LE MASSIME
La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso.
La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché “fuori mercato”, donde la formula: “T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto”.
Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista.
Si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti.
Anche in corso di rapporto sussiste l’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell’accordo; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, la valutazione di usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento.
Nei contratti conclusi con un consumatore, concorre la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies cod. civ..
L’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto.
Così la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, Pres. Mammone – Rel. Cirillo, con la sentenza n. 19597 del 18 settembre 2020 ha inteso scrivere la parola “fine” sull’annoso “dilemma” degli interessi moratori.
IL COMPLESSO ITER ARGOMENTATIVO
La pronuncia, che si pone a valle di un lungo e complesso dibattito giurisprudenziale, trae la propria origine concreta dalla controversia decisa – in seconde cure – dalla Corte d’Appello di Genova con sentenza del 30 luglio 2014, che aveva respinto le impugnazioni, principale ed incidentale, avverso la decisione del Tribunale della stessa città in data 12 giugno 2008, la quale aveva revocato il decreto ingiuntivo di € 18.500,94, oltre interessi al tasso del 17,57% annuo, emesso su istanza di un istituto di credito a titolo di rate insolute, capitale residuo, interessi moratori e penale, relativi ad un contratto di credito al consumo stipulato il 23 aprile 2002, ed aveva condannato quest’ultima al pagamento della minor somma di € 12.294,01.
La Corte territoriale aveva, tra l’altro, confermato l’applicabilità della legge 7 marzo 1996, n. 108, agli interessi moratori, in virtù della precipua considerazione che il d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, nel fornire l’interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, cod. civ., fa riferimento agli interessi convenuti «a qualunque titolo» ed il criterio di cui all’art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996 è applicabile anche per l’accertamento del carattere usurario degli interessi moratori pattuiti anteriormente all’entrata in vigore del d.m. 25 marzo 2003, che ha provveduto per la prima volta alla rilevazione del tasso di mora, sicché, venendo in rilievo, nella fattispecie concreta, un interesse di mora del 18% annuo (superiore al cd. tasso soglia), la relativa clausola era da dichiararsi nulla, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, cod. civ., non rilevando il tasso in concreto applicato, pari al 17,57% annuo, in quanto, da un lato, esso derivava da una clausola comunque nulla, e, dall’altro lato, si trattava di una clausola vessatoria.
Avverso questa sentenza, l’istituto soccombente ha proposto ricorso per Cassazione affidato a dieci motivi, ai quali, per fluidità di esposizione, si rinvia per un dettagliato esame.
Per quanto interessa ai fini del presente contributo, con ordinanza interlocutoria del 22 ottobre 2019, n. 26946, la prima Sezione aveva rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sulla questione, relativa all’applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori ed alle conseguenze dell’avvenuto superamento del tasso soglia.
Donde la pronuncia del Supremo Collegio, la quale prende le mosse da un completo excursus delle motivazioni sottese a ciascuna delle tesi giurisprudenziali “contrapposte”, che qui giova richiamare testualmente.
«La tesi restrittiva.
I fautori della tesi restrittiva, che annoverano ampia giurisprudenza di merito, numerosa dottrina e l’Arbitro bancario e finanziario, espongono vari importanti argomenti:
a) lettera delle norme: l’art. 1815, comma 2, cod. civ. si riferisce ai soli interessi corrispettivi, contemplati pacificamente al primo comma della disposizione; l’art. 644, comma 1, c.p. incrimina chi si fa «dare o promettere» interessi usurari «in corrispettivo di una prestazione di denaro»; del pari, l’inciso «a qualunque titolo», contenuto nell’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, con riguardo agli interessi da considerare come usurari, è collocato dopo le parole «promessi o convenuti», non immediatamente dopo il termine «interessi», dovendosi quindi riferire ai costi accessori del credito convenuti dalle parti “a titolo” di commissioni, remunerazioni o spese, secondo quanto previsto della disposizione di legge oggetto dell’interpretazione autentica; ancora, il d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla I. n. 2 del 2009, nel dettare disposizioni sulla c.m.s., all’art. 2-bis, comma 2, ha affermato che, ai fini delle norme civili e penali sull’usura, rilevano solo «gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente», con palese riguardo agli interessi corrispettivi, remunerazione rispetto all’utilizzo dei fondi concessi;
b) legislatore storico del 2001: i lavori preparatori non hanno valore normativo, ma di tenue indizio ermeneutico;
c) funzione degli interessi: gli interessi corrispettivi hanno funzione remunerativa, i moratori, invece, risarcitoria; vi è, dunque, una netta diversità di causa e di funzione tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio, in quanto l’interesse corrispettivo costituisce la remunerazione concordata per il godimento diretto di una somma di denaro, avuto riguardo alla normale produttività della moneta, mentre l’interesse di mora, secondo quanto previsto dall’art. 1224 cod. civ., rappresenta il danno conseguente l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria; dunque, i primi sono stabiliti in dipendenza di un equilibrio concordato con riguardo al tempo previsto per la fruizione di una somma di denaro che passa da un soggetto all’altro, mentre i secondi compensano il creditore per la perdita di disponibilità del denaro mai accettata, ma solo subita, oltretutto per un periodo di tempo neppure prevedibile e foriera di costi non del tutto prevedibili neanch’essi.
