi del D.Lgs. n. 36 del 2003, art. 12 comma 3, anche dopo la chiusura essa, quale gestore, è rimasta responsabile della manutenzione, della sorveglianza e del controllo nella fase post- operativa (che dura per tutto il tempo durante il quale la discarica può comportare rischi per l’ambiente) ed ha puntualmente assolto a tale compito, sostenendo elevati costi di gestione il cui accollo non avrebbe alcuna spiegazione se non si riconoscesse il suo asservimento all’interesse pubblico. Conclude ribadendo che le società a partecipazione pubblica che rivestono carattere necessario per l’ente pubblico in ragione dell’attività svolta non possono essere dichiarate fallite perchè sussiste un’oggettiva incompatibilità fra la tutela dell’interesse pubblico e la normativa fallimentare.
Ad avviso di questo giudice, la complessa censura sin qui sintetizzata non merita accoglimento.
Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo nel nostro ordinamento: il codice civile del 1942 già dettava, agli artt. 2458, 2459 e 2460 c.c., le disposizioni applicabili, in tema di nomina e revoca degli amministratori e dei sindaci, alle “società con partecipazione dello Stato o di altri enti pubblici (ed a quelle il cui atto costitutivo prevedesse, pur in mancanza di una partecipazione azionaria, che la nomina di uno o più amministratori e sindaci spettasse alla P.A.) ma, per lungo tempo, non si è dubitato che si trattasse di società di diritto comune, interamente soggette alla disciplina civilistica (e perciò anche alla legge fallimentare), distinte dagli enti pubblici (economici) aventi ad oggetto esclusivo o principale un’attività di impresa (art. 2201 c.c.), ma non fallibili ai sensi dell’art. 2221 c.c. ed L. Fall., art. 1, comma 1.
A partire quantomeno dall’ultimo decennio del secolo scorso, il contesto politico-economico di riferimento ha però subito un innegabile mutamento: il progressivo assottigliarsi della linea di confine fra l’agire pubblico e l’agire privato, l’abbandono di una concezione autoritativa della P.A. in favore di una sua concezione funzionale, nella quale i poteri di cui essa è dotata sono intesi come meramente strumentali alla tutela dell’interesse pubblico, il convincimento diffuso che tale interesse possa essere maggiormente garantito attraverso il ricorso ad istituti di diritto comune, indubbiamente più snelli di quelli usualmente a disposizione dell’apparato burocratico, la fiducia nelle capacità del “mercato” di stimolare la competitività, e quindi di regolamentare al meglio anche attività di contenuto economico tipicamente riservate alla pubblica amministrazione, hanno dato luogo alla sempre più diffusa costituzione (al vero e proprio proliferare) di società c.d. pubbliche, a partecipazione integralmente pubblica o mista, pubblica- privata, o sottoposte ad una particolare influenza da parte di enti pubblici, aventi ad oggetto la gestione non solo di beni proprietà pubblica, ma di servizi di interesse pubblico, in precedenza erogati dallo Stato o dagli enti territoriali attraverso aziende municipalizzate.
Non è invece mutato il quadro normativo generale: il legislatore ha ribadito la scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto comune sia con il D.Lgs. n. 3 del 2003, di riforma del diritto societario, che ha sostituito agli artt. 2458/60 gli artt. 2449 e 2450 c.c. (quest’ultimo, fra l’altro – relativo all’attribuzione allo Stato o ad altri enti pubblici privi di partecipazione azionaria della facoltà di nomina di amministratori e sindaci – abrogato, a seguito dell’avvio di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea, dal D.L. n. 10 del 2007, art. 3, comma 1, convenuto nella L. n. 46 del 2007), sia col D.Lgs. n. 5 del 2006 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato il R.D. n. 267 del 1942, art. 1, comma 1.
E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica.
