ISSN 2385-1376
Testo massima
Se la lite si conclude con una transazione, il giudice può applicare – non essendoci una parte vincitrice e una parte soccombente – criteri tali da ricondurre a “giustizia concreta” l’ammontare dell’onorario invocato dall’avvocato nei confronti del proprio cliente.
In questi termini si è espressa la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 7807 depositata il 28.03.2013, imponendo nuovi limiti agli avvocati nella determinazione della misura del compenso.
Nel caso di specie, il professionista aveva prestato la sua opera in un giudizio avente ad oggetto un contratto preliminare di compravendita per l’acquisto di un immobile ed aveva conseguentemente considerato il prezzo pattuito per la vendita come base per la determinazione dello scaglione tariffario nella redazione della nota spese presentata al cliente.
Quest’ultimo, ritenendo incongrua la cifra richiesta dal legale a titolo di compenso, aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo emesso in favore dell’avvocato; a sostegno dell’opposizione il cliente adduceva che il giudizio nel quale aveva richiesto il patrocinio del legale si era concluso con una transazione e perciò la pretesa dell’avvocato appariva eccessiva rispetto all’attività effettivamente prestata.
Nel pronunciarsi sul ricorso proposto dal legale avverso la sentenza di accoglimento dell’opposizione, la Suprema Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (Cass. 8 febbraio 2012 n. 1805; Cass. 31 maggio 2010 n. 13229; Cass. 11 luglio 2006 n. 15685) secondo il quale, nei rapporti tra avvocato e cliente – diversamente che ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente – sussiste sempre la possibilità di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione con quello derivante dall’applicazione delle norme del codice di rito.
Tale principio è desumibile dal disposto di cui al comma 2 dell’art. 6 D.M. 8.4.2004 n. 127, per il quale “nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del Codice di Procedura Civile” coordinato con il comma 4 della medesima disposizione, secondo cui nella determinazione del valore effettivo della controversia deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti.
Sulla scorta della normativa richiamata, la Suprema Corte ritiene, dunque, che al giudice sia attribuita una generale facoltà discrezionale, ove ravvisi la suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e l’effettivo valore della controversia, desumibile dai sostanziali interessi in contrasto, di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia.
A giudizio degli Ermellini, il principio in parola ha trovato corretta applicazione da parte del giudice a quo nella liquidazione degli onorari spettanti al ricorrente, laddove il giudice ha fatto riferimento al complessivo valore delle questioni sottoposte all’esame del giudice, e non anche a quello rapportato alla diversa e maggiore entità dell’intero contratto preliminare, poiché l’attività da remunerare, ossia l’opera intellettuale prestata, ha avuto ad oggetto solo detta parte del rapporto controverso, anche in riferimento all’entità del risultato pratico conseguito all’esito dalle parti.
Testo del provvedimento
Considerato in fatto
Con ordinanza del 18.1.2010 il Tribunale di Catania, chiamato a pronunciarsi sull’opposizione proposta da G.S. avverso il decreto ingiuntivo emesso dallo stesso ufficio il 26.11.2007, su ricorso dell’Avv.to F.P., per la somma di . 18.590,77, a titolo di onorari a lui dovuti per l’assistenza legale prestata in favore dell’opponente, consistita nell’attività giudiziale e in quella della precedente fase, nonché nella susseguente partecipazione alla transazione stragiudiziale, ritenuta l’ammissibilità nella specie della procedura speciale ex art. 28 della legge n. 794 del 1942 per avere il S. contestato soltanto l’entità della pretesa creditoria, ha rideterminato il compenso avanzato dall’avvocato opposto, e per l’effetto revocato il d.i., liquidando la complessiva somma di . 4.414,22, affermando che trattandosi di controversia conclusasi con transazione, non vi era una parte vincitrice ed una perdente, con la conseguenza che occorreva fare riferimento agli ampi criteri dell’art. 9 della legge n. 794 del 1942, sì da ricondurre a giustizia concreta l’ammontare dell’onorario, per cui appariva equo utilizzare lo scaglione da 51.645,70 a 103.2 91,38 e non quello preso a base dal professionista.