Insomma, se può dirsi pure che, in termini economici, le due categorie si avvicinano, in termini giuridici assai diversa è la causa giuridica dell’attribuzione.
Si osserva, inoltre, che gli interessi moratori svolgono una funzione perfettamente lecita, né sono soggetti a giudizio di disvalore, il contrario risultando dal diritto positivo, sia quanto al disposto generale dell’art. 1224 cod. civ., sia, se si vuole con portata sistematica, dalla stessa disciplina delle operazioni commerciali di cui al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, di attuazione della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, pur intesa ad un evidente favore per le parti deboli.
Infine, ove, in futuro, il d.m. ministeriale contenesse un unico tasso soglia, comprensivo degli interessi moratori, esso sarebbe verosimilmente più alto di quello attuale, con conseguenze pregiudizievoli per il contenimento degli interessi corrispettivi;
d) ratio della norma: il fondamento della disciplina introdotta dalla riforma di cui alla legge n. 108 del 1996 non è tanto quello di predisporre uno strumento per calmierare o livellare il mercato del credito, nel senso di tenere basso il “costo del denaro” o attuare una politica di prezzi amministrati, quanto quella di mitigare il “rischio bancario”: è una tecnica per sanzionare regolamenti iniqui, pur restando nella logica negoziale; il legislatore non ha inteso indirizzare in modo autoritario ed antinomico, rispetto all’autonomia privata, il mercato dei capitali, ma, nel rispetto del principio, ha mirato al corretto funzionamento del mercato medesimo, attraverso la repressione delle condotte devianti rispetto alle sue dinamiche spontanee, nell’interesse non solo dei finanziati, ma anche degli operatori istituzionali ed, in ultima analisi, della stabilità del sistema;
e) evoluzione storica: rileva l’attuale conformazione del diritto positivo, con la distinzione degli interessi a seconda della loro funzione;
f) previsione dell’art. 1284, comma 4, cod. civ.: secondo la norma, se «le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali»: essendo, invero, sovente il tasso della disciplina speciale, di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2002, superiore al tasso-soglia usurario, allora, ai fini dell’usura, non possono rilevare gli interessi moratori convenzionali, perché, altrimenti, la norma ammetterebbe una “usura legale”;
g) mancato rilievo degli interessi moratori nel tasso soglia dei d.m.: nelle voci computate dai decreti ministeriali al fine della rilevazione del tasso medio non sono inclusi gli interessi di mora, mentre i due dati – T.e.g. del singolo rapporto e T.e.g.m. determinante il tasso soglia – devono essere omogenei: onde nel T.e.g. del singolo rapporto gli interessi moratori non devono essere conteggiati. Il mancato rilievo degli interessi moratori da parte della autorità amministrativa (cfr. la comunicazione della Banca d’Italia del 3 luglio 2013, Chiarimenti in materia di applicazione della legge usuraria) discende dall’esigenza di non considerare nella media «operazioni con andamento anomalo», le quali potrebbero addirittura, se incluse nel T.e.g., «determinare un eccessivo innalzamento delle soglie, ín danno della clientela». Dunque, il criterio dei tassi-soglia esige necessariamente che i metodi di calcolo siano perfettamente coincidenti, quanto ai costi effettivi del credito e quanto alle rilevazioni della media di mercato: è il cd. principio di simmetria. Tutto ciò, secondo un criterio di affidabilità giuridica e, ancor prima, scientifica e logica, del criterio adottato. Non solo, ma il criterio di simmetria è stato ormai accolto dalle Sezioni unite con la sentenza n. 16303 del 2018.
Sulla base di tali considerazioni, la tesi giunge, in ogni caso, a rinvenire nel sistema civilistico una tutela contro la cd. usura moratoria: in quanto, sebbene reputi che la disciplina antiusura sanzioni la pattuizione dei soli interessi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, l’interesse di mora – quale sanzione per l’inadempimento – è inquadrabile nell’art. 1382 cod. civ. e può, quindi, essere ridotto d’ufficio dal giudice, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ.; mentre resterebbe a tal fine inapplicabile l’art. 1815, comma 2, cod. civ.