La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel contempo, condotto all’emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti, società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall’agire in settori di pubblico interesse: in questa sede, a mero titolo esemplificativo, si possono citare il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, comma 26 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), che definisce organismo pubblico, cui è imposto il rispetto delle norme dettate per gli appalti pubblici, qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale e dotato di personalità giuridica, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico” e la L. n. 241 del 1990, art. 22, come modificato dalla L. n. 15 del 2005, art. 15, che prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse e che, alla lettera e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Tuttavia, è proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
In altre occasioni è stata la giurisprudenza a ritenere applicabili alle società pubbliche o, comunque, attive in settori di pubblico interesse, determinate discipline pubblicistiche: Cass. S.U. n. 9096/05 ha affermato che la qualificazione di un ente come società di capitali non è di per sè sufficiente ad escluderne la natura di istituzione pubblica e quindi ad impedire l’iscrizione nell’apposito albo speciale dell’avvocato operante presso il suo ufficio legale;
Cass. S.U. n. 4511/06 (seguita da altre pronunce conformi) ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti in relazione a fattispecie di danno erariale cagionato da società beneficiane dell’erogazione di fondi pubblici, attraverso i quali erano state chiamate a partecipare alla realizzazione di un programma imposto dalla P.A.; Cass. S.U. n. 26806/09 ha ritenuto che l’azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori spetta alla giurisdizione della Corte dei conti ogni qualvolta trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’utilizzo di risorse pubbliche, o da arrecare pregiudizio al suo patrimonio (con la precisazione che, in quest’ultimo caso, l’azione erariale concorre con l’azione civile di responsabilità).
Le sentenze citate, nel prevedere l’applicabilità a società di capitali di norme pubblicistiche solo a specifici fini, non si pongono però in contrasto con il principio giurisprudenziale costantemente enunciato, a partire da Cass. n. 58/79 (proprio in una fattispecie in cui si discuteva della fattibilità di una s.p.a. concessionaria dello stato e partecipata da enti pubblici), secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perchè un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale; le numerose pronunce che ribadiscono tale principio (per tutte, Cass. S.U. n. 7799/05) trovano fondamento nell’incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia, posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina. In materia fallimentare, proprio in questa logica, ancor di recente la Suprema corte ha avuto occasione di affermare che una società per azioni il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza ed ingerenza dell’azionista pubblico, ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto societario, ed il cui oggetto sociale non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la sua qualità di soggetto privato – e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile – per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest’ultimo (Cass. n. 21991/012).
Nel contesto frammentario e multiforme di cui si è cercato sommariamente di dar conto si è tuttavia fatta strada la tesi, di recente avanzata anche nella giurisprudenza di merito, che vi sono società partecipate aventi sostanziale natura giuridica pubblica, desumibile in via interpretativa da taluni indici (in linea di massima, e di volta in volta, ravvisati in limitazioni statutarie all’autonomia degli organi societari, nell’esclusiva titolarità pubblica del capitale, nell’ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti dallo stato, nell’erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo), le quali vanno equiparate ad ogni effetto (e dunque anche ai fini della loro esenzione dal fallimento) agli enti pubblici. Va subito detto che la tesi mal si concilia con la perdurante vigenza del principio generale stabilito dalla L. n. 70 del 1975, art. 4, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco.
Essa, peraltro, non può essere condivisa alla luce di un’analisi del fenomeno societario nelle diverse fasi che lo caratterizzano.
Va in primo luogo escluso che peculiarità, tali da giustificare l’equiparazione ad un ente pubblico di società a partecipazione pubblica, si rinvengano sul piano del soggetto, ossia dell’ente giuridico “società”, e del modo in cui sono disciplinati la sua organizzazione ed il suo funzionamento, e i rapporti esistenti, al suo interno, fra i diversi organi che vi operano.
E ciò vale anche nel caso in cui norme legislative o statutarie pongano limiti alla autonomia degli organi deliberativi, posto che la volontà negoziale della società pubblica, pur se determinata da atti propedeutici dell’amministrazione, si forma e si manifesta secondo le regole del diritto privato.
