In merito agli effetti del fallimento, l’art. 46 L. Fall. delimita il perimetro dei beni del fallito non compresi nel fallimento in relazione alla necessità del mantenimento del fallito stesso e della sua famiglia, non potendo essere acquisita alla massa l’integralità delle somme che il primo percepisce a seguito dello svolgimento della sua attività lavorativa, essendone la concreta determinazione affidata alla discrezionalità del giudice delegato in forza della semplice richiesta del curatore fallimentare, non essendo necessaria apposita istanza del fallito medesimo.
L’acquisizione delle somme provenienti da attività lavorativa deve soggiacere alla previa deduzione delle passività incontrate dal fallito per generare quel reddito e, quindi, sul residuo netto. Ai fini della determinazione della quota di reddito da lavoro dipendente disponibile per il fallito e di quella da destinare alla soddisfazione dei creditori, ai sensi dell’art. 46, n. 2, l.fall., va ravvisata l’insussistenza di un divieto di destinazione dell’intero reddito a favore della massa, che può essere disposta qualora non emerga alcuna esigenza di mantenimento del fallito e della famiglia direttamente riconducibile alla percezione dello stipendio.
Questi i principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione, VI sez. civ. -1, Pres. Sambito – Rel. Tricomi, con l’ordinanza n. 11185 dell’11 giugno 2020.
La Suprema Corte ha ritenuto possibile l’acquisizione integrale dello stipendio del fallito da parte della procedura fallimentare se risultano ingenti somme frutto di operazioni fraudolente.
Il ricorrente, in particolare, ha impugnato il decreto con il quale il Tribunale di Torre Annunziata aveva confermato il provvedimento del Giudice delegato che aveva disposto l’acquisizione integrale dello stipendio del socio fallito all’attivo del Fallimento della Società di Fatto.
Il socio ha sostenuto che non poteva essere acquisito integralmente lo stipendio all’attivo fallimentare perchè l’esigenza di mantenimento non si poteva ridurre alle esigenze puramente alimentari e perchè l’attribuzione stipendiale andava quantificata in una misura che costituisse premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale svolta.
La Cassazione ha chiarito che la tesi sostenuta dal fallito, circa il divieto a destinare tutto lo stipendio a favore della massa, non trova riscontro nè nella L. Fall., art. 46, che si limita ad attribuire al giudice del merito un potere discrezionale volto ad accertare quanto occorra per il mantenimento del socio e della famiglia, da esercitare caso per caso alla luce delle concrete emergenze afferenti, nè nei precedenti giurisprudenziali che all’esercizio di tale potere discrezionale fanno riferimento. Un potere che nel caso di specie è stato motivatamente esercitato accertando la non ricorrenza dell’unico presupposto di fatto (la necessità per il mantenimento del fallito e della famiglia) richiesto per l’attribuzione.
Il Tribunale si è soffermato analiticamente sugli elementi sulla scorta dei quali ha accertato che non emergeva alcuna esigenza di mantenimento del fallito e della famiglia direttamente riconducibile alla percezione dello stipendio – posto che erano state accertate, anche in sede penale, rilevanti disponibilità economiche sottratte al fallimento in Italia ed all’estero e la conduzione di uno stile di vita sicuramente non proporzionato alla mera percezione dello stipendio – ed ha escluso, quindi, la ricorrenza del presupposto previsto L. Fall., ex art. 46. Pertanto, laddove non ricorra affatto il presupposto richiesto per il riconoscimento dell’attribuzione, come nel caso in esame, non vi è alcuno spazio per ragionare sulla sua quantificazione e sulla possibilità di ragguagliarla “ad una misura che possa costituire anche premio ed incentivo per l’attività produttiva e reddituale svolta”.
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