In tema di liquidazione delle spese processuali, il giudice, in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, a norma della L. n. 794 del 1942, art. 24.
Quando la sentenza di primo grado sia censurata con riguardo alle spese di giudizio, sotto il profilo della violazione dei minimi della tariffa professionale, l’onere dell’appellante di fornire al giudice d’appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando specificamente importi e singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado, può essere assolto anche con nota allegata all’atto di appello ed in questo richiamata.
Questi i principi espressi dalla Cassazione civile, sez. sesta, Pres. Amendola- Rel. Vincenti, con l’ordinanza n. 14038 del 06.06.2017.
Nel caso controverso, un avvocato proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Napoli, che aveva accolto solo parzialmente l’appello proposto avverso la decisione del Giudice di pace della medesima Città, rigettando il gravame sulla disposta liquidazione dei diritti di avvocato.
Resisteva in giudizio con controricorso la Compagnia di Assicurazione, mentre non svolgeva attività difensiva l’intimato cliente.
Con il PRIMO MEZZO, l’appellante deduceva in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., per aver il Tribunale ritenuto generiche le doglianze mosse dall’appellante alla liquidazione delle spese in misura inferiore ai minimi tariffari senza indicare le specifiche voci non riconosciute, là dove, per un verso, la doglianza si riferiva alla liquidazione dei diritti avvenuta in modo globale e senza tenere conto della nota spese, che veniva allegata all’atto di appello, e, per altro verso, era “estraneo alla dedotta fattispecie” il riferimento al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60, concernente gli onorari e non i diritti di avvocato.
Con il SECONDO MEZZO, l’avvocato deduceva, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 248 del 2006 e del D.M. n. 127 del 2004, per aver il Tribunale erroneamente ritenuto non applicabile, ai fini della liquidazione delle spese processuali, il citato d.m., sulle tariffe professionali, in ragione della abolizione dell’obbligatorietà delle tariffe medesime ad opera della legge di conversione dell’anzidetto D.L. n. 223.
La Corte, preliminarmente, osservava che, a norma del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 2, commi 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, l’abolizione dei minimi tariffari può operare nei rapporti tra professionista e cliente, ma l’esistenza della tariffa mantiene la propria efficacia quando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese di giudizio in applicazione del criterio della soccombenza e ciò sino all’intervenuta abrogazione della tariffa medesima, disposta, con riferimento alle professioni regolamentate nel sistema ordinistico, dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27 con effetti dall’entrata in vigore del D.M. 20 luglio 2012, n. 140.
Pertanto, proseguivano gli ermellini, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, devono applicarsi ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di “compenso” la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata.
La Cassazione, rilevato, quindi, che il Tribunale aveva errato ad escludere l’applicabilità delle tariffe professionali di avvocato, di cui al D.M. n. 127 del 2004, in riferimento a prestazione conclusasi prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 120 del 2012, sottolineava che, in tema di liquidazione delle spese processuali, il giudice, in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, a norma della L. n. 794 del 1942, art. 24.
Invero, quando la sentenza di primo grado sia censurata con riguardo alle spese di giudizio, sotto il profilo della violazione dei minimi della tariffa professionale, l’onere dell’appellante di fornire al giudice d’appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando specificamente importi e singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado, può essere assolto anche con nota allegata all’atto di appello, e in questo richiamata.
Sulla base di quanto esposto, la Suprema Corte accoglieva il ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli, in persona di diverso magistrato, chiamato a provvedere anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
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