Avverso tale provvedimento presentava ricorso a questa corte il medesimo P., deducendo, con quattro motivi, la violazione o falsa applicazione dell’art. 1 legge n. 536 del 1949, della legge 7.11.1957 n. 1051, del D.M. 8.4.2004 n. 127, dell’art. 10 c.p.c, nonché il vizio di motivazione con riferimento alle medesime norme; la violazione del D.M. 8.4.2004 n. 127 per omessa liquidazione dei compensi indicati nella nota spese vistata dal Consiglio dell’Ordine e non contestati; la violazione ed omessa motivazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. nella liquidazione delle spese di soccombenza al 50%. L’intimato S. si costituiva in questa fase con controricorso.
Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c, ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c. proponendo il rigetto del ricorso.
Depositata memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. da parte del ricorrente, all’udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.
Ritenuto in diritto
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c. che di seguito si riporta: “Ritiene il relatore che sussistono le condizioni per il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.
Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la violazione dell’articolo 9 della tariffa professionale forense in relazione all’art. 10 c.p.c. deduce che erroneamente i giudici del merito hanno liquidato al P. il compenso con riferimento ad uno scaglione inferiore per l’attività prestata nella controversia che traeva origine dall’inadempimento da parte del promittente venditore e costruttore agli obblighi assunti con il preliminare di vendita per il quale era stato pattuito il prezzo di . 390.000,00, non realizzate alcune parti dell’edificio, oltre al risarcimento del danno determinato in . 3.000,00. Con la conseguenza che il valore della controversia per esso ricorrente non era pari allo scaglione applicato da . 51.645,70 ad . 103.291,38, bensì a quello superiore da . 258.300,00 ad . 516.500,00.
Con il secondo motivo di ricorso il P. denuncia vizi di motivazione per aver il giudice di merito omesso di chiarire le ragioni dei valori applicati, anche tra il minimo ed il medio, nonostante l’urgenza dell’attività professionale espletata su richiesta dello stesso S..
Con il terzo motivo il ricorrente lamentata che il tribunale non abbia liquidato tutta l’attività giudiziale espletata e di parte di quella stragiudiziale, indicate nella parcella azionata con visto del Consiglio dell’Ordine e non contestata dal S..
I predetti motivi – da esaminare insieme per ragioni di connessione logica in quanto concernenti la misura del compenso spettante all’avvocato P. per l’attività professionale da questi svolta in favore del S. nel giudizio relativo al contratto preliminare di compravendita per l’acquisto di una villa unifamiliare, in corso di realizzazione, con terreno antistante di pertinenza esclusiva – sono infondati.
Secondo la più recente giurisprudenza di questa corte, sulla base di una lettura dell’art. 6, comma 2, del D.M. 8.4.2004 n. 127, adeguatamente coordinata con quella del quarto comma (per il quale nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti”), si è affermato e consolidato il principio, di generale applicazione (v. in particolare Cass. 8 febbraio 2012 n. 1805; Cass. 31 maggio 2010 n. 13229; Cass. 11 luglio 2006 n. 15685), secondo il quale, nei rapporti tra avvocato e cliente (diversamente che ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente, nei quali, ai sensi del primo comma, il valore della, lite si determina secondo i criteri codicistici, salva l’adozione di quello del decisum, nelle cause di pagamento e risarcimento di danni), sussiste sempre la possibilità di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione con quello derivante dall’applicazione delle norme del codice di rito.