La tesi estensiva.
I fautori della tesi estensiva (in tal senso, alcune pronunce di questa Corte, di cui le più recenti più ampiamente motivate: cfr. Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 13 settembre 2019, n. 22890; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442; Cass. 6 marzo 2017, n. 5598; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324) oppongono:
a) lettera delle norme: la legge – art. 1815, comma 2, cod. civ., art. 644, comma 4, cod. pen., art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996 e art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, conv. dalla l. n. 24 del 2001 – non distingue tra tipi di interessi ed, anzi, in alcuni di tali articoli si parla espressamente di pattuizione «a qualsiasi titolo»; mentre la stessa apertura espressamente apportata dall’art. 2-bis, comma 2, d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla I. n. 2 del 2009, alle voci confluenti nel T.e.g. dovrebbe indurre a ricomprendervi oggi anche gli interessi di mora;
b) legislatore storico del 2001: nei lavori preparatori della legge n. 24 del 2001, si afferma che si voleva considerare l’usurarietà di ogni interesse «sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio»;
c) funzione degli interessi: entrambi gli interessi costituiscono la remunerazione di un capitale di cui il creditore non ha goduto, nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente;
d) ratio della norma o interpretazione finalistica: il criterio oggettivo previsto dalla legge n. 108 del 1996 intende tutelare le vittime dell’usura e il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche, fini che sarebbero vanificati ove si escludessero dall’ambito di applicazione gli interessi moratori; inoltre, in caso contrario, per il creditore potrebbe addirittura essere più conveniente l’inadempimento, con la possibilità, ad esempio, di fissare termini di adempimento brevissimi per indurre facilmente la mora e lucrare gli interessi;
e) evoluzione storica: gli interessi moratori sono sorti per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; l’opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi; la presenza della duplicazione normativa ex artt. 1224 e 1282 cod. civ. dipende dall’unificazione dei codici civile e commerciale;
f) previsione dell’art. 1284, comma 4, cod. civ.: non rileva quanto stabilito da tale norma – secondo cui il saggio degli interessi legali diviene, dal momento della proposizione della domanda giudiziale, quello pari al tasso proprio dei ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali ¬perché ivi il maggior tasso degli interessi legali ha la diversa funzione sanzionatorio/deflattiva a carico del debitore inadempiente, per i casi in cui l’inadempimento perseveri pur dopo la proposizione della domanda giudiziale (che risulterà fondata) e non discende dalla semplice mora; dunque, ha una valenza prettamente sanzionatoria e punitiva anche nell’interesse generale al non incremento pretestuoso del contenzioso;
g) mancato rilievo degli interessi moratori nel tasso soglia dei d.m.: è incontestato che le voci, computate nei decreti ministeriali al fine della rilevazione del tasso medio, escludano gli interessi moratori; ma ciò non ha rilievo ermeneutico, dato che la disciplina secondaria non può costituire un vincolo alle interpretazioni giurisprudenziali degli enunciati, pena un’inammissibile inversione metodologica.
In sostanza, la circostanza che i decreti ministeriali di rilevazione non includano gli interessi moratori nella definizione del T.e.g.m., e quindi del relativo tasso-soglia, potrà, semmai, rilevare ai fini della verifica di conformità dei decreti medesimi, quali atti amministrativi, alla legge che attuano: però, in nessun caso il giudice è vincolato dal contenuto della normazione secondaria nell’esercizio del suo potere-dovere ermeneutico.
Anzi, secondo alcuni, l’esclusione degli interessi moratori dalle voci considerate dai d.m. sarebbe imposta dalla legge n. 108 del 1996, avendo questa costruito il giudizio di usurarietà su di un unico tasso soglia per ciascun tipo di finanziamento e distinto solo tra i diversi modelli contrattuali, non anche tra le differenti specie di costo del credito, onde addirittura l’eventuale rilevazione di un T.e.g.m. comprensivo del tasso degli interessi moratori sarebbe contra legem.
Si esclude, in ogni caso, la cogenza del cd. principio di simmetria, ragionando anche nel senso che la legge ha, proprio in contrario, immaginato uno spread tra T.e.g.m. e tasso-soglia, tollerato dal sistema, appunto per lasciare uno spazio ulteriore rispetto ai parametri di mercato».
