ISSN 2385-1376
Testo massima
Qualora sia pattuito un termine essenziale per l’adempimento della prestazione, la risoluzione del contratto opera di diritto, prescindendo dall’indagine in ordine alla importanza dell’inadempimento, che è stata anticipatamente valutata dai contraenti, dovendo in tal caso il giudice limitarsi ad accertate la sussistenza e l’imputabilità dell’inadempimento.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, sezione seconda, con la sentenza n.3993 del 18.02.2011, fornendo un importante chiarimento in materia di termine essenziale ex art.1457 c.c. nella particolare ipotesi in cui questo sia apposto ad un contratto preliminare.
LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Art. 1457 cc: Termine essenziale per una delle parti
Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni.
In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione.
IL PRECEDENTE GIURISPRUDENZIALE
Nel caso di apposizione di termine essenziale ad un contratto preliminare, la Cassazione seconda sezione civile – si era già espressa con la sentenza n.3645 del 16.02.2007, enunciando la massima che si riporta di seguito.
“In tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto. Tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 cod. civ., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto (e, quindi, insidacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine”.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 30905/2006 proposto da:
ALFA SRL P.IVA (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
ENTE MORALE (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1240/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/06/2006;
Svolgimento del processo
La ALFA s.r.l. esponeva che: con contratto del 12 aprile 2002 l’ENTE MORALE aveva promesso di venderle il complesso immobiliare sito in Firenze; tale cespite era risultato sottoposto al vincolo di cui al D.Lgs. n. 490 del 1999, da parte della Sovrintendenza per i beni culturali e artistici, con conseguente diminuzione del suo valore nella misura del trenta per cento.
Pertanto, l’istante conveniva in giudizio il predetto Ente dinanzi al Tribunale di Firenze per sentire pronunciare, ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., l’esecuzione in forma specifica del preliminare previa riduzione del prezzo. Il convenuto, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda, deducendo che il vincolo in questione non solo non aveva apportato alcuna diminuzione di valore all’immobile ma era comunque conosciuto dalla promissaria acquirente;
in via riconvenzionale, instava per la risoluzione del contratto di vendita soggetto a condizione sospensiva per inadempimento dell’attrice.
Con sentenza depositata il 13 maggio 2004 il Tribunale rigettava la domanda proposta dall’attrice e, in accoglimento della riconvenzionale, pronunciava la risoluzione del contratto de quo per inadempimento.
Con sentenza dep. l’8 giugno 2006 la Corte di appello di Firenze rigettava l’impugnazione proposta dall’attrice che, in accoglimento della domanda proposta dall’appellato ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., condannava al pagamento della somma di Euro 6.000,00 a titolo di responsabilità processuale aggravata oltre al rimborso delle spese processuali.
I Giudici di appello, nel confermare il rigetto della domanda proposta dall’attrice, ritenevano che il vincolo al quale era sottoposto l’immobile de qua era ben conosciuto dall’acquirente, per cui non sussistevano i presupposti previsti dall’art. 1489 cod. civ.:
il che rendeva superflua la consulenza tecnica richiesta per accertare la condizione dell’immobile.
Se la domanda di esecuzione in forma specifica chiesta previa riduzione del prezzo non era fondata, doveva considerarsi nuova e, come tale, inammissibile quella azionata nel corso del giudizio ed avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del bene per il prezzo concordato nel contratto preliminare; tale domanda, in ogni caso, era preclusa, essendosi il contratto risolto, atteso che l’attrice doveva ritenersi inadempiente al pagamento del prezzo nel termine essenziale pattuito.
Infine, alla stregua del comportamento stragiudiziale e processuale tenuto dall’attrice che aveva proposto una domanda fondata su argomentazioni pretestuose e palesemente infondate, era riconosciuto a favore del convenuto il danno di cui all’art. 96 cod. proc. civ., comma 1, che veniva liquidato secondo i criteri previsti dalla L. n. 89 del 2001, in tema di equa riparazione del pregiudizio derivante dalla durata irragionevole del processo.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione La ALFA s.r.l., sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso l’intimato.