Tale interpretazione, aderente al criterio finalistico, secondo cui il dato letterale va opportunamente coordinato con la ricerca dell’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1, u.p.) deve ritenersi preferibile, siccome più aderente all’esigenza cui il combinato disposto delle due norme tariffarie risulta palesemente improntato, vale a dire all’osservanza di quel “principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata“, che le Sezioni Unite di questa corte (sent. 11 settembre 2007 n. 19014) hanno ritenuto appunto desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni in questione. La portata generale di tale principio informatore della materia risulterebbe palesemente frustrata dalla restrittiva accezione ermeneutica proposta nei motivi di ricorso, che relegandone l’applicazione soltanto a limitati settori del contenzioso civile, escluderebbe ogni possibilità, da parte del giudice, di porre rimedio a quelle situazioni, ricorrenti nella pratica giudiziaria, caratterizzate dall’evidente sproporzione tra pretese economiche manifestamente esorbitanti ed il valore effettivo del bene o della prestazione controversi. È da ritenersi, pertanto, che nel richiamo al “valore presunto a norma del codice di procedura civile“, la disposizione tariffaria abbia semplicemente inteso riferirsi a tutte le regole dettate dal codice di rito, ivi compresa quella ex artt. 10 e 14, correlata all’indicazione del quantum nella domanda nelle cause relative a somme di danaro o beni mobili, per la determinazione valore della controversia, attribuendo al giudice una generale facoltà discrezionale, ove ravvisi la suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e l’effettivo valore della controversia, desumibile dai sostanziali interessi in contrasto, di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia.
Detto principio ha trovato corretta applicazione da parte del giudice a quo nella liquidazione degli onorari spettanti al ricorrente, avendo fatto riferimento al complessivo valore delle questioni sottoposte all’esame del giudice e, quindi, allo scaglione della tariffa professionale relativa alle controversie di valore pari a quello cosi determinato, e non anche a quello, concernente le cause di valore superiore, rapportato alla diversa e maggiore entità dell’intero contratto preliminare, poiché l’attività da remunerare, ossia l’opera intellettuale prestata, ha avuto ad oggetto solo detta parte del rapporto controverso, anche in riferimento all’entità del risultato pratico conseguito all’esito dalle parti. Né è ravvisatale la denunziata contraddizione tra l’espresso richiamo all’obbligatoria applicazione della tariffa professionale ed il dichiarato ricorso a criteri equitativi di valutazione rapportati alle caratteristiche dell’opera prestata – entità qualitativa e quantitativa – ove, come nella specie, tali criteri abbiano avuto ad oggetto non l’individuazione del parametro di riferimento, precostituito ex lege e correttamente applicato, ma la determinazione in concreto della misura del compenso. Entro siffatto ambito, invero, può legittimamente esprimersi il potere discrezionale di liquidazione attribuito al giudice, che può aver luogo, secondo principi ormai pacifici in materia, con il prudente apprezzamento di pertinenti elementi di giudizio quali 1’oggetto ed il valore della controversia, la natura e l’importanza della controversia, la valutazione in fatto e in diritto della vicenda, il tempo e l’impegno resi necessari dall’uno e dall’altra, i risultati del giudizio ed i vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti. Esattamente ciò che ha fatto il Tribunale di Catania con l’impugnato provvedimento che, per quanto sin qui rilevato, non risulta fondatamente censurabile sotto alcuno dei prospettati profili.
Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., anche per vizio di motivazione, per avere compensato al 50% le spese del procedimento, nonostante la soccombenza del S..
Anche detta censura appare priva di pregio. Al riguardo si richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese per giusti motivi (pur nel regime anteriore a quello introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a) deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purché, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente desumibili dal complesso della motivazione adottata, e fermo restando che la valutazione operata dal giudice di merito può essere censurata in cassazione se le spese sono poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero quando la motivazione sia illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per inconsistenza o erroneità, il processo decisionale (v., ex plurimis, Cass. 6 ottobre 2011 n. 20457; Cass. 2 dicembre 2010 n. 24531).
Nella specie, il giudice di merito ha adeguatamente motivato la parziale compensazione tra le parti delle spese relative al giudizio con riferimento al parziale accoglimento dell’opposizione.”. Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra sono condivisi dal Collegio, non risultando in alcun modo contrastati dalle ulteriori considerazioni svolte da parte ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., con la quale vengono per lo più ribadite le difese esposte nel ricorso, e, per quanto attiene alla determinazione del quantum conteggiato con lo scaglione stabilito dal Tribunale in . 7.719,19 (anziché in . 2.500,00), neanche specifica le voci che concorrerebbero a detto computo.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
Rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio, che liquida in complessivi . 1.200,00, di cui . 1.000,00 per compensi ed . 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge
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Numero Protocolo Interno : 187/2013