Esaurita la disamina delle opposte “ragioni”, le Sezioni Unite giungono ad una sintesi assumendo una prospettiva orientata alla “più compiuta tutela” del debitore di fronte agli interessi moratori usurari.
La “severità” del legislatore del ’96 impone di non lasciare quest’ultimo “alla mercé del finanziatore” accordandogli una tutela meramente “casistica” come quella dell’art. 1384 c.c. (riduzione equitativa della penale), che condurrebbe inevitabilmente alla riconduzione degli interessi di mora entro la soglia di usura.
Una volta ricondotti gli interessi moratori nell’alveo della disciplina antiusura, come risolvere le plurime questioni “applicative”?
Ecco le soluzioni elaborate dalle SS.UU.:
i) La disciplina antiusura intende sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi, convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma altresì degli interessi moratori, che sono comunque convenuti e costituiscono un possibile debito per il finanziato.
In altri termini: vero è che l’interesse moratorio non muta la propria natura di predeterminazione forfetizzata del danno da inadempimento, ma ciò non toglie che esso debba soggiacere al limite antiusura.
ii) La mancata indicazione, nell’ambito del T.e.g.m., degli interessi di mora mediamente applicati non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali de quibus, ove essi ne contengano la rilevazione statistica.
L’esigenza del rispetto del principio di simmetria, fatto proprio dalle Sezioni unite con la sentenza n. 16303 del 2018, ben può essere soddisfatta mediante il ricorso ai criteri oggettivi e statistici, contenuti nella predetta rilevazione ministeriale, ove essa indichi i tassi medi degli interessi moratori praticati dagli operatori professionali.
Le rilevazioni di Banca d’Italia sulla maggiorazione media, prevista nei contratti del mercato a titolo di interesse moratorio, possono fondare la fissazione di un cd. tasso-soglia limite, che anche questi comprenda.
Per individuare la formula di calcolo del “Tasso Soglia di Mora”, andrà quindi maggiorato il TEGM della rilevazione statistica di mora e successivamente applicato lo “spread” previsto dalla legge (attualmente secondo la formula “+1/4 +4%”).
iii) Se i decreti non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato.
Le Sezioni unite ritengono che, in ragione della esigenza primaria di tutela del finanziato, sia allora giocoforza comparare il T.e.g. del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori in concreto applicati, con il T.e.g.m. così come in detti decreti rilevato; onde poi sarà il margine, nella legge previsto, di tolleranza a questo superiore, sino alla soglia usuraria, che dovrà offrire uno spazio di operatività all’interesse moratorio lecitamente applicato.
iv) Si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., ma in una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro.
Il Collegio ha reputato che la norma possa trovare una interpretazione che, pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, faccia seguire la sanzione della non debenza di qualsiasi interesse, ma limitatamente al tipo che quella soglia abbia superato.
Invero, ove l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della predetta soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; ma resta l’applicazione dell’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente applicazione degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente pattuiti.
La regolamentazione del mercato del credito, peraltro, non può ragionevolmente condurre a premiare il debitore inadempiente, rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità: come avverrebbe qualora, all’interesse moratorio azzerato, seguisse un costo del denaro del tutto nullo (inesistente), con l’obbligo a carico del debitore di restituire il solo capitale, donde un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 cod. civ.
Pertanto, una volta che il giudice del merito abbia riscontrato positivamente l’usurarietà degli interessi moratori, il patto relativo è inefficace.
In tale evenienza, si applica la regola generale del risarcimento per il creditore, di cui all’art. 1224 cod. civ., commisurato (non più alla misura preconcordata ed usuraria, ma) alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi, come prevede la disposizione.
Invero, tale conseguenza rinviene il suo fondamento causale nella considerazione secondo cui, caduta la clausola degli interessi moratori, resta un danno per il creditore insoddisfatto, donde l’applicazione della regola comune, secondo cui il danno da inadempimento di obbligazione pecuniaria viene automaticamente ristorato con la stessa misura degli interessi corrispettivi, già dovuti per il tempo dell’adempimento in relazione alla concessione ad altri della disponibilità del denaro.
Ciò, in quanto la nullità della clausola sugli interessi moratori non porta con sé anche quella degli interessi corrispettivi: onde anche i moratori saranno dovuti in minor misura, in applicazione dell’art. 1224 cod. civ., sempre che – peraltro – quelli siano lecitamente convenuti.
Tale conclusione è confortata – secondo le SS.UU. – da una pluralità di riferimenti normativi e giurisprudenziali comunitari.
v) Resta, quindi, la residua debenza di interessi dopo la risoluzione per inadempimento del contratto di finanziamento.