Le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 1489 cod. civ., nullità della sentenza e del procedimento ( art. 360 cod. proc. civ., n. 3) nonchè omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ( art. 360 cod. proc. civ., n. 5), censura la decisione gravata che aveva ritenuto la conoscenza da parte dell’acquirente della possibile presenza del vincolo, quando invece l’imposizione del vincolo sull’immobile era avvenuta in epoca successiva allo svolgimento e alla conclusione delle trattative per la compravendita: mentre altra cosa è sapere che vi sarà un vincolo, altra cosa è verificarne i contenuti e l’ampiezza.
Il motivo è infondato.
La sentenza ha verificato, attraverso una accurata e puntuale disamina della documentazione acquisita, la perfetta conoscenza da parte dell’attrice – prima della stipula del contratto intercorso fra le parti – della effettiva esistenza dei vincoli di interesse storico artistico e monumentale ai quali era soggetto l’immobile e delle limitazioni relative agli interventi edili consentiti conseguenti nonchè dell’autorizzazione data all’alienazione da parte del Soprintendente l’8 marzo 2001. Ed invero la sentenza, nel fare riferimento alla corrispondenza intercorsa fra la parti, alla documentazione in atti nonchè al contratto fra le medesime concluso, ha qualificato il contratto intercorso fra le parti, in realtà, come una vendita soggetta a condizione sospensiva (evidentemente subordinata al mancato esercizio del diritto di prelazione da parte della Sovrintendenza): il che evidentemente postulava secondo l’accertamento compiuto dalla sentenza nell’ambito dell’indagine di fatto riservata al giudice di merito e, come tale, incensurabile in sede di legittimità – l’avvenuta iscrizione del vincolo sull’immobile che era soggetto alla normativa dettata in materia di beni ambientali di cui alla L. n. 352 del 1997, art. 1 e al D.Lgs. n. 490 del 1999; pertanto, l’acquirente era perfettamente a conoscenza della sua esistenza, sicchè non sussistevano i presupposti per l’applicabilità dell’art. 1489 cod. civ..
Con il secondo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., denuncia la mancata acquisizione delle informazioni presso la Soprintendenza ai beni artistici e storici e la mancata ammissione della consulenza tecnica d’ufficio, onde verificare la consistenza dell’immobile, i vincoli su di esso gravanti e le reali possibilità di utilizzazione e di ristrutturazione dello stesso; censura la decisione laddove aveva fatto riferimento al contratto preliminare e alle prova da cui aveva tratto il convincimento circa la conoscenza nell’acquirente del vincolo.
Formula il seguente quesito: “l’omessa richiesta di chiarimenti alla Sovrintendenza dei beni artistici storici e ambientali unitamente all’immotivato rigetto della richiesta di consulenza volta ad accertare l’incidenza e rilevanza dei vincoli posti è difetto di motivazione della sentenza?”.
Il motivo è inammissibile.
Occorre premettere che la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., è riconducibile, in sede di ricorso per cassazione, al vizio di motivazione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5).
Ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, ratione temporis applicabile, i motivi del ricorso per cassazione devono essere accompagnati, a pena di inammissibilità ( art. 375 cod. proc. civ., n. 5) dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto nei casi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), e, qualora – come nella specie – il vizio sia denunciato ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.