Ad analoga conclusione deve giungersi avuto riguardo al piano dell’attività, cioè dei rapporti che la società, in quanto soggetto riconosciuto dall’ordinamento come dotato di una propria capacità giuridica e di agire, instaura con i terzi. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono, infatti, sul modo in cui essa opera nel mercato nè possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica.
Il discorso è indubbiamente più delicato quando si passa ad esaminare il piano della funzione, ossia dello scopo per il cui perseguimento la società è costituita ed agisce, non potendosi tacere che nell’operare di talune società pubbliche, in specie di quelle affidatane di pubblici servizi, non è sempre dato ravvisare quell’attività economica a scopo di lucro che l’art. 2247 c.c., tuttora indica come elemento caratteristico di ogni società di capitali.
Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla L. n. 91 del 1981), l’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, si può, in definitiva, concordare con l’assunto della ricorrente, secondo cui non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell’interesse perseguito, da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene l’appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società-ente, sottratto in foto al diritto comune.
Ciò che non può condividersi è invece il corollario che da tale premessa ALFA Ecologica intende trarre, che si sostanzia nell’affermazione che la verifica dell’applicabilità alle società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di specifiche disposizioni normative, va compiuta di volta in volta, a seconda della materia di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore. In tale ottica, per venire al tema che in questa sede interessa, secondo la ricorrente non potrebbero essere dichiarate fallite le società partecipate (fra le quali essa si annovera) aventi carattere necessario per l’ente territoriale, ovvero quelle che svolgono un servizio pubblico essenziale, la cui esecuzione continuativa e regolare verrebbe ad essere pregiudicata dalla dichiarazione di fallimento.
La prima, facile, obiezione che può muoversi a tale assunto è che ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento.
Neppure è persuasivo l’argomento che, dalla necessità del servizio pubblico gestito, vorrebbe far derivare la necessità del soggetto privato che lo eroga, con conseguente sua esenzione dal fallimento.
Va intanto ricordato che il D.L. n. 134 del 2008, convertito dalla L. n. 166 del 2008, detta norme specifiche in materia di ristrutturazione industriale di grandi imprese in crisi che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, proprio al fine di assicurare che questi non subiscano interruzioni, ma non esclude che tali imprese siano sottoposte alla procedura di amministrazione straordinaria.
Risulterebbe pertanto privo di coerenza un sistema che, per contro, esonera dalla procedura concorsuale ordinaria i gestori di servizi pubblici essenziali che non raggiungono le soglie dimensionali necessarie per accedere a quella di amministrazione straordinaria.
Venendo, più specificamente al tema delle società partecipate da enti locali, la complessa disciplina ricavabile dal D.Lgs. n. 267 del 2008, artt. 112 e 118 (T.U.E.L.) e dalle successive leggi di modifica e/o di integrazione mantiene fermo il principio della separatezza fra titolarità degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici (che devono restare di proprietà degli enti, salvo che questi non li conferiscano a società a capitale interamente pubblico e incedibile) e attività di erogazione dei servizi, che può essere affidata anche a soggetti privati (L. n. 138 del 2011, art. 4, comma 28).
Il fallimento della partecipata, ancorchè, in ipotesi, costituta all’unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude dunque all’ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all’esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto.
Infine, il pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio, per il tempo necessario all’ente locale ad affidarlo ad un nuovo gestore, può essere evitato attraverso il ricorso all’istituto dell’esercizio provvisorio, previsto dalla L. Fall., art. 104. Va condivisa sul punto la tesi, avanzata in dottrina e seguita anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l’esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell’interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall’impresa fallita.
Nè si comprende sotto quale profilo l’autorizzazione alla continuazione temporanea dell’esercizio dovrebbe comportare una inammissibile sostituzione dell’autorità giudiziaria ordinaria all’autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell’esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento.
Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.
Le considerazioni sin qui svolte rendono superfluo l’esame delle questioni di fatto illustrate dalla ricorrente al fine di dimostrare la sua qualità di ente strumentale e necessario per la P.A..
Poichè le parti intimate non hanno svolto attività difensiva, non v’è luogo alla liquidazione delle spese del giudizio.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2013
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