Caduta la clausola sugli interessi moratori, le rate scadute al momento della caducazione del prestito restano dovute nella loro integralità, comprensive degli interessi corrispettivi in esse già conglobati, oltre agli interessi moratori sull’intero nella misura dei corrispettivi pattuiti; tale effetto, peraltro, richiede che in sé il tasso degli interessi corrispettivi sia lecito.
Per quanto attiene le rate a scadere, sorge l’obbligo d’immediata restituzione dell’intero capitale ricevuto, sul quale saranno dovuti gli interessi corrispettivi, ma attualizzati al momento della risoluzione: infatti, fino al momento in cui il contratto ha avuto effetto, il debitore ha beneficiato della rateizzazione, della quale deve sostenere il costo, pur ricalcolato attualizzandolo, rispetto all’originario piano di ammortamento non più eseguito; da tale momento e sino al pagamento, vale l’art. 1224, comma 1, c.c.
vi) Rilevano sia il tasso astratto, sia quello in concreto applicato, a diversi effetti.
Sovente il contratto prevede un tasso degli interessi moratori, sebbene, poi, al momento dell’inadempimento, la banca applichi, a tale titolo, un tasso di misura inferiore.
Le questioni che ne derivano sono due.
La prima: se possa essere domandata la nullità (per varie cause) di una clausola sugli interessi moratori in corso di svolgimento regolare del rapporto.
La seconda: se, una volta verificatosi l’inadempimento e, quindi, il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, l’indagine sulla usurarietà dei medesimi (sempre per cause varie) debba tener conto di quelli in astratto dedotti in contratto o di quelli in concreto applicati.
Al primo quesito il Supremo Collegio ha fornito risposta affermativa.
L’interesse ad agire in relazione ad una clausola reputata in tesi nulla o inefficace sussiste sin dalla pattuizione della medesima, in quanto risponde ad un bisogno di certezza del diritto che le convenzioni negoziali siano accertate come valide ed efficaci, oppur no. Ciò perché (cfr., fra le altre, Cass. 31 luglio 2015, n. 16262) l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva.
Tuttavia – ed in ciò sta la risposta al secondo quesito, nel senso che il tasso rilevante è quello in concreto applicato dopo l’inadempimento – la conseguenza è che la sentenza sarà di mero accertamento dell’usurarietà del tasso, ma in astratto, senza relazione con lo specifico diritto vantato dalla banca, posto che ancora non sarà attuale l’inadempimento ed il finanziatore ancora non avrà preteso alcunché a tale titolo.
Onde se, da un lato, non può essere disconosciuto l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per la presenza attuale in contratto di una clausola degli interessi usurari, dall’altro lato sarà limitato l’effetto del giudicato di accertamento, non idoneo automaticamente a valere con riguardo alla futura applicazione di un interesse moratorio in concreto, ma solo ad escludere che l’interesse pattuito sia dovuto.
In altri termini, se il finanziato agisca in accertamento in corso di regolare rapporto, ed ottenga sentenza di nullità della clausola, ciò non vuol dire che, da quel momento in poi, egli potrà non adempiere e pretendere che nessun interesse gli sia applicato, oltre all’interesse corrispettivo, incluso nelle rate già dovute.
Realizzatosi l’inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto sia stato richiesto ed applicato al debitore inadempiente; cade l’interesse ad agire per l’accertamento della eventuale illegittimità del tasso astratto non applicato; i parametri di riferimento dell’usurarietà restano quelli esistenti al momento della conclusione del contratto che comprende la clausola censurata.
In conclusione, ciò che rileva in concreto in ipotesi di inadempimento è il tasso moratorio applicato; se il finanziato intenda agire prima, allo scopo di far accertare l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento del patto, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove esso fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore.
Onde tale sentenza non avrà ancora l’effetto concreto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 cod. civ.): effetto che, invece, si potrà verificare solo alla condizione – presupposta dalla sentenza di accertamento mero pre-inadempimento – che quello previsto in contratto sia stato, in seguito, il tasso effettivamente applicato, o comunque che, al momento della mora effettiva, il tasso applicato sulla base della clausola degli interessi moratori sia sopra soglia. Ove il tasso applicato in concreto sia, invece, sotto soglia, esso sarà dovuto, senza che possa farsi valere la sentenza di accertamento mero, che non quello ha considerato.
vii) Nei contratti conclusi con un consumatore, è dato anche il ricorso agli artt. 33, comma 2, lett. “f” e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005;
viii) Ne deriva l’atteggiarsi dei rispettivi oneri probatori.
Da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento.
Dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto: fra di essi, la pattuizione negoziata della clausola con il soggetto sebbene avente la veste di consumatore, la diversa misura degli interessi applicati o altro.
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Sulla scorta delle motivazioni esaminate, le SS.UU. hanno dettato i principi di diritto enucleati in epigrafe.
IL COMMENTO
La pronuncia in esame malcela le difficoltà di ricercare un delicato “equilibrio” tra gli interessi in gioco, per cui l’importanza di un dictum incrocia inevitabilmente una pluralità di aspetti: dalla mera enucleazione di principi orientativi degli accertamenti contabili, sino alla individuazione dei confini oggettivi della fattispecie di reato ex art. 644 c.p.
La finalità più immediata è quella di fornire alcune soluzioni pratiche rimaste insolute dalle Sezioni semplici della Corte di Cassazione, che a più riprese si erano pronunziate per la rilevanza degli interessi moratori ai fini della normativa antiusura (su tutte, Cass. n. 350/2013 che aveva dato origine al più corposo filone “speculativo”).
A parere di chi scrive, l’equivoco di base, che da sempre ha caratterizzato le incertezze sul trattamento della mora ai fini della l. 108/1996 è di ordine lessicale, prima che giuridico, e consiste nel definire “interessi” degli oneri che hanno una natura giuridica del tutto differente dagli “interessi” in senso tecnico, intesi come “remunerazione del prestito”.
Gli interessi di mora condividono con quelli corrispettivi solo la componente aritmetica: esprimono la predeterminazione forfettaria del danno da inadempimento ex art. 1382 cod. civ. in termini percentuali sul montante del debito scaduto. Le analogie finiscono qui, mentre la natura giuridica resta del tutto differente.
Le SS.UU. ne sono consapevoli, quando in parte motiva affermano espressamente:
«Non vi è dubbio che le categorie degli interessi corrispettivi e degli interessi moratori siano distinte nel diritto delle obbligazioni» […] «questa Corte ha inquadrato il patto sugli interessi moratori nella clausola penale ex art. 1382 cod. civ. (Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 18 novembre 2010, n. 23273; Cass. 21 giugno 2001, n. 8481; in sede penale, v. Cass. 25 ottobre 2012, n. 5683, depositata il 5 febbraio 2013). La circostanza che la misura degli interessi moratori sia prestabilita dalle parti nella relativa clausola negoziale, infatti, non ne muta la natura di liquidazione forfetaria e preventiva del danno, donde l’inquadrabilità nell’art. 1382 cod. civ., strutturandosi il patto sugli interessi moratori come un tipo di clausola penale».
La valutazione giuridica delle SS.UU. si arresta, per passare ad una considerazione di ordine “economico” (la stima del “rischio di credito”):
«Ed è del tutto ragionevole l’osservazione, secondo cui diversa è la stessa intensità del cd. rischio creditorio, sottesa alla determinazione della misura degli interessi corrispettivi, da un lato, e degli interessi moratori, dall’altro lato: se i primi considerano il presupposto della puntualità dei pagamenti dovuti, i secondi incorporano l’incertus an e l’incertus quando del pagamento – trasformandosi il meccanismo tecnico-giuridico da quello del termine a quello della condizione – onde il creditore dovrà ricomprendervi il costo dell’attivazione degli strumenti di tutela del diritto insoddisfatto; proprio in relazione a tale rischio, l’intermediario può determinare i tassi applicabili (cfr. artt. 120-undecies e 124-bis d.lgs. n. 385 del 1993)».
L’affermazione del Supremo Collegio, tuttavia, non sembra andare oltre il “lapalissiano”: il mutuante pretende un surplus sui corrispettivi per bilanciare il rischio di inadempimento del mutuatario. Il passaggio sul “perché” si debba ritenere l’interesse di mora giuridicamente soggetto ai limiti antiusura non c’è. Segue, infatti, affermazione immediata e laconica: «Ma anche tale costo deve soggiacere ai limiti antiusura» (sic!).
Nel prosieguo della pronuncia, le SS.UU. tentano di “correggere il tiro”, individuando la ratio nella «più compiuta tutela» del debitore, in quanto l’art. 1384 c.c. (riduzione della penale eccessiva) avrebbe un limite “casistico” e potrebbe condurre al massimo ad una riconduzione del tasso di mora entro la soglia di usura, mentre il mutuatario non va lasciato «alla mercé del finanziatore: il quale, se è subordinato al rispetto del limite della soglia usuraria quando pattuisce i costi complessivi del credito, non può dirsi immune dal controllo quando, scaduta la rata o decorso il termine pattuito per la restituzione della somma, il denaro non venga restituito e siano applicati gli interessi di mora, alla cui misura l’ordinamento (cfr. art. 41 Cost.) e la disciplina ad hoc dettata dal legislatore ordinario non restano indifferenti».