Analogamente a quanto è previsto per la formulazione del quesito di diritto nei casi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), nell’ipotesi in cui il vizio sia denunciato ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), separatamente indicato in una parte del ricorso a ciò specificamente deputata e distinta dall’esposizione del motivo, che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (S.U. 20603/07). In tal caso, l’illustrazione del motivo deve contenere la indicazione del fatto controverso con la precisazione del vizio del procedimento logico-giuridico che, incidendo nella erronea ricostruzione del fattoria stato determinante della decisione impugnata. La norma aveva evidentemente la finalità di consentire la verifica che la denuncia sia ricondotta nell’ambito delle attribuzioni conferite dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, al giudice di legittimità, che deve accertare la correttezza dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice esclusivamente attraverso l’analisi del provvedimento impugnato, non essendo compito del giudice di legittimità quello di controllare l’esattezza o la corrispondenza della decisione attraverso l’esame e la valutazione delle risultanze processuali che non sono consentiti alla Corte, ad eccezione dei casi in cui essa è anche giudice del fatto. Si era, così, inteso precludere l’esame di ricorsi che, stravolgendo il ruolo e la funzione della Corte di Cassazione, sollecitano al giudice di legittimità un inammissibile riesame del merito della causa.
Nella specie, è mancata la relativa sintesi con la separata e specifica indicazione del fatto controverso in relazione alla ratio decidendi della sentenza impugnata, atteso che la ricorrente in sostanza sollecita da parte della Corte una (inammissibile) valutazione nel merito circa i presupposti per l’accoglimento delle istanze istruttorie formulate.
Con il terzo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2932, 1489, 1490 e 1489 cod. civ., censura la sentenza che aveva respinto, perchè erroneamente ritenuta tardiva, la domanda di cui al citato art. 2932, quando sin dall’atto di citazione l’attrice aveva chiesto l’esecuzione in forma specifica dichiarandosi pronta all’adempimento pieno con l’offerta del prezzo concordato nei modi di legge; l’attrice non poteva essere considerata inadempiente , non avendo rifiutato di pagare il prezzo pattuito nel caso di reiezione della domanda di quanti minoris.
Il motivo va disatteso.
Secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata, l’attrice con l’atto di citazione aveva proposto domanda di trasferimento dell’immobile de quo ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., che ne subordina l’accoglimento alla offerta da parte dell’istante della controprestazione ancora dovuta: contestualmente alla richiesta di trasferimento, era stata proposta domanda di quanti minoris del prezzo ed era formulata offerta del prezzo ridotto.
La domanda di trasferimento al prezzo concordato in contratto è stata ritenuta inammissibile, sul rilievo che la stessa era stata proposta per la prima volta in appello, oltre che tardivamente nelle conclusioni definitive di primo grado.
Orbene, essendo stata rigettata perchè risultata infondata la domanda di riduzione del prezzo, correttamente i Giudici hanno escluso la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della domanda, posto che l’offerta della controprestazione era inidonea perchè non corrispondeva a quanto effettivamente dovuto dall’attrice: la mancanza di una valida offerta formulata con l’originario atto di citazione, quanto meno in via subordinata, evidenziando piuttosto l’intenzione di non adempiere l’obbligazione alle condizioni stabilite nel contratto, comportava per tale ragione l’inammissibilità di quella avanzata nel successivo corso del giudizio relativamente al prezzo effettivamente dovuto secondo quanto concordato in contratto.
Ciò posto, l’attrice avrebbe dovuto: a) dimostrare di avere proposto con l’atto introduttivo del giudizio domanda subordinata di trasferimento del bene alle condizioni pattuite previa offerta del prezzo pattuito trascrivendo, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, il testo di tale domanda; b) denunciare la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per omesso esame di tale domanda. Tali prescrizioni non sono state assolte dalla ricorrente, che si è limitata a dedurre di avere proposto sin dall’atto introduttivo del giudizio la domanda di trasferimento al prezzo effettivamente dovuto Con il quarto motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1456, 1457 e 1367 cod. civ., censura la sentenza laddove aveva ritenuto irrimediabile l’inadempienza della promissaria acquirente non avendo provveduto al pagamento del prezzo nel temine essenziale, senza tenere conto della volontà, precisa e sempre manifestata, di essa ricorrente di provvedere al versamento del corrispettivo dovuto e del principio di conservazione degli atti giuridici. I Giudici non avevano tenuto conto del principio enunciato dalla giurisprudenza secondo cui il termine per l’adempimento deve ritenersi essenziale solo quando risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del tempo e che l’essenzialità deve risultare dalla natura e dall’oggetto del contratto. Il motivo è infondato.
