ISSN 2385-1376
Testo massima
I criteri fissati dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, per la determinazione del carattere usurario degli interessi non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all’entrata in vigore della stessa legge, quando il rapporto si sia risolto prima della L. n. 108 del 1996, né rileva la pendenza della controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua risoluzione ha lasciato in capo ad una delle parti delle ragioni di credito.
Anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, la pattuizione di interessi elevati non costituisce, infatti, motivo di illiceità del negozio, essendo illecito solo quello in cui si ravvisino gli estremi dell’usura. Conseguentemente può ritenersi l’illiceità del contratto solo se ricorrano un vantaggio usurario, lo stato di bisogno del debitore e l’approfittamento di tale stato da parte del creditore.
E’ quanto stabilito dalla Corte di Appello di Potenza con la sentenza del 27 novembre 2013 resa in materia di usura bancaria, con una pronuncia che si sofferma, in particolare, sulla spinosa questione della applicabilità della legge antiusura ai rapporti sorti ed esauriti prima della vigenza di quest’ultima.
La pronuncia trae origine da un appello proposto da un cliente avverso una sentenza del Tribunale di Matera, che – decidendo sull’opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso a suo carico e a favore della Banca aveva rigettato l’opposizione del cliente e condannato lo stesso al pagamento delle spese di lite in favore della banca cessionaria del credito.
Con il suddetto atto di appello, il cliente invocava la riforma della sentenza di primo grado, chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo, e, in subordine, la riduzione dalla somma dovuta. A sostegno delle proprie censure deduceva, in particolare, che il tasso convenzionale del 16% violava la soglia di cui alla L. n. 108 del 1996 (c.d. legge antiusura).
La specialità del caso va individuata nel fatto che il rapporto oggetto di contestazione era sorto (e vieppiù esaurito) prima dell’entrata in vigore della legislazione antiusura del ’96, circostanza che, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza minoritarie, non osterebbe all’applicabilità delle soglie di usura introdotte dalla nuova normativa, dal momento che quest’ultima avrebbe introdotto un principio di carattere generale che renderebbe immeritevole di tutela ex art. 1322 cc, nonché in contrasto con il canone di buona fede oggettiva, l’incasso di interessi oltre soglia.
Tale tesi si scontra, tuttavia, con i principi di certezza del diritto (accordando rilevanza all’usura sopravvenuta, la banca non sarebbe mai certa di incassare le somme lecitamente pattuite), nonché con gli effetti distorsivi arrecati al meracato del credito (i mutui a tasso fisso diverrebbero, paradossalmente, “a tasso variabile solo in melius per il cliente”.
A negare rilevanza alla categoria dell’usurarietà sopravvenuta, vi è poi la normativa di interpretazione autentica di cui all’art. 1 del D.L. n. 394 del 2000, conv. con modificazioni in L. n. 24 del 2001 (norma che ha superato, in parte qua, il vaglio della Corte Costituzionale – sent. n. 29/2002, par. 4), a mente della quale “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
Ed è proprio su tale aspetto che si sofferma la Corte d’Appello di Potenza, quando afferma che, soprattutto a seguito dell’interpretazione fornita dal legislatore, i criteri fissati dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all’entrata in vigore della stessa legge, in quanto detti criteri non possono essere applicati a rapporti esauriti prima della L. n. 108 del 1996, né rileva la pendenza della controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua risoluzione ha lasciato in capo ad una delle parti delle ragioni di credito.
Ciò posto, il Collegio, individuata la normativa applicabile ratione temporis, con riguardo alla determinazione del tasso d’interesse in misura ultra legale e alla sua asserita natura usuraria, ha precisato che il carattere ultra legale degli interessi non costituisce di per sé motivo di nullità della pattuizione, essendo consentito alle parti di determinare un tasso d’interesse diverso e superiore a quello legale purché ciò avvenga in forma scritta. La pattuizione di interessi elevati non costituisce, infatti, motivo di illiceità del negozio, essendo illecito, prima dell’introduzione delle soglie di cui alla L.108/1996, solo quello in cui si ravvisino gli estremi dell’usura ex art.644 cp. Conseguentemente può ritenersi l’illiceità del contratto solo se ricorrano un vantaggio usurario, lo stato di bisogno del debitore e l’approfittamento di tale stato da parte del creditore.
In conclusione, la Corte di Appello di Potenza ha revocato il decreto ingiuntivo opposto, rimodulando le somme ingiunte sulla scorta del dedotto e comunque non riscontrato nel caso di specie anatocismo, pronunciando distinte condanne di pagamento in favore dell’istituto di credito e condannando il cliente al pagamento dell’80 per cento delle spese del doppio grado di giudizio in favore della banca, compensandole per il residuo.
Per approfondimenti sul punto si veda:
Testo del provvedimento
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