Rispetto alle premesse sulla diversità della natura giuridica dei due tipi di interesse, però, l’argomento della maggior tutela del soggetto finanziato non chiarisce alcunché, in assenza di espliciti riferimenti normativi che riconducano espressamente l’interesse di mora nell’alveo della normativa antiusura.
Sicché, la soluzione giuridica adottata dalle SS.UU. è, come detto, un “compromesso” dettato dall’impossibilità di discostarsi così apertamente dalle copiose pronunce delle Sezioni semplici, che hanno sempre asetticamente liquidato la questione richiamando la normativa di interpretazione autentica (legge n. 24 del 2000, art. 1) ed “aggiungendo” all’inciso «a qualunque titolo» l’espressione «anche a titolo di interessi moratori», laddove quell’inciso non è inequivocabilmente riferito alla natura (corrispettiva o moratoria) degli interessi convenuti dalle parti, ben potendosi interpretare come inteso a sanzionare qualunque modalità di pattuizione di interessi corrispettivi ultra legem, tale essendo l’oggetto della norma interpretata (art. 644 c.p., che ha ad oggetto solo le remunerazioni «a qualsiasi titolo»).
La soluzione tecnica e la simmetria che non c’è.
Che si tratti di una soluzione “forzata” lo si legge tra le righe dei successivi passaggi motivazionali, nei quali il Supremo Collegio passa a risolvere le questioni “pratiche”, mai affrontate dalle Sezioni semplici.
Qui, quasi non “convinta” del tutto della motivazione giuridica sottesa all’affermazione della sottoposizione degli interessi di mora alla disciplina antiusura, la Cassazione cerca di bilanciare gli interessi contrapposti (banca-cliente), sotto il profilo delle sanzioni.
Riafferma, quindi, l’esigenza del rispetto «del principio di simmetria, fatto proprio dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 16303 del 2018», che «ben può essere soddisfatta mediante il ricorso ai criteri oggettivi e statistici, contenuti nella predetta rilevazione ministeriale, ove essa indichi i tassi medi degli interessi moratori praticati dagli operatori professionali».
La formula può essere più sinteticamente espressa (con riferimento alla metodica di calcolo dello “spread” attualmente vigente a decorrere dal D.L. n. 70 del 13 maggio 2011):
(T.e.g.m. + maggiorazione statistica di mora) x 1,25 + 4.
La simmetria, però, non c’è.
In primis, perché è la stessa Corte ad affermare che la simmetria, in tanto sussiste, in quanto i d.m. indichino «i tassi medi degli interessi moratori praticati dagli operatori professionali», ma ben sappiamo che:
a) I tassi medi di mora (rectius, la maggiorazione media) sono rilevati solo “a campione” ed “a fini conoscitivi”, a decorrere dal decreto ministeriale del 25 marzo 2003;
b) I tassi medi di mora (rectius, la maggiorazione media) non è rilevata rapporto per rapporto e trimestre per trimestre, né è distinta a seconda delle varie “categorie omogenee di operazioni” su cui sono imperniati gli stessi d.m. trimestrali.
Sicché, se per “simmetria” s’intende “omogeneità” dei termini del raffronto, non v’è dubbio che tale omogeneità manchi in concreto, per l’inaffidabilità aritmetica dei termini stessi.
È da notare, tra l’altro, che sono le stesse SS.UU. ad intendere la simmetria in termini di omogeneità, quando affermano: «tutto ciò, atteso sia il contenuto letterale delle disposizioni che disciplinano il T.e.g. ed il T.e.g.m., ovvero l’art. 644, comma 4, c.p. e l’art. 2, comma 1, della legge n. 108 del 1996; sia l’intuitiva esigenza logica legata all’essenza stessa di ogni procedimento comparativo, che, in quanto tale, postula un certo grado di omogeneità dei termini di riferimento».
In secundis, perché l’esigenza di “simmetria” improvvisamente “sparisce” quando si tratti di analizzare il periodo antecedente il secondo semestre del 2003:
«se i decreti non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato. […] le Sezioni unite ritengono che, in ragione della esigenza primaria di tutela del finanziato, sia allora giocoforza comparare il T.e.g. del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori in concreto applicati, con il T.e.g.m. così come in detti decreti rilevato; onde poi sarà il margine, nella legge previsto, di tolleranza a questo superiore, sino alla soglia usuraria, che dovrà offrire uno spazio di operatività all’interesse moratorio lecitamente applicato».