Qualora – come nelle specie secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata – sia pattuito un termine essenziale per l’adempimento della prestazione, la risoluzione del contratto opera di diritto, prescindendo dall’indagine in ordine alla importanza dell’inadempimento, che è stata anticipatamente valutata dai contraenti, dovendo in tal caso il giudice limitarsi ad accertate la sussistenza e l’imputabilità dell’inadempimento. Con il quinto motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 96, 116 e 301 cod. proc. civ. nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 1, e segg., censura la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto i presupposti della responsabilità processuale aggravata quando non ricorrevano nè la malafede nè la colpa grave previste dalla norma citata; mentre ai fini del responsabilità di cui all’art. 96 citato rileva il comportamento processuale della parte, i Giudici avevano posto a base della decisione circostanze e documentazione relative alla complessa vicenda intercorsa fra i contraenti che, avendo ad oggetto la condotta stragiudiziale, erano del tutto ininfluenti così come non potevano avere rilievo gli elementi risultanti da un diverso giudizio intercorso fra le parti e dichiarato estinto; la sentenza si era diffusa in espressioni fuori luogo e offensive; del tutto inconferente era stato il richiamo alla L. n. 89 del 2001, e alla liquidazione del danno secondo i criteri dettati da tale legge, tanto più che nella specie il convenuto era una persona giuridica privata.
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che l’accertamento, ai fini della condanna al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., dei requisiti dell’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma primo) ovvero del difetto della normale prudenza (comma secondo) implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se la sua motivazione in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento soggettivo ed all'”an” ed al “quantum” dei danni di cui è chiesto il risarcimento risponde ad esatti criteri logico-giuridici. Ed invero la sentenza ha accertato la temerarietà della lite che va ravvisata nella coscienza dell’infondatezza della domanda (o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza): nel verificare la malafede tenuta dall’attrice, ha motivato il riconoscimento del danno, tenendo conto del (e basandosi sul) comportamento processuale tenuto dall’attrice nel presente giudizio, seppure si è ampiamente diffusa anche sulla condotta extraprocessuale o ancora sugli elementi di cui al giudizio estinto, che peraltro non costituiscono la ratio decidendi posta a base della decisione. Ed invero, anche alla luce della complessiva motivazione, con cui è stata evidenziata la piena conoscenza dell’esistenza del vincolo da parte dell’attrice, i Giudici hanno messo in risalto la inconsistenza e la pretestuosità delle domande pervicacemente proposte anche in grado di appello, formulate allo “scopo di mantenere l’indisponibilità del complesso immobiliare tramite la trascrizione della domanda e/o anche per cercare eventualmente di acquisirlo o farlo acquisire da terzi a prezzo stracciato”: in tal modo la sentenza ha inteso evidenziare, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., che l’attrice era in malafede o quanto meno consapevole dell’infondatezza della domanda proposta.
Relativamente all’entità del danno sofferto, se l’esistenza e la prova devono essere offerte dall’istante sia per quanto concerne l'”an” sia per il “quantum debeatur”, il pregiudizio derivante da condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, può desumersi da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo ( art. 111 Cost., comma 2) e della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l'”id quod plerumque accidit”, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, causano “ex se” anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. 24645/2007). D’altra parte, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è – tenuto conto dell’orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo – conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche (Cass. 1746/20101;
2246/2007).
Il ricorso va rigettato.
La domanda di risarcimento del danno, proposta dal resistente ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., relativamente al giudizio di cassazione, è infondata, tenuto conto che, in considerazione della natura delle questioni sottoposte al sindacato di legittimità, devono al riguardo escludersi i presupposti della norma citata.
Le spese della presente fase vanno poste a carico della ricorrente, risultata soccombente.
PQM
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 10.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 709/2011