Esigenza di simmetria avrebbe invece imposto, più coerentemente, di non considerare, almeno per il periodo antecedente al secondo semestre 2003, l’interesse di mora ai fini dell’usura oggettiva, lasciando al mutuatario la tutela dell’art. 1384 c.c. e/o l’eventuale dimostrazione dell’usura in concreto, posto che l’ordinamento non lascia il soggetto finanziato privo di strumenti.
Ma sarebbe stata una soluzione, ancora una volta, contraddittoria rispetto alle premesse del Collegio.
La soluzione giuridica, con riferimento alle “sanzioni”.
Sul piano delle “sanzioni”, è ancor più evidente l’esercizio di “funambolismo” delle SS.UU., che si muovono sul filo sottile tra le categorie della nullità e dell’inefficacia.
Qui, il Supremo Collegio, evidentemente riconosce che l’unico dato ineludibile dell’intera vicenda è la considerazione della diversità ontologica tra le due categorie di interessi, che non possono ricevere un trattamento omogeneo.
Sicché, «ove l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della predetta soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; ma resta l’applicazione dell’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente applicazione degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente pattuiti».
La Cassazione è “costretta” infatti a riconoscere quanto da sempre sostenuto dalle difese degli istituti di credito: l’estensione della nullità ex art. 1815, co. 2, c.c. agli interessi di mora avrebbe un effetto “premiante” per il debitore inadempiente, «donde un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 cod. civ. Pertanto, una volta che il giudice del merito abbia riscontrato positivamente l’usurarietà degli interessi moratori, il patto relativo è inefficace».
Ma vi è di più: al creditore insoddisfatto (benché, in ipotesi per le SS.UU., “usuraio”, sic!) spetta comunque il risarcimento di cui all’art. 1224 cod. civ., commisurato (non più alla misura preconcordata ed usuraria, ma) alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi, come prevede la disposizione: «Ciò, in quanto la nullità della clausola sugli interessi moratori non porta con sé anche quella degli interessi corrispettivi: onde anche i moratori saranno dovuti in minor misura, in applicazione dell’art. 1224 cod. civ., sempre che – peraltro – quelli siano lecitamente convenuti».
Seguono, poi, alcune considerazioni sul trattamento delle “rate scadute e rate a scadere” e sulla rilevanza del tasso moratorio “pattuito” o di quello “applicato” (con un’opzione del tutto peculiare della Cassazione per quest’ultimo, benché riconosca un interesse astratto ad agire anche prima dell’inadempimento).
Le SS.UU. concludono con l’affermazione dell’imposizione dell’onere probatorio a carico del mutuatario che intenda provare l’entità usuraria degli stessi, il quale deve «dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento. Dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto: fra di essi, la pattuizione negoziata della clausola con il soggetto sebbene avente la veste di consumatore, la diversa misura degli interessi applicati o altro».
*****
Come premesso, evidentemente le soluzioni concrete adottate dalle Sezioni Unite non appaiono pienamente coerenti con le premesse giuridiche.
In passato, in un articolo di approfondimento pubblicato su questa Rivista, si erano svolte alcune osservazioni critiche sulla sentenza della terza sezione civile n.27442 del 30.10.2018 (rel. Rossetti) per una simile ragione: la S.C., dopo aver lungamente argomentato circa la stessa natura e funzione dei due tipi di interesse (sic!), finiva per affermare che agli interessi di mora usurari non potesse applicarsi la sanzione “antiusura” di cui all’art. 1815, comma secondo c.c. (nessun interesse dovuto), ma dovesse essere imposto l’interesse sostitutivo nella misura legale, essendo comunque diversa la «causa degli uni e degli altri».
Il “peccato originale” – sia consentito – resta quello dell’erronea equiparazione del trattamento di oneri che giuridicamente hanno una natura diversa ed è chiaro che il Supremo Collegio non ha avuto il “coraggio” di pronunciarsi per l’irrilevanza, de jure condito, degli interessi di mora ai fini del riscontro di usurarietà oggettiva, benché abbia ripercorso a chiare lettere tutte le ragioni per le quali ciò parrebbe opportuno: ex multis, l’esigenza di simmetria; l’inesistenza di omogenei termini di raffronto; la diversità ontologica; l’effetto “premiante”; il trattamento differenziato ai fini sanzionatori.
Ne deriva una soluzione di “compromesso” che, come sovente accade, finisce per “scontentare” entrambe le parti “in causa”.
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